È passato un mese da quando Kim Jong-Il, il tiranno nordcoreano, ha lasciato questo mondo, ma oltre il 38° parallelo si continua a respirare aria di congetture, timori e speranze. Storia di una morte annunciata, quella del Caro Leader le cui condizioni di salute dal 2008 si erano notevolmente aggravate, e pur tuttavia occultata agli occhi indiscreti dei media per ben 48 ore, come solo l’ultima cortina di ferro ancora presente al mondo può riuscire a fare nell’era dell’informatizzazione.
Poi la notizia diffusa dall’emittente televisiva di Stato, mentre le lacrime sincere della presentatrice vestita a lutto, il cordoglio e la diperazione del popolo stridono con la realtà di un Paese alla deriva e sull’orlo della carestia. Questa l’eredità che l’ex primo uomo di Pyongyang lascia al suo successore il terzogenito Kim Jong-Un, al quale da due anni a questa parte sono state affidate posizioni di responsabilità, contemporaneamente al rafforzamento della figura del cognato Chang Suang Taek, promosso a capo della Commissione nazionale di Difesa.
Il clan dei Kim sembra così essere salvo, mentre garante della stabilità e dell’ordine continuerà ad essere l’esercito, così come lo è sempre stato dalla fondazione della Repubblica Democratica. Eppure sono in molti a riporre seri dubbi sull’adeguatezza del delfino del Caro Leader, un ragazzo non ancora trentenne, riguardo al quale la stampa internazionale ama puntualizzare il “cursus honorum” di stampo occidentale; la formazione scolastica in Svizzera, la passione per il rock e la pallacanestro. Ora tutti gli occhi sono puntati su di lui che assolutamente digiuno di politica e affari di Stato si troverà a traghettare il Paese verso un nuovo difficile equilibrio.
Una situazione non certo nuova, che sembra rievocare i fantasmi di una Corea del Nord primi anni ’90 quando, all’indomani della successione di Kim Jong-Il al padre, un decennio di crisi e carestia vessò il popolo nordcoreano, con stime che parlano di venti milioni di morti. Responsabile numero uno la dissoluzione dell’Unione Sovietica, al tempo principale erogatore di aiuti economici di quello che era già uno degli Stati più ermetici al mondo. Oggi il quadro non è più rassicurante: mentre la pancia del Paese è ridotta alla sussistenza mastodontiche infrastrutture giganteggiano inutilizzate sul suolo nazionale.
Per 17 anni il Caro Leader ha governato la Corea del Nord con il pugno di ferro, ha rafforzato il culto della personalità, istituendo un regime fondato su base familiare. Ora lascia la strada spianata al suo favorito, che affiancato dallo zio e all’esercito impugnerà le redini di Pyongyang tra i dubbi della comunità internazionale e l’indiscussa venerazione dei cittadini che nel proprio leader riconoscono una natura divina; proprio pochi giorni fa è stata diffusa la notizia dei preparativi per l’imbalsamazione delle spoglie mortali di Kim Jong-Il, stessa sorte riservata al suo predecessore, il Grande Leader.
Ma che sia un dio per il suo popolo, potrebbe non bastare laddove complesse relazioni politiche aprono un terreno accidentato per il Brillante Compagno (questo l’appellativo dato a Kim Jong-Un). Un leader manovrabile potrebbe far comodo alla ristretta cerchia di aspiranti al potere (che si esaurisce in qualche familiare o gerarca militare), mentre una risoluzione in tempi brevi è nell’interesse della stessa cricca di oligarchi desiderosi di effettuare la scalata ai vertici istituzionali.
Intanto è opinione diffusa tra gli accademici che il passaggio delle consegne al delfino del Caro Leader non avverrà nell’immediato ma gradualmente, seguendo una prassi già consolidata in passato. L’incognita ancora una volta sarà rappresentata dall’esercito, al quale, come previsto dalla nuova politica songun, spetta un ruolo di primo piano nella società. Dalla tradizionale dottrina juche - nel tempo trasformata da un embrionale “socialismo in un solo paese” verso un nazionalismo autarchico – scivolando verso un regime fortemente militarizzato: questa volta i legami di sangue, potrebbero non essere sufficienti ad assicurare una successione indolore.
A questo punto è lecito chiedersi se il rampollo di Kim Jong-Il – nel settembre 2010 affrettatamente nominato generale dell’esercito e vicepresidente della Commissione militare in seguito all’aggravarsi delle condizioni di salute paterne – sarà effettivamente in grado di tenere a bada i propri generali.
Quanto al popolo, il dolore e la commozione mostrata nei giorni successive alla dipartita “dell’amato dittatore”, potrebbero in realtà celare uno stato di disperazione latente, covato e maturato in anni di fame e privazioni. L’allentamento del controllo sugli organi d’informazione potrebbe essere foriero di pericolosi sviluppi qualora il profumo dei “gelsomini rivoluzionari” riuscisse a raggiungere la penisola coreana, innescando proteste sulla falsariga della Primavera Araba.
E lo sa bene Pechino, dallo scorso febbraio alle prese nel tentativo di reprimere sul nascere qualsiasi tentativo di protesta. La chiusura pressurizzata di Pyongyang per il momento è riuscita a scongiurare rischi di sorta, ma è difficile poter avanzare pronostici sugli sviluppi futuri, soprattutto alla luce di un eventuale indebolimento del regime post Kim Jong-Il.
La morte del Caro Leader è stata improvvisa, ma non del tutto inaspettata. I Paesi più strettamente legati a Pyongyang, per ragioni di vicinanza o per interessi di natura economica e diplomatica (leggi: Corea del Sud, Cina, Giappone e Stati Uniti), avevano sicuramente già provveduto da tempo ad immaginare un ipotetico nuovo scenario senza il tiranno nordcoreano, pianificando a tavolino le reazioni più opportune.
La Cina, da parte sua, ha immediatamente dato il suo placet al nuovo leader, confermando il proprio prezioso sostegno all’alleato nordcoreano. Al decesso di Kim padre, ha fatto seguito il rispettoso pellegrinaggio degli alti papaveri cinesi verso l’ambasciata della Corea del Nord a Pechino, scandito dalla consueta retorica politica, infarcita da una buona dose di ipocrisia.
“Un grande leader e un buon amico del nostro popolo, che ha contribuito notevolmente allo sviluppo del socialismo” le parole di benvenuto rivolte a Kim Jong-Un dal portavoce del ministero degli Esteri cinese hanno lo scopo di preservare gli equilibri consolidati.
Nonostante nel corso del tempo la tensione nell’area abbia raggiunto picchi critici, tuttavia dal 1953 ad oggi la penisola coreana si puo’ dire abbia raggiunto, malgrado tutto, una sua stabilita’. Stabilita’ fortemente auspicata da Pechino, che nel caso di un collasso del regime di Pyongyang, sarebbe costretto a far fronte ad una crisi umanitaria di proporzioni macroscopiche, alimentata dall’esodo di circa 50mila profughi nordcoreani verso le provincie settentrionali del Regno di Mezzo.
Ma non solo. Un vuoto di potere potrebbe lasciare ampio spazio di manovra ai fautori degli armamenti chimici, batteriologici e nucleari; al momento solo voci silenziate, ma che nella prospettiva virtuale di una Pyongyang alla deriva potrebbero riuscire a farsi sentire.
Pechino ha dichiarato di essere preoccupato per il futuro della regione, e pur essendo un interlocutore privilegiato nei rapporti con la nomenklatura nordcoreana, tuttavia, comincia ad avvertire il peso di un alleato sempre più’ scomodo. Se in passato la Corea del Nord veniva vista come un prezioso stato-cuscinetto, capace di ammortizzare l’impatto con una Seul americanizzata, adesso nella più ampia prospettiva di una Cina con un piu’ alto profilo internazionale, l’amicizia con Pyongyang e’ diventata motivo di imbarazzo.
Nel 2010 lo sbarramento d’artiglieria messo in atto da Pyongyang nell’isola del Mar Giallo, Yeonpyeong, ha causato per la prima volta dalla fine della Guerra di Corea (1950-53) nuove vittime tra i civili del Sud. E nonostante le ripetute smentite, su Pyongyang incombe anche l’accusa di un tentativo di affondamento ai danni di una nave da guerra sudcoreana, durante il quale all’inizio di quest’anno morirono 46 marinai.
Lo scenario di un conflitto a fuoco tra le due Coree porrebbe il Dragone davanti alla difficile scelta tra un intervento militare in aiuto dell’alleato- con conseguente degenerazione dei rapporti con Washington e Seul- e una discutibile astensione, che di fatto lascerebbe piena liberta’ di manovra agli Stati Uniti, la cui presenza nell’area viene gia’ avvertita da Pechino come una forte minaccia.
D’altra parte sono in pochi a rincorrere il sogno di una Corea unificata: una prospettiva, questa, sgradita non solo a Seul- che si dovrebbe fare carico di risollevare le sorti della popolazione nordcoreana, affrontando costi economici non indifferenti- ma anche a Washington, che nelle continue frizioni tra le due Coree ha trovato un’ottima giustificazione per piazzare un proprio avamposto in Estremo Oriente. Quanto a Pechino, l’ipotesi di avere come vicino di casa un Paese nazionalista, forte economicamente e politicamente saldo, deve apparire più come un ostacolo alla propia “ascesa pacifica” che come un fattore di stabilità.
E’ pertanto presumibile che un po’ tutti, Cina e Stati Uniti in primis, siano maggiormente propensi ad effettuare un’azione di monitoraggio nella regione il più possibile coordinata, al fine da evitare brusche sterzate. Una strategia fortemente auspicata da ambedue i Paesi, per i quali il 2012 si prospetta come un anno delicato, foriero di importanti rimescolamenti al vertice, con tanto di presidenziali a Washington e cambio di leadership a Pechino.
Al momento il Dragone esercita un’influenza determinante su Pyongyang, il quale, dopo il taglio degli aiuti economici a stelle e strisce, ha dirottato tutte le sue speranze sul potente alleato. Nell’ultimo anno e mezzo Kim Jong-Il si è recato a Pechino ben quattro volte, nonostante la sua riluttanza a varcare i confine del proprio “regno”.
Ma il legame a doppio filo nei confronti del cugino asiatico, vincola la Corea del Nord in maniera ambigua, e non è da escludere che Pyongyang cominci a sentire la propria indipendenza minacciata più dalla Cina che dagli Stati Uniti. Un’ipotesi che fornisce un’interessante chiave di lettura alla progressiva apertura dimostrata dal regime del defunto Caro Leader nei confronti della comunità internazionale: il ripristino dei colloqui a sei potrebbe essere un primo tentativo di dialogo con l’esterno, nella speranza di divincolarsi dall’incombente presenza cinese.
In altre parole la Corea del Nord ha trovato riparo nel grembo di Pechino piu’ per disperazione che per scelta: vistasi sbarrate le porte dalla maggior parte delle potenze mondiali, ha preferito conservare rapporti amichevoli con chi tutt’oggi continua a fungere da megafono per i propri interessi sullo scacchiere internazionale. Pechino riveste il ruolo di mediatore nei rapporti tra Pyongyang e gli altri Paesi coinvolti nei colloqui a sei, volti ad arrestarne la corsa all’atomica. E la morte di Kim Jong-Il è giunta proprio alla vigilia del terzo round dei colloqui bilaterali sul programma nucleare nordcoreano.
E’ dal 2003 che le sei potenze interessate (Seoul, Pyongyang, Pechino, Mosca, Tokyo e Washington) tentano di dirimere la questione coreana, incappando in non pochi ostacoli. Dopo una prima interruzione nel 2008, lo scorso maggio, grazie all’intervento cinese, la Corea del Nord era tornata a sedere al tavolo delle trattative.
Ma nonostante i progressi fatti, Pyongyang non accenna ad abbandonare il suo atteggiamento ostile. Proprio la settimana scorsa aveva accusato gli Stati Uniti di “politicizzare” il cibo, promettendo aiuti umanitari e la sospensione delle sanzioni economiche in cambio dell’interruzione dei piani sull’arricchimento dell’uranio. Un punto, quest’ultimo, riguardo al quale l’esercito si è sempre dimostrato fortemente contrario. Secondo il regime comunista Washington dovrebbe consegnare ancora più di 300 mila tonnellate di alimenti, sulla base di quanto promesso nel 2008.
Quest’anno la Corea del Nord si prepara a festeggiare il centenario della nascita del Grande leader, promettendo di migliorare la distribuzione degli alimenti tra la popolazione affamata; il raggiungimento o meno di quest’obiettivo sarà un banco di prova determinante per l’ascesa al potere dell’ultimo dei Kim.