lunedì 28 dicembre 2015

Cina: La lotta al terrorismo diventa legge



(Una traduzione integrale della nuova legge è disponibile in inglese su China Law Translate)

Domenica pomeriggio l'Assemblea Nazionale del Popolo, il "parlamento" cinese, ha approvato la tanto attesa legge sull'antiterrorismo, la prima di questo tipo in Cina, sebbene disposizioni in materia fossero già presenti nel diritto penale (Ciminal Law), nel codice di procedura penale (Criminal Procedure Law) e nella legge di risposta alle emergenze (Emergency Response Law). Sulla base della nuova norma, preannunciata nel novembre 2014, la Cina si doterà di un unico organo antiterrorismo che il Ministero della Sicurezza Pubblica ha dichiarato "avrà l'incarico di identificare le attività e gli elementi terroristici, e di coordinare le operazioni antiterrorismo a livello nazionale". Appena alcuni giorni fa, Pechino aveva nominato come suo primo zar nella "lotta al terrore" Liu Yuejin, ex assistente del ministro della Sicurezza Pubblica con oltre vent'anni di esperienza nella guerra al narcotraffico.

E' da alcuni anni che il gigante asiatico avverte l'incombente avanzata del terrorismo, specialmente nella regione autonoma musulmana dello Xinjiang, dove frizioni etniche tra l'etnia maggioritaria han e quella minoritaria turcofona degli uiguri si mescolano ad una progressiva radicalizzazione sull'onda del jihad globale. Sebbene la Repubblica popolare venga generalmente considerata una meta sicura, episodi violenti attribuiti dalle autorità ad elementi uiguri si sono verificati in diverse aree del Paese, arrivando persino a minacciare il cuore politico della Cina, piazza Tian'anmen, mentre alla vigilia di Natale le sedi diplomatiche estere avevano dato l'allerta citando generici rischi per la sicurezza degli stranieri a Sanlitun, il quartiere della movida pechinese. Uno scenario che sembrerebbe giustificare le misure restrittive adottate da Pechino, ma che gli osservatori internazionali considerano una degenerazione delle politiche etniche discriminanti adottate dalle autorità nei confronti della minoranza islamica.

Le incognite della legge antiterrorismo 

Le critiche mosse da oltre Muraglia si imperniano su tre questioni principali: 1) la possibilità che il governo cinese metta mano su dati sensibili obbligando le aziende tecnologiche straniere a consegnare le chiavi di crittografia; 2) il rischio che l'accusa di terrorismo venga estesa arbitrariamente a qualsiasi espressione di malcontento nei confronti dell'establishment cinese; 3) il pericolo che il crescente controllo sui media cinesi e sul rilascio di notizie riguardanti attacchi terroristici alzi un muro tra il Dragone e il resto del mondo, moltiplicando i dubbi sull'inusuale escalation di violenza che sta travolgendo il Paese.

Nella bozza finale è stata rimossa la controversa l'articolo che, stando alla prima stesura della legge, avrebbe richiesto alle compagnie Internet e agli altri fornitori di tecnologia la consegna di codici crittografati e altri dati sensibili per un controllo ufficiale prima del loro utilizzo. E' stato, tuttavia, confermato l'obbligo per gli Internet provider e le aziende di telecomunicazioni di assicurare "supporto tecnico e assistenza, inclusa la decrittazione," qualora venga richiesto nell'ambito di indagini e nelle operazioni di prevenzione al terrorismo. La misura, già aspramente criticata da Barack Obama in un'intervista alla Reuters dello scorso marzo, pare sia stata recentemente argomento di discussione tra il presidente americano e il suo omologo cinese Xi Jinping. Da tempo Washington avverte che la legge, giunta nel mezzo di un'agguerrita campagna antitrust, rischia di minare ulteriormente il business delle aziende straniere in Cina, fornendo a Pechino l'accesso a informazioni commerciali e comunicazioni private, scoprendo così il fianco al furto di segreti tecnologici. Accuse, queste, che il governo cinese rispedisce al mittente ricordando che "molti Paesi, compresi gli Stati Uniti, hanno introdotto leggi che impongono alle aziende tecnologiche di cooperare nelle indagini e nella sorveglianza all'antiterrorismo". "Ma se è pratica comune quella di obbligare le società a combattere il terrorismo, tuttavia, gli Stati Uniti sono andati ben oltre nell'abuso del cosiddetto 'accesso backdoor' diventando maestri delle intercettazioni a livello mondiale", sentenzia l'agenzia di stampa statale Xinhua, alludendo tra le righe al caso Prism. Insomma, il gigante asiatico starebbe semplicemente applicando regole già largamente utilizzate dalla prima potenza mondiale.

L'altra accusa più ricorrente riguarda la nebulosità con cui Pechino bolla come "terrorismo" tutto ciò che mette in dubbio la propria legittimità e integrità nazionale (comprese le rivendicazioni autonomiste del Dalai Lama in Tibet). La bozza di legge definitiva chiama terrorismo "il sostegno e l'implementazione di azioni violente, di sabotaggio e minaccia così come altri mezzi finalizzati alla diffusione del panico sociale che mettono a rischio la sicurezza pubblica violando persone e proprietà, o facendo pressione sugli organi statali e le organizzazioni internazionali per ottenere obiettivi politici, ideologici e di altro genere." Una definizione che le organizzazioni per la difesa dei diritti umani paventano possa essere facilmente impugnata contro attivisti e minoranze religiose, con il pericolo concreto che dopo l'approvazione della legge sulla sicurezza nazionale (passata a luglio) e quella sulle Ong (ancora al vaglio), la nuova norma antiterrorismo fornisca un altro grimaldello nella stretta sulla società civile sotto i vessilli del "rule of law". Inoltre, secondo quanto riportato dalla Xinhua, su richiesta della Commissione Militare Centrale e con l'approvazione del Paese interessato, l'Esercito Popolare di Liberazione (PLA) potrà ora prendere parte a missioni antiterrorismo oltreconfine, aprendo la strada ad una maggiore partecipazione delle forze armate cinesi nella lotta globale contro il terrorismo. Iniziativa di per sé apprezzabile, ma che potrebbe assumere sfumature inquietanti se proiettata indiscriminatamente nel turbolento vicinato occidentale: il potere coercitivo di Pechino ha già portato alla firma di chiacchierati accordi di estradizione con alcuni Paesi dell'Asia Centrale, dimora di una consistente diaspora uigura e di recente scenario di controversi attacchi terroristici.

La scarsa trasparenza adottata dalla stampa cinese nel rilascio delle notizie non aiuta a fugare i sospetti che adombrano la nuova legge - sospetti che la Cina lamenta sfocino in una narrazione a "doppio standard". Oltre a vietare a "privati e istituzioni la fabbricazione e diffusione di informazioni riguardo incidenti terroristici costruiti, di report e dettagli di attività terroristiche che potrebbero condurre a emulazione, e della pubblicazione di scene di crudeltà e disumanità", le nuove misure prevedono che nessuno -eccetto i media outlet preventivamente autorizzati dalle autorità competenti- potrà diffondere online e offline informazioni su attacchi terroristici o sulla risposta delle autorità. Giusto sabato il Ministero degli Esteri ha confermato l'espulsione dal Paese della giornalista francese Ursula Gauthier, dopo che a inizio mese la corrispondente del magazine L'Obs era stata accusata di aver "criticato gli sforzi messi in atto dal governo contro il terrorismo e per aver calunniato e denigrato le politiche cinesi" nello Xinjiang in un articolo tutt'ora censurato oltre Muraglia. "La Cina non difenderà mai la libertà di sostenere il terrorismo", ha dichiarato il Ministero.


Nello specifico le misure introdotte prevedono:

- L'istituzione di una nuova agenzia antiterrorismo e un centro nazionale di intelligence. Verranno inoltre creati corpi professionali antiterrorismo.

- I fornitori di servizi internet e delle telecomunicazioni saranno tenuti ad assicurare "supporto tecnico e assistenza inclusa la decrittazione" nonché a "prevenire la circolazione di informazioni" sull'estremismo.

- La polizia potrà utilizzare direttamente le armi in "situazioni di emergenza", quando si trova a contrastare assalitori armati di pistole e coltelli.

- Le operazioni antiterrorismo potranno essere estese a missioni oltreconfine.

- Verrà introdotto il divieto della propagazione di informazioni riguardo ad attività terroristiche, e della fabbricazione di false notizie su presunti episodi di natura terroristica.

- Nessuno -eccetto i media outlet preventivamente autorizzati- potrà diffondere online e offline informazioni su attacchi terroristici o sulla risposta da parte delle autorità.


mercoledì 23 dicembre 2015

Shenzhen, una tragedia annunciata


[AGGIORNAMENTI
- 28 DICEMBRE: Si è tolto la vita lanciandosi da un palazzo Xu Yuanan, il direttore dello Shenzhen Guangming New District Urban Management Bureau, il dipartimento responsabile per l'approvazione della costruzione della discarica in cui si è consumata la tragedia. E' il secondo suicidio collegato ad un disastro in due giorni: nella giornata di domenica a scegliere la morte era stato il proprietario della miniera di gesso dello Shandong crollata la settimana scorsa intrappolando 17 minatori.
Nel frattempo sono saliti a 12 gli impiegati della Shenzhen Yixianglong finiti agli arresti.
- 26 DICEMBRE: Secondo quanto emerso dalle indagini avviate dal Consiglio di Stato, l'incidente di Shenzhen non è stato un disastro naturale, ma è piuttosto da imputarsi a violazione delle norme di sicurezza. Il pericolo di frane permane ancora in tre aree del parco industriale. "Ci sono anche sostanze chimiche che vanno identificate e trattate". La Shenzhen Yixianglong aveva ricevuto l'ordine di interrompere i lavori nella discarica quattro giorni prima della tragedia, mentre le attività presso il sito di raccolta dei rifiuti sarebbero dovute essere sospese 10 mesi fa. Si stima che in questo periodo di tempo la Yixianglong abbia guadagnato 7,5 milioni di yuan, 1,16 milioni di dollari.]

Mentre scriviamo, sono ancora almeno 76 le persone di cui non si hanno più tracce dopo la slavina di fango e materiale da costruzione che domenica scorsa ha travolto 33 edifici nel parco industriale di Hengtaiyu, nel nuovo distretto di Guangming, nella città cinese di Shenzhen. L'area interessata copre una superficie di 380.000 metri quadrati, pari a 53 campi da calcio (qui le riprese da un drone). Nella giornata di ieri una persona è stata tratta in salvo, mentre un secondo superstite, rinvenuto tra i detriti, è deceduto prima che venissero portate a termine le operazioni di salvataggio, in cui sono ancora coinvolti 4000 soccorritori. Due sono le vittime accertate.

La tragedia si è consumata in tipico stile cinese, portando in superficie le molte distorsioni emerse nel trentennio glorioso della crescita a due cifre, quando per pompare il Pil non si badava a standard di sicurezza, spremendo le risorse del territorio fino all'ultima goccia. Inquinamento rampante, terremoti e ricorrenti (evitabili) catastrofi è quanto questo modus operandi, oliato dalla corruzione, ha lasciato in eredità alla seconda economia del mondo. Come da retribuzione karmica, adesso a farne le spese è il simbolo del "miracolo cinese": Shenzhen, l'ex villaggio di pescatori riadattato a laboratorio per i primi esperimenti capitalistici, all'inizio degli anni '80.

Si tratta del quarto incidente su vasta scala ad aver interessato la Repubblica popolare da quando lo scorso anno diverse persone sono morte in una ressa, a Shanghai, la notte di Capodanno. Erano poi seguiti il ribaltamento di un'imbarcazione da crociera sul fiume Yangtze e l'esplosione di un magazzino di depositi chimici a Tianjin. In tutti e tre i casi è stato accertato l'errore umano, e sebbene a Shenzhen le indagini siano ancora in corso, secondo quanto riportato sul sito governativo di Guangming, la discarica -che necessitava miglioramenti a livello di sicurezza- sarebbe dovuta essere chiusa mesi fa. Come da copione, nella bufera mediatica si fanno strada le prime sanzioni: martedì pomeriggio la polizia ha arrestato il vicepresidente della Shenzhen Yixianglong Investment and Development, la società incaricata della gestione della discarica industriale e risultata in possesso di una licenza non in regola. Ma stavolta immolare il corrotto di turno potrebbe non bastare. Servono riforme strutturali.

La questione è particolarmente sensibile. Appena un paio di giorni fa si è conclusa la Central Urban Work Conference, secondo incontro al vertice di questo tipo da 37 anni a oggi dedicato interamente alla revisione del nuovo piano di urbanizzazione finalizzato a rendere le metropoli cinesi "più vivibili" entro il 2020. Non a caso, il comunicato rilasciato al termine della conferenza cita la sicurezza come requisito primario nella rivoluzione urbana con cui Pechino punta a distribuire la popolazione verso i centri di seconda e terza fascia. Al momento il 55 per cento dei cinese vive in città, ma meno del 40 per cento è in possesso del permesso di residenza (hukou) necessario per poter accedere ai servizi di base (sanità, lavoro, istruzione). Una riforma in cantiere mira a facilitare l'acquisizione dell'hukou per milioni di lavoratori migranti provenienti dalle campagne (mingong), una popolazione fluttuante che su scala nazionale ammonta a circa 170 milioni. Ecco che, nel suo piccolo, Shenzhen sintetizza in sé i dilemmi della Nuovissima Cina: la megalopoli del Sud conta 18 milioni di abitanti, di cui l'80 per cento composto da mingong senza regolare permesso di residenza. Secondo quanto riporta il New York Times, almeno 55 dei 76 dispersi nella frana provenivano proprio da province rurali e affollate, di cui 22 dallo Henan.

(Pubblicato su Gli Italiani)

sabato 19 dicembre 2015

Cybersovranità "con caratteristiche cinese"


E' terminata in un vortice di polemiche la World Internet Conference, incontro andato in scena nella cittadina cinese di Wuzhen (provincia del Zhejiang) dal 16 al 18 dicembre. L'evento, inaugurato da Pechino nel 2014 per discutere a livello internazionale il futuro del web, quest'anno ha attratto oltre 2000 partecipanti da più di 120 Paesi, tra cui otto leader stranieri, 50 funzionari di livello ministeriale e circa 600 nomi noti del mondo dell'imprenditoria online tra cui Microsoft, Facebook e altri giganti. Come spesso accade quando la Cina prende iniziative che riguardano il mondo dell'informazione e il rispetto delle libertà personali, non sono mancati commenti velenosi. Può il Paese con il sistema censorio più sofisticato al mondo dare lezioni di governance online? Sì, se si considerano i numeri: con 668 milioni di utenti, la Repubblica popolare è il primo mercato Internet al mondo. E se ad oggi, la web economy conta per il 7 per cento del Pil cinese, in futuro conterà anche di più come promette l'Internet Plus Plan, piano lanciato da Pechino lo scorso marzo che punta ad applicare le nuove tecnologie ai settori tradizionali. La risposta è no, tuttavia, se si considerano le dubbie modalità con cui il governo cinese punta ad estendere il "rule of law" sulla rete.

La Cina difende la propria sovranità sulla cybersfera

Come potenza emergente la Cina premerà per l'adozione di nuove regole nella cybersfera: parola di Lu Wei. Lo zar dell'Internet cinese ha chiuso la conferenza rinnovando il messaggio lanciato dal Presidente Xi Jinping in apertura: no ai doppi standard nel management del web. "Le norme che attualmente regolano il cyberspazio difficilmente riflettono i desideri e gli interessi della maggior parte dei Paesi," ha dichiarato Xi, "non dovrebbe esserci un'egemonia di Internet; nessuna interferenza negli affari degli altri Paese. Dobbiamo rispettare il diritto degli altri Paesi a partecipare pacificamente alla governance del cyberspazio internazionale, incluso il diritto a scegliere le proprie politiche pubbliche e a decidere come amministrare e sviluppare Internet".
Per Pechino, si sa, la sovranità è sacra. E non soltanto quando si parla di territori contesi. Da quando il caso Snowden ha rivelato il programma di spionaggio americano, il pericolo di un'ingerenza esterna da parte di Washington agita i sonni dei leader cinesi, mentre accuse incrociate di cyberspionaggio continuano a rimbalzare tra le due sponde del Pacifico. Non solo. Sotto la minaccia di attacchi terroristici (spesso coordinati in rete) e crescenti episodi di malcontento popolare, negli ultimi tempi le autorità cinesi hanno stretto il controllo su Internet, mentre è già stata adottata una legge sulla sicurezza nazionale che spazia dalla "sovranità sul web" ai "valori socialisti". Stando a quanto affermato da Xi Jinping, quel che adesso ci vuole è un trattato internazionale sul controterrorismo cibernetico.

Libertà e ordine 

"I netizen cinesi devono avere il diritto di esprimere la propria opinione su Internet". A patto che questo non porti al rovesciamento dell'ordine costituito. E' il nocciolo del discorso con cui l'uomo forte di Pechino ha intrattenuto i presenti per circa 25 minuti. "La libertà è ciò a cui punta l'ordine e l'ordine è ciò che garantisce la libertà", ha sentenziato Xi, "dobbiamo rispettare il diritto degli utenti a scambiarsi opinioni e a esprimere i propri pensieri. Dobbiamo inoltre stabilire un ordine nel cyberspazio che sia in accordo con le leggi. Questo ci permetterà di proteggere i diritti e gli interessi legittimi degli utenti". Insomma, l'azione del governo è necessaria affinché venga mantenuto un "comportamento civile" in rete, ha concluso il presidente.

L'"ossimoro" è evidente. Nelle stesse ore in cui l'intervento di Xi veniva trasmesso live su Twitter e Youtube (entrambi servizi inaccessibili in Cina senza un VPN), la stampa internazionale era ancora intenta a coprire il caso di Pu Zhiqiang, avvocato per la difesa dei diritti umani processato lunedì per sette post critici nei confronti del governo cinese. Mentre l'endorsement del padre del colosso dell'e-commerce Alibaba, Jack Ma, (letteralmente: "Se non applichiamo una governance sistematica allo sviluppo di Internet il genere umano dovrà far fronte a una grande sfida") ha riacceso i riflettori sul legame insidioso che unisce business e politica oltre la Muraglia. Alibaba ha appena concluso un accordo controverso per l'acquisto del South China Morning Post, giornale noto in passato per le sue inchieste ma recentemente sospettato di adottare un approccio filo-Pechino. Portando ad esempio l'affermazione di player cinesi, quali Baidu e Tencent, il CEO di Alibaba ha affermato che i regolamenti (leggi: la censura) non hanno ostacolato lo sviluppo e l'innovazione del settore in Cina. Anzi. Gli esperti sono piuttosto concordi nel ritenere che il rigore adottato sul web cinese sia da leggersi in chiave protezionistica, ovvero come disincentivo all'affermazione delle multinazionali straniere nel primo mercato Internet al mondo. Quanto, invece, tale rigore riuscirà ancora a fungere da filtro dei malumori popolari, è tutto da vedere. Secondo Jimmy Wales, cofondatore di Wikipedia (bloccata in Cina), lo sviluppo di programmi di traduzione automatica, in futuro, renderà il controllo dei governi sul flusso delle informazioni in rete quasi impossibile. Un messaggio ripreso sul sito ufficiale della World Internet Conference tipicamente "armonizzato" alla maniera cinese.

(Pubblicato su Gli Italiani)

martedì 15 dicembre 2015

Pu Zhiqiang alla sbarra


(AGGIORNAMENTI
22 DICEMBRE: Pu Zhiqiang è stato condannato a tre anni di carcere con sospensione della pena. Questo vuol dire che l'avvocato probabilmente non potrà più esercitare la professione, ma che non tornerà più in carcere.

18 DICEMBRE: Secondo Amnesty International, quattro attivisti sono stati arrestati per aver preso parte ai raduni fuori dal tribunale in cui si stava svolgendo il processo a Pu Zhiqiang)



Dimagrito e visibilmente invecchiato. Così è apparso Pu Zhiqiang il giorno del processo che, dopo 19 mesi di detenzione, lo ha visto rispondere alle accuse di "incitamento all'odio etnico" e "turbamento dell'ordine pubblico" attraverso la piattaforma di microblogging Weibo.

Pu, uno dei più noti avvocati per la difesa dei diritti umani in Cina, era stato arrestato nel maggio 2014 dopo aver preso parte alle commemorazioni informali per il 25esimo anniversario del massacro di piazza Tian'anmen, una ricorrenza sensibile che ha coinciso con un'ondata di fermi nel mondo della dissidenza cinese. Il tempismo sembra confermare la natura politica del caso, tutto incentrato su sette post pubblicati tra il 2011 e il 2014 di cui il minimo comune denominatore consiste nel tono denigratorio nei confronti del Partito. Quattro sono relativi all'accusa di "incitamento all'odio etnico" gli altri tre a quella di "turbamento dell'ordine pubblico", un reato che alla fine del 2013 è stato esteso anche all'attivismo online. Stando a quanto riferito lunedì alla stampa dal suo legale Shang Baojun, l'avvocato ha ammesso di aver utilizzato un linguaggio "affilato, pungente e talvolta volgare", ma ha negato di aver cercato di fomentare l'odio interetnico.

Accuse costruite ad hoc

Che le imputazioni scricchiolino parrebbe saperlo bene anche Pechino: secondo quanto riporta Quartz, al momento dell'arresto le accuse (poi lasciate cadere) comprendevano anche "l'incitamento al separatismo e "l'ottenimento illegale di informazioni personali", mentre i commenti incriminanti all'inizio sarebbero stati ben 30. Inoltre, i tempi estremamente dilatati tra il fermo e il processo sembrerebbero confermare il tentennamento delle alte cariche davanti a un caso osservato da vicino anche all'estero. Secondo quanto raccontato al Guardian dal sinologo americano, Perry Link, in mancanza di prove, per mesi le autorità avrebbero tentato invano di dare solidità alle accuse portando allo scoperto nuovi reati, come la promiscuità sessuale, la corruzione o l'evasione fiscale; un escamotage sempre più diffuso, in Cina, per mettere tacere personaggi scomodi. E Pu, che in passato ha difeso l'archistar Ai Weiwei e si è battuto per la chiusura dei campi di rieducazioni (laojiao), rientra a pieno nella categoria. Sulla base delle accuse a suo carico, l'avvocato rischia fino a otto anni di carcere. L'annuncio della sentenza è atteso per i prossimi giorni.

Processo e tafferugli

Al termine dell'udienza, tenutasi lunedì mattina a Pechino presso la seconda corte intermedia del popolo, Shang Baojun ha affermato che l'aula era piena, ma che l'unica persona che è stato in grado di identificare è la moglie di Pu, Meng Qu. Sono invece rimasti fuori i molti simpatizzanti che con striscioni e slogan hanno sostenuto l'innocenza dell'avvocato prendendosi anche qualche spintone da parte di agenti in borghese con il volto coperto da mascherine anti-smog. La stessa sorte è toccata ai giornalisti e diplomatici presenti, tra cui l'americano Dan Biers, che stava intrattenendo i reporter con un discorso di condanna sul trattamento riservato a Pu. I tafferugli con le forze dell'ordine hanno spinto il Club dei Corrispondenti stranieri in Cina a rilasciare un comunicato molto critico: "Questi sforzi mirati a prevenire la copertura mediatica [del processo] sono una grave violazione delle norme cinesi sui corrispondenti stranieri", si legge nel rapporto. La giornalista della Reuters Sui-Lee Wee ha definito le angherie della polizia fuori dal tribunale come le peggiori sperimentate in cinque anni, e fa specie che si verifichino in un momento in cui Pechino preme per una narrazione più "oggettiva" del Paese di Mezzo sulla stampa internazionale. 

Riforma del sistema giudiziario e giro di vite

Il processo di Pu "fa parte di un giro di vite contro la società civile ed è chiaramente collegato al suo impegno nella difesa della libertà di parola e alle sue accuse contro il governo" ha affermato al South China Morning Post Eva Pils, esperta di legge cinese presso il King's College di Londra. Ammontano a circa 940 gli attivisti presi in custodia nel solo 2014, mentre oltre 100 persone, tra dissidenti e avvocati, sono finite in manette nell'arco di un unico weekend lo scorso luglio. Alcune di queste in seguito sono state rilasciate, ma circa una ventina sono ancora dietro le sbarre.
Il caso di Pu arriva dopo la condanna a quattro anni di carcere di Xu Zhiyong, l'avvocato leader del "movimento dei nuovi cittadini" falcidiato negli ultimi due anni da numerosi arresti. Il gigante asiatico è nel pieno di un processo di restyling del suo sistema giudiziario, percepito all'estero come ciò che più si avvicina ad una riforma politica "con caratteristiche cinesi". Tuttavia, nonostante le dichiarazioni d'intenti, i progressi fatti finora (in primis l'abolizione del laojiao) non soddisfano le organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani. Appena alcuni giorni fa, il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura ha chiesto a Pechino di mettere fine al crescente ricorso a metodi violenti nelle prigioni, come promesso dalla dirigenza alla fine del terzo plenum del Partito nel novembre 2013.

Schizofrenia "con caratteristiche cinese"

Eppure la Cina che arresta Pu e Xu è quella stessa Cina che di recente ha restituito il passaporto ad Ai Weiwei (dopo 4 anni!) e si è rivelata magnanima nei confronti di Gao Yu, giornalista accusata ad aprile di aver "diffuso segreti di stato" alla stampa. Il mese scorso la donna si è vista ridurre la pena da sette a cinque anni, pena che peraltro sconterà ai domiciliari a causa delle precarie condizioni di salute. E' una schizofrenia tutta cinese o c'è una spiegazione logica al vortice di segnali discordanti lanciati da Pechino? Spesso si dice che interpretare le segrete alchimie distillate nei palazzi del potere in piazza Tian'anmen sia un po' come leggere le foglie del tè. Non è insensato ipotizzare che a frenare le riforme siano motivazioni di ordine interno: il Partito -tutt'altro che monolitico come ci insegna la lunga sequela di purghe eccellenti- non è coeso sulla strada da intraprendere: qualcuno spinge per un'apertura in senso liberale/liberista, qualcun'altro teme che tale apertura possa tradursi nell'erosione dei propri privilegi, già minati dalla campagna anticorruzione rilanciata dal presidente Xi Jinping appena assunto l'incarico. Ipotesi numero due: la leadership si sente minacciata. Da cosa? Da Tian'anmen in poi, l'armonia sociale è diventata un chiodo fisso per il Partito-Stato. Per circa vent'anni un tacito accordo tra establishment e cittadini ha assicurato benessere in cambio di stabilità. Ma ora che l'economia rallenta, il sistema finanziario vacilla e l'inquinamento ambientale non accenna a diminuire, il livello di tolleranza della pancia del Paese rischia di abbassarsi. Quel che meno serve a Pechino è che un pugno di attivisti risvegli l'assopita coscienza civile. Se poi questi attivisti hanno anche contatti all'estero allora scatta l'allarme rosso. La metafora è quantomai pertinente dal momento che ad agitare i sonni del Dragone sono proprio le "rivoluzioni colorate" finanziate da oltreconfine (forse qualcuno ricorderà le accuse ad una presunta intromissione americana e britannica nelle proteste democratiche di Hong Kong). A conti fatti, possiamo soltanto immaginare cosa sia frullato per la testa dei leader cinesi davanti alla nutrita presenza straniera al processo di Pu Zhiqiang.

Quale degli scenari ipotizzati rispecchi davvero la realtà lo sanno soltanto a Zhongnanhai. L'unica cosa certa è che non è trincerandosi dietro una nuova "Grande Muraglia" che la Cina otterrà la fiducia del resto del mondo coronando il suo sogno di grande potenza. Men che meno vi riuscirà imbavagliando le voci del dissenso. 

(Pubblicato su Gli Italiani)






venerdì 11 dicembre 2015

La Cina invecchia


L'invecchiamento della popolazione e il calo del tasso di fertilità, entro il 2040, costeranno all'Asia Orientale una riduzione del 15 per cento della forza lavoro. E' quanto è emerso da un rapporto della World Bank pubblicato mercoledì scorso, secondo il quale il 35 per cento della popolazione mondiale over 65 risiede proprio in Estremo Oriente; un numero che oggi equivale a 211 milioni di persone e che è destinato a salire, mettendo a dura prova il welfare locale. Infatti, a differenza della maggior parte dei Paesi OECD (Organization for Economic Co-operation and Development -che invecchiano e si arricchiscono gradualmente- in Asia Orientale l'aumento dell'età procede ad un ritmo più rapido rispetto all'aumento del reddito pro capite. "L'Asia Pacifico sta vivendo la transazione demografica più brusca finora mai riscontrata, e tutte le nazioni in via di sviluppo della regione rischiano di diventare vecchie prima che riescano a diventare ricche", ha dichiarato a CNBC Axel van Trotsenburg, vice presidente della World Bank per l'Asia Orientale-Pacifico.

Le due variabili, di base, sono strettamente connesse: l'invecchiamento varia a seconda del livello di sviluppo di un paese. In nazioni ricche come Giappone, Corea del Sud e Singapore gli over 65 contano già per oltre il 14 per cento della popolazione locale. Ma a risentire maggiormente del fenomeno saranno quei paesi a reddito medio come Cina, Thailandia e Vietnam, dove il governo ha investito poco nell'assistenza agli anziani affidandosi alla "pietà filiale" dei più giovani, secondo quanto previsto dalla tradizione confuciana. Uno scenario a tinte fosche per la locomotiva cinese ormai in piena frenata. Nei primi tre trimestri dell'anno, l'economia del Dragone è cresciuta del 6,9 per cento, il ritmo più lento da sei anni, in parte a causa della perdita del tradizionale vantaggio competitivo derivante dal basso costo della produzione (il continuo innalzamento dei salari ha già spinto diverse compagnie verso lidi più low cost), in parte proprio a causa dell'assottigliamento della manodopera.

Stando alla World Bank, il 10 per cento della popolazione cinese ha un'età superiore ai 65 anni, contro una media mondiale del 7 per cento. Addirittura statistiche indipendenti raccolte nel "2015 Report on China's Large and Medium-Sized Cities Employee Pension Reserve Index" pongono il gigante asiatico in cima alla lista globale con 212 milioni di "anziani", pari al 15,5 per cento della popolazione complessiva (più di Giappone, Corea del Sud e Singapore). Quanto questo influirà realmente sull'economia nazionale è, però, tutto da vedere.

Da un paio d'anni Pechino sta cercando di modificare il proprio paradigma di crescita spostando il focus dalla quantità alla qualità. Vale a dire che a trainare l'economia cinese non sarà più il lavoro intensivo ma la produttività. Come sottolinea Philip O'Keefe, economista della World Bank, nonostante la riduzione delle risorse umane sfruttabili, oggi la forza lavoro cinese è più istruita e la tendenza al risparmio che ha caratterizzato l'ultimo ventennio (quello del "miracolo cinese" e dei tassi di crescita a due cifre) è riuscita ad arginare l'impatto dell'invecchiamento demografico sull'economia. Quanto al futuro, Pechino ha già in cantiere un paio di manovre ad hoc.

Lo scorso mese, il Quinto Plenum del Partito Comunista si è chiuso con l'annuncio delle linee guida del XIII Piano Quinquennale che, una volta approvate durante l'annuale riunione parlamentare di marzo, indirizzerà lo sviluppo economico della Repubblica popolare per il prossimo quinquennio. Tra le misure annunciate, spiccano la revoca della politica del figlio unico (introdotta alla fine degli anni '70) e la promessa di una riforma del sistema pensionistico. La politica delle nascite era già stata rilassata nel 2013, quando era stata concessa la possibilità di avere due bambini a quelle coppie in cui entrambi i genitori fossero figli unici. Con la nuova revisione, in teoria, tale diritto viene esteso a tutte le coppie senza distinzione; in pratica, però, resta da appurare quante saranno effettivamente in grado di usufruirne. Il crescente costo della vita e il crollo del tasso di fertilità, secondo gli esperti, farebbero escludere la possibilità di un "baby boom" in un prossimo futuro.

L'altra novità interessa più direttamente il problema invecchiamento. Al momento, in Cina, vige un sistema pensionistico estremamente frammentario: i dipendenti delle imprese urbane hanno un certo trattamento, i residenti urbani e rurali ne hanno un altro. Come scriveva tempo fa il New York Times, "i lavoratori migranti nelle città, che contano più di 200 milioni di unità, che vogliono ritornare dal sistema urbano al loro precedente sistema della città natale, quindi rurale, incontrano molte difficoltà o addirittura perdono il denaro versato nel loro fondo pensionistico urbano, anche se una prima revisione delle regole nel 2014 ha cercato di migliorare questa situazione." Quello che si pensa di fare adesso è creare un unico sistema unificato a livello nazionale ed, eventualmente, alzare l'età pensionabile oggi a 50-55 anni per le donne e 55-60 anni per gli uomini. Mentre il tesoretto accumulato dalle grandi aziende di Stato andrà a rabboccare il fondo pensionistico che altrimenti, secondo recenti stime, rischierebbe di ritrovarsi sotto di 1,21 trilioni di yuan entro il 2019.

Di rimbalzo, con il welfare a prendersi cura di loro, i cinesi potranno utilizzare i loro risparmi in maniera più fruttuosa, andando a carburare il nuovo modello di crescita promosso dalla leadership: un modello più sostenibile basato sui consumi interni (quindi sulla spesa dei cittadini), non più cronicamente dipendente da export e investimenti statali.

(Pubblicato su Gli Italiani)





lunedì 7 dicembre 2015

Xi Jinping vola in Africa



Si è conclusa sabato la prima trasferta del presidente cinese Xi Jinping in Africa, suggellata dalla promessa di 60 miliardi di dollari in finanziamenti e dalla rimozione del debito per i Paesi più poveri. Nei prossimi tre anni la cooperazione Cina-Africa verrà oliata da 5 miliardi di aiuti e prestiti a interessi zero; 35 miliardi di prestiti concessionali; 5 miliardi extra da devolvere al China-Africa Development Fund; 5 miliardi di prestiti speciali per le PMI e 10 miliardi di capitale iniziale per l'istituzione di un China-Africa Production Capacity Fund. I lauti finanziamenti, annunciati nel corso del Forum on China-Africa Cooperation (4-5 dicembre) di Johannesburg, Sudafrica, si inseriscono nell'ambito di un piano di sviluppo in 10 punti che abbraccia settori chiave - dall'industrializzazione, alla modernizzazione agricola, passando per le infrastrutture, i servizi finanziari, la green economy, la riduzione della povertà, la sicurezza e gli scambi people-to-people- e punta a colmare le deficienze locali in tre segmenti critici: infrastrutture (inadeguate), personale (non qualificato) e fondi (insufficienti).

Il tempismo è quanto mai azzeccato. L'Africa rientra a pieno titolo nella One Belt One Road (alias nuova via della seta), progetto che prevede la realizzazione di iniziative di natura prevalentemente commerciale (ma non solo) dall'Asia Orientale all'Europa, passando per le coste del Kenya, e che giunge provvidenzialmente in un momento di rallentamento della crescita cinese. Nei piani di Pechino, la corsa alla realizzazioni di infrastrutture -vera anima dell'OBOR-  dovrebbe aiutare la Cina a trasferire parte della propria capacità industriale in eccesso verso gli altri Paesi coinvolti. E l'Africa, con i suoi trasporti obsoleti, è in prima linea. La strategia è di tipo "win-win": la Cina ha bisogno dell'Africa e "i Paesi africani hanno bisogno dell'aiuto della Cina per lo sviluppo delle proprie risorse" ha dichiarato il presidente sudafricano Jacob Zuma, che ha copresieduto il summit insieme a Xi.

Dal 2009, la Cina è il primo partner commerciale del continente con 222 miliardi di merci e servizi scambiati lo scorso anno; cifra che dovrebbe salire a 300 miliardi entro fine 2015. E sebbene Pechino tenga segreti i dettagli della sua spesa all'estero, si stima che al momento ammontino a 2500 i progetti cinesi dislocati nei 51 Paesi africani, per un valore complessivo di 94 miliardi di dollari.

Nell'arco dell'ultimo decennio, 29,97 miliardi di dollari (il 41% del totale degli investimenti cinesi in Africa) sono andati in energia, mentre il settore dei trasporti si è assicurato 81,1 miliardi (circa il 49% del valore complessivo dei contratti nel settore delle costruzioni). Ma ora l'idillio rischia di essere interrotto dal crollo globale dei prezzi delle commodity che, nei primi tre trimestri del 2015, ha causato una ripida discesa del commercio sino-africano del 18% annuo, mentre gli investimenti cinesi nel continente hanno registrato una flessione del 40% quest'anno, (qualcuno parla addirittura di un 84%). Un trend negativo che evidenzia l'eccessivo sbilanciamento delle relazioni bilaterali verso il settore delle materie prime. Negli ultimi due lustri, la crescita africana è stata sospinta dalla vendita di petrolio, minerali ferrosi, legno e rame. Ma adesso che, per dare nuovo carburante alla propria economia, Pechino sta cercando di passare da un modello di crescita trainato dagli investimenti a uno orientato verso i consumi interni, è facilmente prevedibile una progressiva differenziazione dello shopping cinese all'estero.

"Pivot to Africa" e critiche

La disinvoltura con cui Pechino intrattiene rapporti commerciali con tutti e senza filtri etici, ovvero indipendentemente dal fatto che si tratti di autocrazie o governi democratici, è motivo di frequenti critiche in Occidente. Da alcune recenti statistiche è emerso che i leader cinesi preferiscono relazionarsi con regimi corrotti, più inclini a fare affidamento su modalità di finanziamento controverse, come nel caso dell'"Angola model"che, prevedendo sovvenzioni in cambio di risorse, viene da molti accostato ad una forma di neocolonialismo finalizzato allo sfruttamento corsaro del territorio. Lo stesso rapporto evidenzia che parte dei prestiti erogati finisce in realtà per essere utilizzata per pagare le compagnie cinesi incaricate di realizzare i progetti, assicurando così a Pechino un notevole controllo sui fondi. Gli effetti sono difficilmente calcolabili, ma non è insensato ipotizzare che la realpolitik dei finanziamenti rischi di lasciare ai governi più dispotici un ampio margine di manovra. Secondo una ricerca della University of Sussex, le regioni d'origine dei vari leader africani, durante il periodo del loro incarico, hanno ricevuto fondi per un ammontare quattro volte superiore rispetto a quello destinato ad altre aree del Paese. Addirittura si ipotizza una connessione tra una cattiva distribuzione degli aiuti cinesi a livello locale e l'impennare di episodi violenti in alcuni Stati africani.

Ad ogni modo, è bene notare che la paternale arriva da governi non senza macchia. "In the race for Africa, India and China aren’t all that different" titolava Quartz nei giorni in cui il premier indiano Narendra Modi era intento a strappare assegni nel corso dell'India-Africa Summit. E se è vero che nell'assegnazione degli ODA (official development assistance) Pechino privilegia gli Stati africani da cui riceve supporto all'interno dell'Assemblea generale dell'Onu, è altrettanto vero che gli Stati Uniti tendono a fare lo stesso.

Cosa ne pensano i diretti interessati? Xi Jinping "Sta facendo per noi quello che avrebbero dovuto fare quelli che ci hanno colonizzati. È un uomo mandato da Dio": parola di Robert Mugabe, presidente dello Zimbawe.

Dall'economia alla politica

Secondo gli osservatori, la visita di Xi ha ufficializzato una svolta nelle priorità cinesi in Africa, sempre più di natura politico-strategica, sempre meno puramente economiche, come si addice ad una superpotenza. Qualcuno ha evidenziato l'utilizzo insolito da parte di Xi del termine "compagni e fratelli" per descrivere i rapporti tra Pechino e Pretoria, a sottolineare quella comune ambizione al raggiungimento di un ordine mondiale multipolare. Che sul piano ideologico si traduce in una messa in discussione del ruolo egemonico dei valori occidentali, con toni talvolta grotteschi. "Ora insieme con la Cina combatteremo per la realizzazione di una vera democrazia negli Stati Uniti" ha affermato il dittatore dello Zimbawe Mugabe, stando alla South African Government News Agency. Per chi non lo sapesse, lo scorso ottobre Mugabe era stato insignito del Premio Confucio, la versione cinese del Nobel per la pace. Prima di raggiungere Johannesburg, la scorsa settimana, Xi aveva trascorso alcune ore in Zimbawe, divenendo il primo presidente cinese a visitare il Paese dai tempi di Jiang Zemin (1996). Qui sono stati conclusi 12 accordi in comparti strategici quali energia e telecomunicazioni, per un valore di circa 4 miliardi di dollari.

Geopolitica e sicurezza

Se, da una parte, la scelta di inglobare l'Africa nella nuova via della seta parrebbe aver motivazioni economico-strategiche, dall'altra il recente attivismo cinese nel continente è riconducibile anche a esigenze di sicurezza. Alcuni giorni fa, tre dirigenti della China Railway Construction Corp hanno perso la vita nell'attentato al Radisson Hotel di Bamako, in Mali. Durante il suo discorso all'Assemblea generale dell'Onu, lo scorso novembre, Xi ha promesso che la Cina contribuirà con 8000 truppe alle operazioni internazionali di peacekeeping e, nei prossimi 5 anni, destinerà all'Unione Africana 100 milioni per il mantenimento della pace. Mentre risale ad alcuni giorni fa la conferma dell'apertura della prima base militare permanente cinese in Africa, a Gibuti, nel Golfo di Aden, dove il Dragone è già attivo nell'ambito di missioni antipirateria.

Da tempo gli analisti avanzano dubbi sulla natura dei progetti marittimi portati avanti da Pechino tra il Mar Cinese Meridionale e il Mar Rosso (basi logistiche, secondo la retorica governativa; avamposti militari ascrivibili ad una strategia nota come "filo di perle", secondo i più maliziosi). L'annuncio dell'accordo con Gibuti -dove sono già militarmente presenti anche Stati Uniti, Francia e Giappone- non ha fatto altro che gettare ulteriore benzina sul fuoco. Alle critiche di quanti intravedono nell'ultima mossa la pistola fumante di una crescente assertività cinese sullo scacchiere globale, il China Daily ha risposto così: "Un crescendo della retorica sulla minaccia cinese” non ci impedirà "di tutelare i nostri interessi legittimi, nel quadro del diritto internazionale. Allora il nostro esercito avrà un'ulteriore opportunità per dimostrare il suo impegno per la pace e che le sue capacità si combinano con la buona volontà". Che ci crediate o meno.

(Pubblicato su Gli Italiani)

(GUARDA L'INFOGRAFICA SUL SOUTH CHINA MORNING POST)

sabato 28 novembre 2015

La Cina verso Parigi


Mancano ormai poche ore al vertice sul cambiamento climatico di Parigi che (dal 30 novembre all'11 dicembre) riunirà quasi 200 Paesi con l'intento di delineare un nuovo accordo all'approssimarsi della scadenza del protocollo di Kyoto (1997-2020). Obiettivo: contenere l'aumento delle temperature medie mondiali entro i 2 gradi centigradi rispetto al periodo precedente alla Prima Rivoluzione Industriale.

Inevitabilmente, tutti gli occhi sono puntati verso la Cina, principale emettitore di gas serra al mondo e additato come vero responsabile del fallimento del summit di Copenaghen 2009, conclusosi senza il raggiungimento di un'intesa vincolante. Quell'anno Pechino rifiutò di includere nell'accordo finale un target massimo per le emissioni, avvalendosi di quanto stabilito nella Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, ovvero che tutti i Paesi hanno "comuni ma differenti responsabilità" a seconda del proprio livello di sviluppo: chi ha raggiunto un grado di industrializzazione superiore (e pertanto inquina da più tempo) è tenuto a rispondere di maggiori obblighi rispetto a chi è ancora in fase di crescita. Addirittura, un rapporto Onu rilasciato nel gennaio 2014, parla di "outsourcing delle emissioni" dalle economie mature attraverso dispositivi elettronici e manifatturiero tessile prodotti nelle Nazioni in via di sviluppo ma consumati negli Stati Uniti e in Europa.

Protetta dal protocollo di Kyoto, che impone target vincolanti solo alle nazioni industrializzate, la Cina, che si considera ancora un "Paese emergente", ha continuato a sostenere la propria espansione economica (trainata da export e investimenti) con licenza di inquinare, in barba agli appelli internazionali. Una posizione, questa, ribadita nel 2011 durante il vertice di Durban da Xie Zhenhua, rappresentate speciale per il Clima (Letteralmente: "Chi può dirci cosa dobbiamo fare?"), ma che ha subito un progressivo ammorbidimento nel corso del tempo.

Se, infatti, il principio della "responsabilità graduale" continua a caratterizzare la posizione cinese ai tavoli internazionali, si sta tuttavia facendo strada una tendenza verso il compromesso, primo sintomo di una nuova strategia estera più assertiva, sì, ma anche più responsabile. Quella uscita dal rimpasto politico del 2013 è una Cina più propensa a riconoscere il suo ruolo di potenza globale e i doveri ad esso declinati. Una prima svolta storica la si è avuta in occasione dell'Apec 2014 (Asia Pacific Economic Cooperation), quando il Presidente cinese Xi Jinping e Barack Obama si sono impegnati a combattere il riscaldamento globale annunciando un'ambiziosa roadmap: per parte sua, Pechino ha promesso 1) di raggiungere un picco massimo delle emissioni entro il 2030 - per poi andare progressivamente a scendere - ed entro questa stessa data di tagliare le emissioni inquinanti per unità di Pil del 60-65 per cento; 2) di ridurre l'utilizzo di combustibili fossili. Al momento la Cina produce due terzi dell'energia che consuma grazie al carbone, che è responsabile per l'80 per cento delle emissioni di CO2.

Più recente, invece, lo stanziamento di 3,1 miliardi di dollari da destinare ai Paesi maggiormente arretrati, per cui, come dicevamo, il Dragone ha un particolare occhio di riguardo. Anche in questo caso si tratta di un'iniziativa annunciata durante una bilaterale tra i leader delle due superpotenze e che sembra rispondere per le rime all'International Green Climate Fund istituito da Obama lo scorso anno con un budget, guarda caso, proprio di 3 miliardi di dollari.

Se sul versante esterno, la rivoluzione verde di Pechino ci suggerisce innanzitutto che -nonostante la querelle sulla cybersicurezza e le provocazione incrociate nel Mar Cinese- almeno nella lotta ai cambiamenti climatici,  Cina e Stati Uniti sono finalmente allineati (Washington non ha mai digerito le resistenze cinesi a Copenaghen), è all'interno della Muraglia che bisogna ricercare le vere motivazioni del cambiamento. Secondo stime ufficiali, ogni anno 350-500 mila persone muoiono prematuramente a causa della cappa di smog che attanaglia le metropoli cinesi; un problema che colpisce trasversalmente tutti i ceti sociali senza distinzione e che sta diventando uno dei principali fattori di malcontento popolare. La pancia del Paese di Mezzo non è più disposta a pagare il prezzo del miracolo economico dell'ultimo trentennio. Sopratutto ora che gli effetti inebrianti dell'iperbolica ascesa cinese stanno svanendo sulla scia del rallentamento economico ribattezzato dalla leadership "new normal". Dove per "nuovo normale" s'intende una crescita economica "medio-alta", attorno al 7 per cento, high-end e meno dipendente dall'industria pesante. In questo contesto l'affrancamento dal carbone risulta, quindi, funzionale ad una ristrutturazione sistemica che avrà come protagonisti le rinnovabili e il nucleare. Secondo la National Coal Association, nei primi dieci mesi dell'anno il consumo cinese del combustibile è sceso del 4,7 per cento su base annua, contro il -2,9 per cento del 2014. Al contempo, con 89 miliardi sborsati, lo scorso anno Pechino ha trainato gli investimenti nel settore dell'energia pulita, rivela il rapporto Climatescope 2015, che ha preso in esame 55 delle principali Nazioni in via di sviluppo.

Problema inquinamento risolto? Non esattamente. Tra il dire e il fare ci sono di mezzo 155 nuovi impianti a carbone (per una spesa di circa 7,3 miliardi di dollari), approvati quest'anno dopo che il governo centrale ha delegato alle autorità locali il potere di avvallare questo tipo di progetti. In teoria, lo scorso gennaio sono stati fissati obiettivi di riduzione del livello di particelle PM 2,5 per ognuna delle 31 province cinesi. Ma il diavolo si nasconde nei dettagli, dicono gli inglesi. E, infatti, l'ostacolo più insidioso sta proprio nel pericolo di un cortocircuito tra gli interessi del centro (limitare i fattori inquinanti e promuovere un nuovo paradigma di crescita) e quelli della periferia (spremere fino all'ultima goccia un settore in cui la corruzione è storicamente radicata).

(GUARDA L'INFOGRAFICA DI CHINESE DOODLES)















lunedì 23 novembre 2015

Pechino e il dilemma del non interventismo


Intervenire o non intervenire? Questo è il dubbio amletico che tormenta Pechino mentre si allunga la lista dei cittadini cinesi vittima del jihad. Lo scorso giovedì lo Stato Islamico (IS) ha reso nota l'esecuzione Fan Jinghui, il cinquantenne di Pechino ostaggio del Califfato "messo in vendita" lo scorso settembre assieme al norvegese Ole Johan Grimsgaard-Ofstad. Nemmeno 24 ore dopo tre dirigenti cinesi della statale China Railway Construction Corp. hanno perso la vita nell'attacco al Radisson Hotel di Bamako sulla cui paternità permangono diversi dubbi, fatta eccezione per l'assodata matrice islamica.

"La Cina si opporrà risolutamente a qualsiasi forma di terrorismo e risolutamente risponderà ad ogni attività criminale e violenta che sfida l'essenza della cultura umana", ha tuonato il Ministero degli Affari Esteri cinese alla notizia della morte di Fan. Mentre la recente escalation di violenza si è fatta strada in sedi inusuali quali i vertici economici di G20, Apec ed East Asia Summit, il gigante asiatico non ha mancato di rimarcare il proprio cordoglio per le perdite altrui all'indomani del massacro di Parigi, sottolineando tuttavia come il terrorismo sia un problema comune. Un problema che non tollera "doppi standard": "anche la Cina è una vittima". L'allusione -che trascende le uccisioni oltremare di cui sopra- batte sul nervo scoperto del Dragone.

Da alcuni anni lo Xinjiang, regione autonoma musulmana dell'estremo occidente cinese, fa da sfondo ad una "guerra a bassa intensità" in cui è difficile distinguere le semplici frizioni etniche dalle infiltrazioni jihadiste. Dagli anni '90 a oggi, attacchi con coltelli ed esplosivi sono stati registrati non soltanto nello Xinjiang ma anche in altre aree del Paese. Stando alle autorità della regione autonoma, nell'ultimo anno sono stati sgominati almeno "181 gruppi terroristici" (pari al 96,2% delle gang locali), ma la reticenza nel fornire informazioni su quanto avviene nel Far West cinese trattiene gli osservatori internazionali dal riconoscere formalmente una minaccia islamica in Cina. Così se Pechino punta il dito contro l'East Turkestan Islamic Movement (sigla oggi di dubbia esistenza ma un tempo prossima ad al-Qaida), le organizzazione per la difesa dei diritti umani tendono a leggere nelle violenze una risposta al presunto genocidio culturale perpetrato dalle autorità centrali ai danni delle minoranze etniche locali, per usi e costumi più vicine al quadrante centroasiatico di quanto non lo siano al resto della Cina. Lo stesso leader dell'IS, Abu Bakr Al-Baghdadi, all'inizio dell'anno aveva condannato le politiche repressive del governo cinese invitando i musulmani dello Xinjiang ad abbracciare la causa jihadista. Il rischio di un contagio da oltre Muraglia (Pakistan e Afghanistan sono alle porte) agita i sonni dell'establishment cinese: secondo Wu Sike, ex inviato speciale in Medio Oriente, sono circa 100 i cinesi assoldati dalle milizie dell'IS, un bilancio diffuso da fonti estere e non verificate indipendentemente dalle autorità di Pechino.

La crescente volatilità dei territori occidentali arriva in un momento in cui la Cina sta cercando di promuovere una cintura economica afro-eurasiatica direttamente ispirata all'antica via della seta. Il progetto (di natura prevalentemente commerciale ma che non disdegna, per ovvie ragioni, la cooperazione sul versante sicurezza) vedrà una massiccia presenza di investimenti e forza lavoro cinesi all'estero, di cui buona parte dislocati in regioni turbolente tra Asia, Africa ed Europa. Le stime attuali parlano di 5 milioni di cinesi oltre Muraglia, tra i quali circa 2 milioni concentrati nel Continente Nero. Tutelare la sicurezza dei propri capitali e cittadini oltreconfine è diventata una priorità per il gigante asiatico. Nel marzo 2015, navi da guerra cinesi hanno evacuato 629 cinesi e altri 279 stranieri dallo Yemen. Nel solo 2011, la Cina ha salvato più cinesi all'estero (oltre 47.000, di cui circa 35.000 in Libia) che nei decenni a partire dalla fondazione della Repubblica popolare (1949).

Stando a fonti del People's Daily, le operazioni di salvataggio di Fan Jinghui erano a buon punto prima che la controffensiva franco-russa contro l'IS facesse deragliare i colloqui tra Pechino e i rapitori. Ma, per molti, l'approccio adottato dal governo cinese davanti al pericolo estremismo (oltreconfine) sarebbe ancora troppo soft. "l'IS ci sta oltraggiando con l'uccisione dell'ostaggio cinese. E' tempo che la Cina si alzi in piedi e agisca da grande potenza", commenta demi_miao sulla piattaforma di microblogging Weibo. Parecchi i commenti favorevoli ad un maggior protagonismo cinese nella guerra contro il terrorismo; altrettanti quelli che invitano alla cautela. "Un'azione militare? Dopodiché possiamo anche dire addio alla pace nei cieli e nel centro di Pechino e Shanghai", scrive Tao Ye sul forum Zhihu.com, mentre Hercule_Holmes_Star avverte: "La Francia ha dichiarato guerra all'IS e cosa ha ottenuto? Se la Cina si schierasse apertamente contro l'IS credete che ora stareste qui a chiacchierare a gambe incrociate?"

A frenare la neo-superpotenza non sembra essere tanto il rischio di una ritorsione islamica quanto piuttosto la necessità di attenersi al principio cardine della propria politica estera, in auge fin dai tempi di Mao: quello della non ingerenza negli affari degli altri Paesi. Con la speranze che lo stesso valga di rimbalzo quando si parla di questioni delicate che interessano direttamente la Repubblica popolare: guai a chi critica la condizione dei diritti umani in Cina o mette in dubbio la sovranità di Pechino su Xinjiang, Tibet e Mar Cinese Meridionale/Orientale. E questo spiega anche la diffidenza cinese nei confronti delle varie rivoluzioni colorate e primavere arabe, finanziate dall'esterno e considerate miccia scatenante dell'emergenza migranti in Europa.

Nel dicembre 2014, il Financial Times aveva ventilato l'ipotesi di raid aerei cinesi in Iraq, citando niente meno che Ibrahim Jafari, ministro degli esteri iracheno. La notizia si sarebbe poi rivelata infondata, almeno quanto i più recenti rumors sull'attracco della portaerei Liaoning lungo le coste siriane. Ma questo non vuol dire che il Dragone stia fermo a guardare. Oltre a contribuire all'addestramento della polizia afghana, nel 2013 la Cina ha rimpolpato la missione Onu di peacekeeping in Mali inviando 170 soldati, mossa storica dopo circa due decenni di supporto esclusivamente medico e logistico. E se tutt'oggi, la massiccia presenza economica del Dragone in Africa risulta accompagnata da un modesto contributo in materia di sicurezza, tuttavia, stiamo assistendo a un rafforzamento della posizione cinese all'interno del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e a un maggior coinvolgimento nella gestione di situazioni di crisi. Proprio recentemente Pechino ha schierato un battaglione da combattimento sotto l’egida della missione di pace dell’Onu in Sud Sudan, Paese in cui il gigante asiatico ha ingenti interessi petroliferi. In futuro, però, tutto questo potrebbe non bastare.

(Pubblicato su Gli Italiani)

sabato 14 novembre 2015

Xi goes global


Rassicurare il mondo sulla tenuta dell'economia cinese e riaffermare l'ascesa pacifica del Dragone sullo scacchiere internazionale. E' con questo messaggio che il presidente cinese, Xi Jinping, continua la sua fitta tournee estera. Alla fine di novembre, ammonteranno a 24 i giorni trascorsi da Xi oltreconfine negli ultimi quattro mesi. Giunto sabato ad Antalya per presenziare alla decima edizione del forum che dal 2008 riunisce i leader dei paesi membri del G20, il 17 novembre il presidente cinese si rimetterà in volo per partecipare al summit Apec (Asia-Pacific Economic Cooperation Forum) ospitato quest'anno dalle Filippine, e poi ancora alla volta di Parigi per il decisivo vertice sul clima, facendo tappa in Sud Africa dove a inizio dicembre si terrà il China-Africa Cooperation Summit. Si tratta di un attivismo internazionale "insolito" per un leader cinese, commenta l'agenzia di stampa governativa Xinhua.

Stando a quanto evidenziato da Jin Canrong, consulente del governo cinese nonché docente della Renmin University di Pechino, le impellenti sfide sul fronte internazionale giustificano le frequenti trasferte di Xi, appena rientrato dalla sua prima visita di Stato in Vietnam e a Singapore, entrambi Paesi bagnati dalle agitate acque del mar Cinese Meridionale, teatro di frequenti battibecchi tra il Dragone -che si arroga il diritto di sovranità su oltre l'80% della sua superficie- e i vicini rivieraschi. "Davanti a problemi interni, come la situazione economica, [Xi] non è in grado di trovare soluzione immediate e si trova ad affrontare molte più sfide in politica estera, come per quanto riguarda il Mar Cinese Meridionale", spiega Jin al South China Morning Post.

Nonostante la recente missione del Presidente cinese negli States, le relazioni tra Pechino e Washington (già tese per via delle reciproche accuse di cyberspionaggio) hanno subito una nuova battuta d'arresto in seguito alle recenti incursioni navali e aree americane in prossimità delle isole artificiali costruite dalla Cina nell'arcipelago delle Spratly. E' altamente probabile che tali frizioni marittime, sebbene non ufficialmente in agenda, faranno da sfondo al vertice Apec di Manila. Tanto più che Pechino è in attesa di ricevere il responso del tribunale internazionale dell'Aja a cui le Filippine si sono rivolte nel 2013 per dirimere le controversie territoriali con l'incombente vicino- arbitrato, tuttavia, non riconosciuto dalla Repubblica popolare che continua a preferire il confronto bilaterale con i vari attori regionali.

Salvo l'aspra condanna contro il massacro di Parigi, l'intervento di Xi ad Antalya ha avuto invece un taglio prettamente economico. "Siamo ancora un importante motore per la crescita mondiale. Dobbiamo portare avanti la transizione del G20 da meccanismo di risposta in caso di crisi a governance di lungo termine", ha dichiarato il presidente nella giornata di domenica, "dobbiamo costruire un'economia globale aperta, opporci al protezionismo, spingere per l'assunzione di politiche macroeconomiche responsabili da parte di tutti i paesi del G20, e insieme espandere la domanda globale". La Cina, da parte sua, "ha ancora l'intenzione e la capacità di sostenere una crescita medio alta e creare opportunità di sviluppo per gli altri paesi". Un punto ribadito in occasione del meeting con i leader dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), tenutosi a margine del vertice. Letteralmente: "L'oro puro non teme il fuoco. Finché manteniamo la fiducia e rafforziamo il coordinamento, i paesi BRICS riusciranno sicuramente a navigare anche con onde e vento".

Cerniera tra le economie mature e i paesi in via di sviluppo, la Repubblica popolare ha il potere, nel bene e nel male, di influire pesantemente sul'assetto mondiale, contando per un terzo della crescita globale. E' stato, pertanto, compito di Xi illustrare al mondo le linee guida tracciate nell'ambito del quinto plenum del Partito comunista, appuntamento chiave della politica cinese tenutosi lo scorso mese a Pechino. Come sintesi del consesso rosso, è al Tredicesimo Piano Quinquennale (2016-2020) -summa del pacchetto di riforme preannunciato nel novembre del 2013- che bisogna guardare per avere anticipazioni sul cammino intrapreso dal gigante asiatico. Quella di Xi sarà una Cina a crescita "medio-alta" (lontana dai tassi di crescita iperbolici dell'ultimo decennio), "ecofriendly" e "high-end". Scordiamoci la fabbrica del mondo, la paccottiglia a basso costo e il fake. Pechino ora punta alla produzione di beni ad alto valore aggiunto e ad una distribuzione più equa delle ricchezze accumulate negli anni del miracolo cinese. Si parla di raddoppiare il Pil e il reddito pro capite del 2010 entro il 2020, obiettivo che -stando alla leadership cinese- potrà essere raggiunto anche con una crescita del 6,5 per cento (contro il 6,9 per cento registrato nei primi tre trimestri del 2015 e un 7 per cento stimato da Xi per la fine di quest'anno). Non solo. 70 milioni di persone usciranno dallo stato di povertà in 5 anni, promette il Tredicesimo Piano Quinquennale.

Sarà in grado Pechino di passare dalle parole ai fatti? La domanda è pertinente dal momento che il rallentamento dell'economia cinese ha coinciso con alcuni bruschi incidenti di percorso, come nel caso del tonfo della Borsa di Shanghai sprofondata dell'8,48 per cento lo scorso 24 agosto. Da oltre Muraglia replicano ostentando la solidità dei fondamentali e la crescita del settore dei servizi e dei consumi interni, ma secondo voci di corridoio la performance sottotono dell'economia nazionale starebbe ritardando l'implementazione delle riforme volte a dare "un ruolo decisivo al mercato nell'allocazione delle risorse". Condizione fondamentale per facilitare l'arrivo di nuovi investimenti esteri in Cina.

(Pubblicato su Gli Italiani)

sabato 7 novembre 2015

La lunga stetta di mano tra Pechino e Taipei



(Update: Taiwan proverà a ripresentare domanda per entrare nell'Asia Infrastructure Investment Bank con il nome di "Chinese Taipei". Lo scorso aprile, Pechino aveva rifiutato la richiesta lasciando aperta l'ipotesi di un'ingresso nel nuovo soggetto bancario "in futuro", ma soltanto dopo aver raggiunto un'intesa su un "nome appropriato". Appena pochi giorni fa, durante lo storico incontro con Ma, Xi Jinping si era detto favorevole all'inclusione di Taiwan nella membership "in presenza di condizioni appropriate".

A distanza di 66 anni, ricominciano con una lunga stretta di mano (durata oltre 1 minuto!) i rapporti tra la Repubblica popolare e Taiwan. Il presidente cinese Xi Jinping e il suo omologo taiwanese Ma Ying-jeou si sono incontrati sabato a Singapore, primo faccia a faccia tra i vertici dei rispettivi Paesi da quando nel 1949 la fine della guerra civile tra i comunisti di Mao e i nazionalisti (del Guomindang) di Chiang Kai-shek vide questi ultimi riparare, da perdenti, sull'isola oltre lo Stretto di Formosa. Da quel momento le due leadership hanno governato sotto regime antitetici (di tipo democratico a Taiwan, monopartitico in Cina) raggiungendo nel 1992 un'intesa non priva di criticità: quell'anno Pechino e Taipei si accordarono sul riconoscimento dell'esistenza di "una sola Cina" continuando tuttavia, ognun per sè, a interpretare la formula a proprio piacimento.

Entrambi i governi si definiscono i legittimi rappresentanti di quella "sola Cina", con la differenza sostanziale che la maggior parte della comunità internazionale oggi riconosce Pechino come proprio interlocutore. Questo comporta per Taipei un isolamento diplomatico di cui -stando al comunicato stampa rilasciato da Ma Ying-jeou- i due leader hanno avuto modo di discutere a porte chiuse.
Per il Dragone, Taiwan è una "provincia ribelle" da riannettere alla madrepatria anche a costo di passare alle maniere forti (nel 2005 Pechino ha varato una legge anti-secessione che autorizza l’uso delle forze armate qualora l’isola si dovesse dichiarare formalmente indipendente. Concetto costantemente ribadito dai 1500 missili balistici tutt'oggi rivolti verso l'ex Formosa).

"Niente può separarci. Siamo un'unica famiglia", ha dichiarato Xi Jinping, invitando i popoli su entrambi le sponde dello Stretto a non lesinare gli sforzi per "la grande rinascita della nazione cinese", "siamo come due fratelli tenuti ancora insieme dalle nostre carni mentre le nostre ossa sono rotte". Un'unica famiglia in cui, tuttavia, "entrambe le parti debbono rispettare reciprocamente i valori e lo stile di vita dell'altro", ha risposto Ma Ying-jeou alludendo al sistema liberale in vigore sull'isola, fonte di non pochi grattacapi per il regime a Partito unico di Pechino.

Sebbene i rapporti tra i due cugini asiatici siano nettamente migliorati a partire dal 2008, anno in cui la leadership è passata nelle mani di Ma e del Guomindang, lo scorso anno l'opinione pubblica ha puntato i piedi all'annuncio di un nuovo accordo bilaterale sui servizi che, secondo molti, rischia di penalizzare le piccole e medie imprese taiwanesi. Le proteste, sfociate nell'occupazione studentesca del parlamento di Taipei (la Rivoluzione dei Gelsomini), sono riuscite a posticipare la ratifica del trattato, ma hanno finito per innalzare il livello di guardia a Pechino, particolarmente occhiuto quando a levare gli scudi sono le periferie dell"Impero" (leggi: Taiwan, Hong Kong, Tibet e Xinjiang).

Come preannunciato alla vigilia del meeting, l'incontro di sabato non ha portato alla firma di nuove intese commerciali. Né ha visto un reale upgrade qualitativo nei rapporti diplomatici: sebbene Xi e Ma si siano accordati per l'istituzione di una hotline tra le due agenzie semigovernative fin'oggi incaricate di gestire le relazioni nello Stretto (il Consiglio per gli Affari Continentali e l’Ufficio per gli Affari di Taiwan del Consiglio di Stato), i due leader si sono rivolti l'un l'altro con il generico termine di "mister" al fine di evitare quello ufficiale di "presidente". Da escludere, quindi, un ammorbidimento cinese per quanto riguarda il riconoscimento formale di Taiwan come entità statale autonoma (ben indottrinati in proposito i media governativi cinesi non hanno esitato a pixellare la spilletta con i colori di Taiwan appuntata sulla giacca di Ma e a tagliare il suo intervento in conferenza stampa). Inoltre, secondo il quotidiano hongkonghese South China Morning Post, Taipei avrebbe gradito che lo storico faccia a faccia venisse ospitato dalle Filippine nel contesto più formale del summit Apec (Asia Pacific Economic Cooperation) in agenda nei prossimi giorni a Manila. Richiesta respinta dai compagni di Pechino, che hanno optato per Singapore, location neutra già sede, nel 1993, di un primo inedito incontro tra il Consiglio per gli Affari Continentali e l’Ufficio per gli Affari di Taiwan.

Decisamente più indicativo il tempismo scelto per il meeting, di poco successivo al passaggio di una nave militare americana a 12 miglia nautiche da alcune isole artificiali del Mar Cinese Meridionale che Pechino considera entro i suoi confini territoriali, e a un paio di mesi dalle elezioni presidenziali taiwanesi. Da una prospettiva macro, il vertice (del tutto inatteso) avrebbe avuto quindi due funzioni principali: innanzitutto quella di rassicurare uno dei vicini regionali sulle intenzioni pacifiche del Dragone nelle acque contese (Pechino e Taipei avanzano rivendicazioni incrociate su alcuni degli atolli del Mar Cinese). Rassicurazione da leggersi, nondimeno, come un messaggio subliminale diretto a Washington, dal momento che gli Stati Uniti sono ancora blindati a Taipei dal Taiwan Relation Act, un lascito della Guerra Fredda. In secundis, l'incontro serve a riaffermare la fiducia del gigante asiatico al Partito nazionalista e assicurare il mantenimento dello status quo in un momento in cui la politica interna dell'ex Formosa si fa via via più magmatica. Se infatti il candidato del Democratic Progressive Party (DPP), Partito di orientamento filo-indipendentista e "amico" dei Gelsomini, viene dato in testa ai sondaggi, il Guomindang si è trovato a dover sostituire in extremis il proprio con l'attuale capo del partito, Eric Chu, a causa dell'impopolarità ottenuta dalla sua prima scelta. In questo contesto, pertanto, l'incontro al vertice -mal digerito dal DPP- avrebbe lo scopo di cementare l'elettorato taiwanese intorno al presidente uscente e ai suoi uomini. Seppure la scarsa simpatia nutrita da una consistente fetta della popolazione verso l'ingombrante vicino rischi di innescare un effetto boomerang. Secondo un sondaggio della Cross Strait Policy Association rilasciato all'indomani dello storico meeting, il 48,6 per cento dei 1.014 intervistati si è detto a favore della candidata del DPP, Tsai Ing-wen, solo il 21,4 per cento sostiene Chu.

"Il Guomindang ha una più lunga tradizione di rapporti con i funzionari cinesi. Si avvale di tutta una serie di canali privilegiati e viene visto come il Partito di Taiwan in grado di evitare una guerra nello Stretto e rafforzare contatti amichevoli tra le due sponde", spiega al Guardian Michael Cole, senior officer presso il think tank Thinking Taiwan Foundation. Da quando Ma Ying-jeou ha assunto il suo incarico, Pechino e Taipei hanno siglato 23 accordi di cooperazione, mentre il volume dei commerci tra le due Cine ha superato i 170 miliardi di dollari annui. Ecco che scongiurare un'inversione a U nella politica di buon vicinato coltivata dai nazionalisti risulta di importanza primaria per il Dragone.

Alla fine come ha dichiarato Ma Ying-jeou in conferenza stampa: "A me restano soltanto sei mesi [di governo], ma Xi ha ancora davanti a sé almeno altri sette anni".

(Pubblicato su Gli Italiani)

martedì 3 novembre 2015

Vertice commerciale tra Cina, Giappone e Corea del Sud per ricucire gli antichi strappi. Ma gli Usa sorvegliano


Cina, Giappone e Corea del Sud si impegnano a rafforzare gli scambi commerciali e a ricucire gli strappi provocati dalle storiche incomprensioni, nonché dalle più recenti dispute territoriali. E’ quanto emerso dal vertice trilaterale andato in scena nella giornata di domenica a Seul, che ha visto il premier cinese Li Keqiang incontrare la presidente sudcoreana Park Geun-hye e il primo ministro giapponese Shinzo Abe.

 I leader dei tre giganti regionali hanno regolarmente condotto incontri annuali dal 2008 al 2012, anno in cui le relazioni bilaterali tra il Dragone e il Sol Levante sono precipitate ai minimi storici in seguito alla nazionalizzazione da parte di Tokyo delle Diaoyu/Senkaku, un pugno di scogli del Mar Cinese Orientale rivendicati da entrambi i Paesi per via delle risorse naturali nascoste nei fondali ad essi circostanti. Non da meno, quello stesso anno veniva marcato da un ricambio al vertice che avrebbe visto affermarsi alla guida dei due vicini asiatici leadership animate da una forte spinta muscolare in politica estera.

 Da quanto dichiarato in conferenza stampa, i tre parrebbero aver trovato un accordo per la ripresa del summit con scadenza annuale (nel 2016 sarà ospitato da Tokyo), al fine di dare nuovo smalto alla cooperazione commerciale.

Cina, Giappone e Corea del Sud rappresentano le tre principali economie dell’Asia Orientale con un volume di scambi da 690 miliardi di dollari. Nel 2012, sono stati avviati i negoziati per un accordo di libero commercio (FTA), ma l’andamento ondivago dei rapporti diplomatici ha finora ritardato i lavori.

 Mentre la Repubblica popolare continua a rappresentare per Seul il partner commerciale di punta e la principale fonte d’importazione con un giro di affari che quest’anno dovrebbe raggiungere i 300 miliardi di dollari, la reticenza del governo di Abe nel riconoscere le violenze inflitte dal Giappone nell’abito della seconda guerra mondiale ha portato ad un calo dell’8 per cento nei commerci con la Corea del Sud rispetto ai valori del ’91, quando il Sol Levante contava per il 22 per cento delle transazioni sudcoreane con l’estero. In particolare, la questione delle “comfort women”, le donne asiatiche (in maggioranza coreane) costrette alla prostituzione durante l’occupazione nipponica tra il 1910 e il 1945, continua ad essere la principale fonte di frizioni tra Tokyo e Seul. Così come lo è per la Cina il ricordo del “Massacro di Nanchino”, termine con cui sono passati ai posteri i crimini di guerra perpetrati dal Giappone nel Regno di Mezzo tra il 1937 e il 1938. Se per Shinzo Abe le scuse ufficiali rilasciate nell’ambito della Dichiarazione Kono (1993) sarebbero più che sufficienti a buttarsi alle spalle il passato una volta per sempre, per Seul un mea culpa trasparente è precondizione necessaria a dare nuovo vigore alla partnership.

 “Spero che questo summit possa guarire le ferite provocate dalla storia in maniera più completa e che possa dimostrarsi un’importante opportunità per lo sviluppo delle relazioni tra i due Paesi,” ha scandito Park lunedì all’apertura del suo primo faccia a faccia con Abe da quando la “Lady di ferro” si è insediata alla Blue House.

 La trilaterale è stata, infatti, preceduta e seguita da meeting “two-way” tra i rispettivi leader. Nella giornata di sabato, Park e Li hanno siglato 17 accordi di cooperazione bilaterale, dal commercio alla protezione ambientale, passando per gli scambi people-to-people e l’IT. Ciliegina sulla torta dopo l’annuncio, lo scorso luglio, della raggiunta intesa per un FTA Cina-Sud Corea e, sopratutto, dopo l’ingresso di Seul nell’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), la superbanca lanciata da Pechino per sopperire al deficit infrastrutturale del continente Asia. Il nuovo istituto, additato sull’altra sponda del Pacifico come concorrente ufficioso di World Bank e Fondo Monetario Internazionale, risulta ancora “incompleto” a causa dell’assenza di Stati Uniti e Giappone.

 Nonostante un tiepido disgelo avviato con l’incontro tra il presidente cinese Xi Jinping e Abe a margine del summit Apec dello scorso novembre, i rapporti tra Pechino e Tokyo continuano ad essere percorsi da tensioni alimentate in buona parte dalla storica alleanza che lega il Sol Levante agli Stati Uniti e che non di rado è arrivata a intaccare questioni che il Dragone considera di propria esclusiva pertinenza. Un esempio: le inedite esercitazioni congiunte tra Washington e Tokyo nel Mar Cinese Meridionale, tratto di mare in cui Pechino è ai ferri corti con un’altra manciata di Paesi limitrofi.

 “La Cina continuerà a procedere fermamente sul sentiero dello sviluppo pacifico e spera che il Giappone faccia lo stesso”, ha dichiarato Li, stando al resoconto del meeting bilaterale con Abe diramato alla stampa. Un’ennesima velata condanna alla controversa revisione della costituzione pacifista adottata dal Giappone al termine della seconda guerra mondiale (revisione, tuttavia, auspicata da Washington fautore di una politica estera più responsabile e proattiva tra i propri sodali). Le due parti si sono impegnate a implementare i meccanismi di comunicazione tra le rispettive forze armate e a riavviare i colloqui sullo sviluppo dei giacimenti di gas e petrolio in prossimità delle aree contese nel Mar Cinese Orientale. Ma è improbabile che questo basti a scongiurare definitivamente l’intrusione a stelle e strisce nell’area, che la si voglia chiamare “pivot” o “rebalance to Asia”.

 Sono circa 80 mila i soldati americani ancora ripartiti tra Corea del Sud e Giappone, con l’intento conclamato di mantenere la stabilità nel quadrante minacciato dalle ricorrenti provocazioni nordcoreane, e quello meno strombazzato di contenere lo slancio assertivo del Dragone sullo scacchiere Asia-Pacifico. Proprio domenica, il Segretario alla Difesa Usa, Ashton Carter, in visita nella zona demilitarizzata tra le due Coree, ha rinnovato l’impegno americano a difendere Seul dalle imprevedibili mosse di Pyongyang, lo “Stato canaglia” di cui la Cina è principale alleato e benefattore. Carter non ha mancato di far notare come i toni rodomonteschi utilizzati da Pechino per difendere la propria sovranità a discapito dei vicini asiatici stiano progressivamente spingendo i Paesi più indifesi sotto l’ombrello statunitense. Un’eventualità che il Dragone spera di schivare giocando la carta commerciale. Non a caso, durante il summit di domenica, Li Keqiang ha spronato Giappone e Corea del Sud a velocizzare le trattative per l’istituzione della Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), mega accordo di libero scambio regionale in cui molti intravedono una risposta cinese alla Trans-Pacific Partnership (TPP) a trazione americana.

(Pubblicato su Gli Italiani)

martedì 20 ottobre 2015

A ‘China Town’ in Northern Tajikistan


Dushanbe has invited China’s Tebian Electric Apparatus Stock Co., Ltd. Company (TBEA) to take part in the construction of Saikhun, the first new city to be built in Tajikistan since its independence, Azernews reported last April. The new city is to be built on a 14,000-hectare desert land near Khujand, the country’s second-largest city in the Sughd province (northern Tajikistan), and will have 19 residential areas, 17 schools, 31 kindergartens, 40 sports centers, 140 shopping and services centers, a transport terminal, and other social facilities. It is also said to provide housing and jobs for some 250,000 people in nearest future helping to reduce the number of Tajik citizens working abroad and lessen Tajikistan’s dependence on remittances as an engine of growth.

TBEA is a leading Chinese producer of transformers, wire and cable, high-voltage electric aluminum foil, and solar energy equipment with experience in the construction of high-rise buildings, hotels, schools, sports, and other social facilities. The Chinese company was also asked to consider energy projects in the Sughd region.

This would be a big deal in itself, but it gained even more prominence after the announcement of a similar project last month. As Khovar Information Agency reported, in the near future a large residential project will begin in Khujand called “China town.” This will be the first project featuring foreign construction companies to be carried out in Tajikistan. The project, being undertaken by a Chinese state-owned construction company with the support of the Tajikistan national and regional authorities, will include 15 high-rise buildings for 1,200 families, schools and a number of social facilities. The construction work is expected to take up to five years.

Under a bilateral agreement, the construction company is obliged to provide housing for those persons whose houses are located on the project site. But local people fear that the area will see massive Chinese immigration, becoming a “China town” in the true sense. To date, the presence of Chinese workers has generated relatively few concerns in Tajikistan. Some estimates put the number of Chinese workers at between 7,000 and 10,000, relatively lower compared to comparable figures in neighboring countries. Consequently, although the local population has expressed some unease, the issue has yet to engender the fears seen in Kazakhstan and Kyrgyzstan, according to a Crisis Group report.

However, this could change rapidly as Beijing looks west for its One Belt One Road strategy, which aims to enhance interconnectivity among Eurasian countries and export China’s industrial overcapacity. Tajikistan lacks natural resources but possesses strategic importance since it shares borders with Afghanistan, a sanctuary for Islamic fundamentalism and drug proliferation. Moreover, now that Chinese investors are tiring of persistent uncertainty in Kyrgyzstan after it joined the Kremlin-led Eurasian Economic Union (EEU), Tajikistan is becoming more attractive to Beijing, according to EurasiaNet.org. And the Sughd region holds particular appeal.

“Khujand is Milan; the rest of Tajikistan is Sicily,” said Christian Bleuer, research fellow at the Australian National University. “In Khujand you can find a reliable and professional business partner. There is an old industrial and economic base. People are educated, skilled and cosmopolitan. Khujand is close to large population centers and to lucrative markets. People in Khujand have 3000 years of trade experience. A contract will be honored by a Khujandi.” China is definitely in southern Tajikistan, but the north is far more attractive. “The Chinese projects in the south have more of the characteristic of the Chinese government building ties and influence (and are tied to big Chinese bank loans). Chinese projects in the north are more independent so Chinese businessmen see a good investment opportunity,” explained Bleuer.

In 2006, a Chinese company commenced the Dushanbe-Khujand-Chanok highway project (DKC), financed by a $296 million loan from the Chinese government. Today, the highway serves as a vital trade artery, connecting capital Dushanbe to the economically vital Sughd province and the Ferghana Valley. It is a sign of things to come.

(Pubblicato sul The Diplomat)

sabato 10 ottobre 2015

Meet Rebiya Kadeer


(9 ottobre - sede del Partito Radicale)

Due lunghe trecce argentee ai lati del viso ovale, lievemente schiacciato, sormontato da un cappellino quadrato come i molti visti fino alla nausea nei bazar dell'Asia Centrale. Rebiya Kadeer, la leader del popolo uiguro, ha un corpo minuto e movenze aggraziate. Avanza a piccoli passi nel suo vestito azzurro regalando sorrisi di una dolcezza spiazzante. Una delicatezza che raramente traspare dagli scatti reperibili in rete, e aggiunge luci e ombre ad una delle figure più controverse della lunga lista di detrattori di Pechino.

Per qualcuno Rebiya muove i fili delle forze separatiste del Turkestan Orientale (che Pechino ha ribattezzato Xinjiang nel XIX secolo), alimentate dal processo di sinizzazione della regione portato avanti dal gruppo maggioritario han, e sempre più amalgamate al brodo primordiale dei gruppi terroristici centroasiatici.

"Perché uiguri e han possano vivere insieme ci vuole uguaglianza e giustizia. E' dovere dello Stato incoraggiare l'amicizia tra i popoli". Il sorriso si deforma in uno sguardo corrucciato. La voce è severa, a tratti roca: "il popolo uiguro vive sotto costante minaccia; è come ai tempi della Rivoluzione Culturale. Le nostre richieste di pace incontrano la resistenza della forza bruta e questa situazione ha accresciuto il rancore in una parte della popolazione. La radicalizzazione degli uiguri è frutto di una politica pianificata da Pechino, invisa anche a molti han. La parola terrorismo viene usata dalle autorità come pretesto [per denunciare atti dimostrativi contro l'etnia maggioritaria]."

Non c'è spazio per il dialogo in un'intervista che degenera in un monologo imbevuto di retorica anticinese; un copione già letto, costruito su una serie di falsità ricorrenti, come la presunta imposizione di un'istruzione monolingue nelle scuole dello Xinjiang. La Kadeer, in visita a Roma per la Marcia per la Libertà delle Minoranze e dei Popoli Oppressi, avrebbe potuto sfruttare l'occasione per veicolare un messaggio propositivo, di incoraggiamento alla stabilità di uno Xinjiang pacifico e multietnico. Invece ha optato per la denuncia fine a sé stessa, sterile e incostruttiva. Peccato!

domenica 20 settembre 2015

8000 donne dello Hunan sulle Tianshan (Parte I)


In Cina c'è un detto: "Ci sono tre modi per contravvenire alla pietà filiale; il peggiore è non portare avanti la discendenza". Quando il comandante di brigata Wang Zhen arrivò nello Xinjiang, trovare una moglie per i veterani dell'esercito diventò per lui il problema più spinoso da risolvere. Al tempo, circa il 90 per cento dei soldati proveniva dalle campagne; persino il comandante e il colonnello erano persone umili. Grazie allo scrittore Lu Yiping, questa memorabile parte della storia cinese è stata rivelata in un'opera dal titolo "8000 donne dello Hunan alla volta delle Tianshan". Quello che segue è un estratto, che pubblichiamo in tre puntate

Io sono una persona che ha reso importanti servigi al popolo, sono stato premiato con una medaglia al valore per la Spedizione settentrionale, ho combattuto contro gli invasori giapponesi; sono un quadro in pensione di Nongqishi. Mia moglie, Daixiu Ju, originaria di Hengyang (Hunan), si è unita all'esercito femminile nell'aprile del 1952, per questo in un certo senso mi considero a mia volta un po' dello Hunan.

In realtà, prima di arruolare delle donne, Wang Zhen ci aveva pensato su a lungo. Il generale Tao Jinchu -che era il cugino di Tao Zhiyue (generale nazionalista dello Hunan, ndt) e precedentemente aveva servito come comandante in capo della guarnigione del Guomindang nello Xinjiang- dopo la resa [alle forze comuniste] nel settembre 1949, era stato messo a capo della 22° Armata dell'Esercito popolare di liberazione. Divenuto, il 27 ottobre del 1949, vice comandante della nuova guarnigione di stanza nello Xinjiang, nonché comandante della 42° divisione, in un telegramma indirizzato al vicecomandante della 22° Armata, Zhao Tinguang, scriveva che "in seguito alla riorganizzazione dell'esercito, sotto le nuove linee guida del governo del popolo dello Xinjiang, bisogna subito cooperare attivamente con il nuovo Esercito popolare di liberazione nelle attività produttive e di costruzione. Se riusciamo a raggiungere questo obiettivo, il nostro Paese avrà un futuro prospero e luminoso, e ciò che più conta: migliaia di ufficiali e soldati potranno tornare a casa. In futuro con lo sviluppo dei trasporti, dell'agricoltura e del settore minerario, continueranno ad arrivare persone provenienti da ogni luogo e non ci saranno più divisioni etniche."

Anche il maresciallo Peng Dehuai era presto giunto alla stessa conclusione. Una volta, mentre supervisionava le truppe, aveva chiesto ai soldati se avessero nostalgia di casa. Questi guardandosi a vicenda ridacchiarono senza avere il coraggio di rispondere.
"Se dicessi che non mi manca casa mentirei", disse Peng. "Alcuni tra di noi sono più di dieci anni che non tornano dalla famiglia. Ora che la guerra è finita molte persone vorrebbero tornare a casa. Ma per ora non è possibile: combattere per il potere è più facile che riuscire a mantenerlo. Per questo bisogna restare di guardia nello Xinjiang; dobbiamo prepararci a metterci radici," rispose. "Volete o no una moglie e dei figli?"

Imbarazzati i soldati si limitarono a dei sorrisetti. "Quando entrate nelle linee del nemico non mostrate paura, vi mantenete da voi coltivando nuove terre in queste terre inospitali, e se ci sono grandi problemi sono certo sarete in grado di risolverli. Ma sul fatto che possiate stare senza una donna, su questo ho qualche dubbio. Anche se voleste rimanere soli tutta la vita io non sarei d'accordo. Le truppe addette alla bonifica delle terre di confine necessitano di successori. Se rimanete tutti scapoli, chi erediterà la nostra attività? Mi sono già accordato con Wang e gli ho detto di far venire delle donne..."

Non aveva finito di parlare che subito fu sommerso dall'applauso scrosciante dei soldati.
In un'altra occasione, mentre era andato a preparare i lavori per la costruzione di Shihezi (città a ovest di Urumqi, ndt), Wang Zhen fu invitato da una danwei a tenere un discorso. Una volta finito di parlare Wang chiese se avessero qualche suggerimento. Tutti risposero di no, al che un soldato un po' ingenuotto si alzò in piedi e disse: "Ufficiale, io ce l'ho". "Allora dicci", replicò Wang. E lui: "Comandante, nessuno di noi ha una moglie. Ci deve aiutare a risolvere questo problema". Detto ciò si rimise a sedere. Quando gli altri sentirono tali parole lo guardarono e scoppiarono a ridere. Il soldato diventò tutto rosso e abbassò il capo. Ma Wang no, non rise, e con ironia rispose: "Questa si che è una questione interessante. Il Comitato centrale del Partito e il Presidente Mao avevano già pensato a questo problema e presto vi manderanno "peperoncini" dallo Hunan, "cipolline" dallo Shandong e "anatrelle" da Shanghai.

Invero, il problema delle mogli dei soldati esisteva già ai tempi della guerra civile. In Cina c'è un detto: "Ci sono tre modi per contravvenire alla pietà filiale; il peggiore è non portare avanti la discendenza". Tra noi veterani, circa il 90 per cento proveniva dalle campagne. Anche il comandante e il colonnello non erano uomini di grande cultura, e più che pensare all'amore e all'affetto volevamo una moglie per dare al mondo degli eredi.

Al tempo in cui mi trovavo nella regione militare di Bohai come istruttore politico, c'era Liu Xigou, il comandante della compagnia, che aveva militato nell'Armata Rossa durante la Lunga Marcia ricevendo molte ferite: gli intestini tagliati erano stati riannodati con quelli di un cane, le guance sfregiate e i denti rotti, per non parlare delle ferite disseminate su tutto il corpo. Un giorno mi venne a cercare per dire che aveva qualcosa da dirmi. C'erano alcune questioni "fastidiose" che dovevo discutere con il comandante della brigata perché lui si sentiva troppo a disagio per farlo. "La prima è che a 40 anni sono ancora senza moglie. Ti chiederei quindi di aiutarmi a trovarne una. Poi avrei bisogno di mettermi dei denti finti; me ne mancano così tanti da farmi sembrare terribilmente vecchio e questo influisce anche sull'opinione che l'esercito ha di me. Terzo: io non sono un quadro di Partito. Sono di origini umili e finché si tratta di badare a qualche decina di mucche e pecore può ancora andare, ma qui si parla di 100-200 soldati, è un lavoro che richiede un grande sforzo".

Sentite queste parole, andai subito a cercare il comandante della brigata Zhang Zhonghan. Dopo avergli riportato ogni cosa, Zhang scoppiò a ridere e rispose che al momento non si poteva certo andare alla ricerca delle mogli. La guerra [tra comunisti e nazionalisti] non era ancora terminata; se ne sarebbe riparlato in seguito. Per quanto riguardava i denti, avrebbero proceduto all'impianto appena trovato un posto con le attrezzature adeguate, quanto al suo ruolo nell'esercito, non poteva certo esimersi dall'incarico. Quando riportai queste parole a Liu Xigou questi sospirò: "Ah, questa guerra... chissà quanto durerà!"

Quando l'esercito raggiunse il Nord-Ovest, il comandante Liu aveva già compiuto i 45 anni ed era diventato un quadro di reggimento. Arrivati a Zhangye (provincia del Gansu, ndt), Liu tirò di nuovo fuori il discorso. "La guerra è quasi conclusa. Se le truppe del Guomindang di stanza nello Xinjiang non si ribellano, questo interminabile conflitto finirà. Ora mi posso trovare una moglie giusto?"

Il caso volle che nella proprietà in cui c'eravamo appena stabiliti lavorasse una cameriera. Improvvisandomi sensale le chiesi se le andasse di finire in sposa a un soldato. La ragazza, che proveniva da una famiglia povera, provava una grande venerazione per l'Esercito popolare di liberazione e accettò subito di buon grado. Le spiegai che l'uomo che doveva sposare era un quadro di reggimento, reduce della Lunga Marcia, che aveva combattuto i diavoli giapponesi e partecipato alla rivoluzione comunista. Proprio per questo era un po' più grande di età. Era il caso che ci pensasse bene prima. Ma lei sentendo ciò fu ancora più felice ed emozionata rispose: "Io, una semplice domestica, in sposa ad un quadro di reggimento! Certamente devo ringraziare gli antenati per questo!" Riportammo tutto al padrone di casa che inaspettatamente si oppose fermamente all'unione. Dopo aver discusso a lungo, venne fuori che quello che voleva era semplicemente essere pagato. Gli chiesi quanto. 200 kuai era una somma enorme, tuttavia acconsentii a denti stretti. Tutti noi della brigata cominciammo a raccogliere il denaro. Considerato che eravamo in 185, un kuai a testa non era abbastanza, per cui decidemmo di dividerci la spesa. In questo modo alla fine riuscimmo a dare a Liu una moglie.

Ce n'era poi anche un altro; il capitano della squadra sanitaria Liu Chongxi, 50 anni e ancora scapolo. Dato che il padrone di casa aveva un'altra cameriera pensammo di dargli lei in sposa, ma avevamo già speso tutti i soldi per sistemare Liu Xigou e temevamo che il padrone volesse altro denaro. Decidemmo pertanto di far arruolare la ragazza così che il padrone di casa non avrebbe avuto il coraggio di opporsi nuovamente. Le chiesi se avesse voglia di unirsi alle truppe. Rispose che la moglie del padrone la maltrattava torcendole le labbra con le dita, ma che se i soldati non l'avessero fatto allora avrebbe acconsentito. Le dissi che non c'era pericolo. Che nell'esercito eravamo tutti fratelli e sorelle. Sembrò subito sollevata e accettò di arruolarsi. La istruii su come unirsi alle truppe e partì assieme a una guardia. Divenne subito parte dell'esercito. Quanto al capitano della squadra sanitaria e alla domestica, poco dopo essere arrivati nello Xinjiang si sposarono. E da quel che ne so, le cose tra i due vanno ancora piuttosto bene.

Il problema [delle mogli] si fece ancora più urgente una volta raggiunto lo Xinjiang. Al tempo, la regione militare si stava attrezzando in vari modi. Oltre ad aver deciso di reclutare un consistente numero di donne con un buon grado di istruzione dallo Hunan, nel 1951 Wang Zhen chiese al maresciallo Chen Yi di assumere 2000 soldatesse, di cui molte avevano militato durante la guerra di liberazione come infermiere nelle retrovie. Poi c'erano le donne dello Shandong, vecchio campo di battaglia dove parecchi uomini avevano perso la vita, e questo spiega perché vi fossero molte vedove da poter reclutare. In questo modo il problema dei matrimoni fu sostanzialmente risolto. Alla fine erano rimasti da sistemare soltanto alcuni veterani dell'esercito insurrezionale. Proprio per questo nel 1954 furono chiamate da Shanghai circa 920 prostitute.

Tempo fa, mi è capitato sotto mano il lavoro del sociologo britannico Sidney D. Gamble che prima della vittoria comunista aveva condotto un sondaggio sulla percentuale della prostituzione in grandi città come Londra, Berlino, Parigi, Chicago, Nagoya, Tokyo, Pechino e Shanghai, scoprendo che quest'ultima guidava largamente la classifica con un rapporto di 1:137. Dopo la liberazione nazionale, il governo di Shanghai decise di avviare un processo di riforma della prostituzione. Ad essere spedite nello Xinjiang furono proprio quelle ex prostitute passate attraverso il sistema di rieducazione attraverso il lavoro istituito dalle autorità della città. In quella regione remota e sconosciuta queste donne riuscirono a riacquistare dignità e autostima.

Quello dei matrimoni tra le truppe è un argomento gravoso tanto per gli uomini quanto per le donne. Prendiamo Zhao, per esempio. Comandante di battaglione durante la guerra di resistenza [contro il Giappone], non trovando una compagna ha cominciato a soffrire di problemi mentali. Passava tutto il giorno a rigirarsi la sua Mauser tra le mani. Alla fine ha deciso di farla finita impiccandosi con una cintura. Ci sono anche donne che, insoddisfatte del proprio matrimonio, hanno deciso di suicidarsi. Alcune sono state proprio costrette a farlo. Diversa storia è quella del comandante del gruppo addetto ai progetti ingegneristici, un certo Nie, che ha minacciato con la pistola una donna che lo respingeva. Avvertito del fatto, Wang Zhen decise di punire il comandante mandandolo via dallo Xinjiang. Lo spedì nello Hunan consentendogli il ritorno solo una volta trovata moglie. A Changsha Nie trovò effettivamente una donna diplomata, competente e bella. In breve tempo convolarono a nozze e una volta fatto rapporto a Wang, gli fu concesso di tornare nello Xinjiang.

Non per nulla questi racconti hanno suscitato opinioni discordanti. Nel '43 ho preso parte alla rivoluzione, successivamente sono passato alla direzione del Dipartimento politico del Distretto Militare dello Xinjiang e poi sono stato nominato vice commissario politico. Avendo modo di consultare diverso materiale, ho potuto scrivere un articolo basato sulle mie memorie intitolato "Le soldatesse dello Xinjiang dopo la liberazione". Qui parlo proprio della situazione delle donne nelle truppe di stanza nello Xinjiang e della questione dei matrimoni. Al tempo la situazione nell'esercito era la seguente: la maggior parte dei quadri di grado superiore a quello del comandante di divisione erano sposati, gli scapoli erano molto pochi; i quadri di reggimento, invece, erano quasi tutti non sposati. La maggior parte di quelli al di sotto del battaglione e i soldati semplici -a parte quelli che si erano già sposati prima di venire arruolati- non aveva moglie. La media della loro età era piuttosto alta. I comandanti di divisione erano per lo più sopra i 30, i quadri di reggimento sui 30 e quelli di battaglione sopra i 20.

Secondo la tradizione cinese, prima ci si sposa e meglio è, dal momento che allevare figli assicura protezione e assistenza per il resto della vita. Il matrimonio in giovane età è foriero di ricchezza e gloria, quello in tarda età porta povertà e umiliazione. Nelle campagne gli uomini e le donne a "15-18 anni si sposavano, a 17-18 avevano figli". Chi viveva nelle aree montane si sposava anche a 13-14 anni. Per questo il fatto di arrivare a 20-30 anni senza moglie/marito era motivo di apprensione.

A quel tempo, soldati e funzionari dell'esercito affrontavano il problema in maniera piuttosto impulsiva, avanzando richieste urgenti. Dicevano, non a torto, che "senza moglie il cuore non è tranquillo, senza figli non si hanno radici". Se la questione matrimoniale dei soldati non fosse stata risolta in fretta, a rimetterci poteva essere la stabilità e il tranquillo sviluppo dell'intero Xinjiang. Per questo i leader a tutti i livelli davano molto importanza alle loro lamentele. Wang Zhen, il vice commissario politico Xu Liqing, il capo di stato maggiore Zhang Xiqin, il vice direttore del Dipartimento politico e molti alti alti funzionari, erano tutti in grande apprensione e fecero di tutto per sistemare le cose con le buone e con le cattive.

Secondo le informazione che ho ricavato dagli archivi militari, Wang Enmao, all'epoca commissario politico presso la 2° Armata, durante una conferenza tenuta nel 1950, ha dichiarato che: "Riguardo al problema dei matrimoni, il comandante Peng Dehuai ha proposto di mobilitare le donne nello Xinjiang e di stabilire delle basi operative a Xi'an, Lanzhou, Jiuquan e Hami. Chi ha già una moglie o una promessa sposa la può portare a Xi'an. Se a casa non avete né una moglie né una promessa sposa, i genitori possono sceglierne una da portare. Arrivati a Xi'an dovete cercare la Segreteria del Comitato militare e politico del Nord-Ovest oppure l'ufficio locale della regione militare del Xinjiang. Tutto quanto concerne il trasferimento fino in Xinjiang è di competenza del governo. Al momento non è possibile accontentare tutti insieme, ma il comandante Peng e Wang Zhen sono uomini di parola. I più giovani non devono essere in ansia: prima vengono i compagni sopra i 30 anni, poi quelli sui 28-29 anni, a seguire quelli di 25 e così via; i più giovani devono lasciare il posto ai più vecchi senza creare disordine. Ciò che più conta è il benessere della nazione, una volta ottenuto questo obiettivo anche i problemi dei singoli individui potranno essere risolti. Per questo occorre che gli sforzi di tutti i compagni siano uniti per il raggiungimento del benessere collettivo. Il Presidente Mao certamente si prenderà cura di noi. Lui sostiene che l'economia del nostro Paese migliorerà ogni anno di più e che tutti i problemi possono essere risolti. Pertanto lavorando duramente e svolgendo al meglio i nostri compiti anche i nostri problemi verranno superati."

Per sanare lo squilibrio causato dal vasto numero di soldati senza mogli (di cui molti in età avanzata) a fronte delle poche donne di etnia Han in età da marito, giovani ragazze cominciarono ad abbandonare le province interne per trasferirsi in Xinjiang. L'unico modo per risolvere questa questione era farlo gradualmente, adempiendo agli obblighi imposti dalla propria carica e rispettando i criteri gerarchici, in base all'età. Un regolamento della regione militare dello Xinjiang del novembre 1951 stabiliva che i funzionari militari, i soldati e il personale militare trasferito al servizio civile o impiegato nelle attività industriali -arrivati nello Xinjiang nel 1949- potessero portare mogli e figli. Quell'anno oltre un migliaio di famiglie si unì alle truppe. Nel 1953, le truppe sotto il comando della regione militare dello Xinjiang furono riorganizzate in forze di difesa nazionale e unità di produzione; entrambe forze attive, ma con compiti diversi. Nel luglio del '53, il Dipartimento politico della regione militare emise un decreto sui matrimoni tra le forze di difesa, che stabiliva che quattro categorie potessero portare il proprio partner nelle truppe: i quadri con incarichi al di sopra del livello di battaglione; quelli di compagnia e plotone con più di 26 anni d'età e tre anni di servizio; i soldati dell'Armata Rossa arruolatisi prima del 7 luglio 1953; i veterani sopra i 30 anni e con 6 anni di guerra alle spalle. In seguito, con l'aumento del numero delle donne, le cose migliorarono, le norme furono progressivamente rilassate così che tutti i quadri potevano sposarsi o portare con loro i famigliari. La maggior parte dei veterani fu trasferita nelle unità produttive. Al volgere del 1955, il problema dei matrimoni tra i soldati era sostanzialmente stato risolto e il lavoro di trasferimento delle donne nello Xinjiang terminato. Quanti si sposarono dopo tale data trovarono moglie di ritorno al villaggio nativo, in altri casi invece si trattava di studentesse mandate [in Xinjiang] dagli istituti femminili.

D'altra parte, al tempo non c'era alternativa. La maggior parte delle truppe di base nello Xinjiang erano incaricate di coltivare queste terre di confine. Se i problemi matrimoniali di 200mila quadri non fossero stati risolti, sarebbe stato difficile mantenere stabile il morale delle truppe. Wang Zhen non poteva lasciarli lì scapoli ad affrontare le difficoltà dello sviluppo della regione. Inoltre il Xinjiang è una regione vastissima e per gran parte disabitata. Da una prospettiva di lungo termine, Wang riteneva bisognasse delocalizzare dalle province interne una parte consistente della popolazione. Per questo, nell'autunno del 1950, mandò nello Hunan il commissario politico Xiong Huang della 2° Armata per arruolare delle soldatesse. Egli credeva che le donne dello Hunan fossero in grado di sopportare le molte difficoltà e che se si fossero portate studentesse con una certa cultura il problema dei matrimoni dei funzionari di reggimento e battaglione sarebbe stato superato più in fretta. Così scrisse una lettera al Segretario del Partito dello Hunan Huang Kecheng, e al Capo del governo provinciale Wang Shoudao, invitandoli a collaborare. Effettivamente i due hanno dato un grande aiuto allestendo un ufficio di reclutamento a Yingpan Road (nella capitale provinciale Changsha, ndt), e pubblicando sul "Xin Hunan bao" continue notizie riguardo alla mobilitazione delle donne nell'esercito. Si esaltava il fatto che, una volta arrivate in Xinjiang, le ragazze avrebbero potuto frequentare dei corsi di russo, lavorare come operaie tessili o come trattoriste. Non si faceva parola, tuttavia, dei matrimoni. Sparsa la notizia, molte ragazze da ogni parte della provincia si affrettarono a raggiungere l'ufficio di reclutamento per proporsi come candidate e improvvisamente quell'area dove sorgeva il campo militare in cui in passato servirono Xin Qiji (poeta e militare della dinastia dei Song Meridionali, ndt) e Zuo Zongtang (statista e alto funzionario della dinasta Qing, ndt) divenne il luogo più popolare di Changsha.

*Lu Yiping nasce nel 1972 nella contea di Nanjiang, provincia del Sichuan. Di umili origini, sviluppa precocemente la passione per la letteratura. Nel marzo del 1990 decide di arruolarsi in una divisione di fanteria di stanza nel Xinjiang, una scelta che gli cambierà la vita. Nel 1996 si laurea presso il dipartimento di letteratura dell'Accademia d'Arte dell'Esercito di Liberazione Popolare. Dal 2002 fa parte dell'Associazione degli scrittori cinesi. La sua produzione letteraria ammonta a oltre dieci opere di vario genere, tra cui ricordiamo Il regno della passione, la raccolta di saggi Il libro del Tetto del Mondo e il reportage Ottomila donne dello Hunan alla volta delle Tian Shan, dato alle stampe nel 2006. In quest'ultimo utilizza una prospettiva nuova, attenendosi in maniera oggettiva ai ricordi delle protagoniste ancora in vita. Affinché il racconto fosse il più preciso possibile, Lu non solo ha girato il Xinjiang da nord a sud, ma ha anche visitato lo Hunan, il Sichuan e Pechino riuscendo a raccogliere oltre un centinaio di interviste.

(Pubblicato su China Files)

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