martedì 26 gennaio 2016

La Scimmia fa paura


Mentre l'anno della Scimmia è alle porte, quest'anno per qualcuno le vacanze sono cominciate in anticipo. Il crollo degli ordini e il rallentamento della produzione ha già spinto molte fabbriche ad anticipare la chiusura per il Capodanno cinese, che quest'anno cade l'8 febbraio. Alcune probabilmente non riapriranno più.

E' il ritratto di un'economia in affanno difficilmente riscontrabile nei numeri ottimistici rilasciati dal governo. Nel 2015, la crescita cinese si è mantenuta al 6,9 per cento, il valore più basso dal 1990 quando a pesare sull'economia nazionale erano subentrate le sanzioni occidentali post-Tian'anmen, ma poco al di sotto del 7,4 per cento del 2014 e in linea con le aspettative di Pechino, che punta a promuovere uno sviluppo più sostenibile "a velocità medio-alta". Da un punto di vista puramente numerico, la ricetta sembra funzionare: alle esportazioni deboli si tenta di rispondere pigiando sul pedale di consumi interni e servizi, che per la prima volta sono arrivati a riempire oltre la metà del Pil. Tutto torna, quindi, se il contributo del comparto industriale alla crescita risulta il 10 per cento più basso rispetto al terziario. Ma rimane da accertare la dubbia attendibilità dei dati, specie ora che il capo della National Bureau of Statistics, l'Istat cinese, è indagato per violazioni disciplinari, eufemismo utilizzato dai compagni del Pcc quando si parla di corruzione.

Da Pechino fanno sapere che una crescita del 6,5 per cento basterebbe a evitare scossoni a livello sociale. Secondo il Ministero del Lavoro, il tasso di disoccupazione urbana si è mantenuto piuttosto stabile negli ultimi anni intorno al 4,1 per cento; qualcosa in più stando al National Bureau of Statistics, ovvero il 5,1 per cento, molto meno che nell'Unione Europea e un po' più che negli Stati Uniti. Ma siamo ancora nel nebuloso regno dei numeri. A preoccupare gli analisti sono i fatti. Sopratutto le ripercussioni che la fase di transizione verso il "new normal" sta avendo sulla pancia del paese.

Il rallentamento economico ha già colpito duro le tasche dei lavoratori. Le aziende chiudono, tagliano gli stipendi o si spostano verso lidi più low cost. Secondo il South China Morning Post, ad oggi il 66 per cento dei colletti bianchi non ha ricevuto il bonus di fine anno, contro il 61,2 per cento del 2014. Mentre a Dongguan, nella culla del manifatturiero cinese,  tra aprile e settembre  almeno otto dirigenti si sono dati alla macchia lasciando senza stipendio 2500 lavoratori per un totale di 13 milioni di yuan di debiti (1,8 milioni di euro). A ciò si aggiunga l'ondata di licenziamenti sulla scia delle misure anti-inquinamento che hanno portato alla chiusura di miniere e acciaierie nella "cintura di ruggine", la punta estrema della Cina nordorientale; l'area maggiormente interessata dal processo di ristrutturazione delle "zombie companies" le società statali (SOEs) improduttive che Pechino ha fin'oggi foraggiato proprio per scongiurarne il fallimento e le conseguenze ad esso annesse. Decine di milioni di persone sono rimaste senza lavoro quando negli anni '90 le SOEs "soviet-style" furono sottoposte a un primo corposo sfoltimento. Memore dei disagi, stavolta il governo cinese spera di metterci una pezza con l'istituzione di fondi "salvagente" per facilitare il reinserimento di quanti rimarranno senza lavoro dopo il taglio nel settore minerario e siderurgico. Ma permangono molti dubbi sull'efficacia delle misure adottate.

Ad essere esposti sono sopratutto i lavoratori non qualificati, difficilmente ricollocabili all'interno del nuovo paradigma di crescita (il "new normal") trainato dall'innovazione. Lin Yanling, professore del China Institute of Industrial Relations di Pechino, ritiene che soltanto un 20 per cento dei lavoratori al momento si trovi in una posizione solida, mentre l'altro 80 per cento risulta più vulnerabile davanti al rallentamento dell'economia. Con il rischio che ora a pagare le spese sarà proprio chi ha costruito il miracolo cinese macinando turni di lavoro estenuanti nelle fabbriche del Fiume del Delta delle Perle o rischiando la vita nelle miniere di carbone nel nordovest della Cina.

Mentre Pechino promette di integrare i mingong (i lavoratori migranti) nel tessuto cittadino, facilitando l'acquisizione dell'hukou urbano (il permesso di residenza che dà accesso ai diritti di base) sopratutto nelle città medio-piccole, nelle megalopoli il sistema prevede ancora un rilassamento selettivo -per non dire discriminatorio- delle norme esclusivamente a favore di lavoratori qualificati, laureati, ed expat di ritorno. In Cina si contano circa 270 milioni di migranti, ma solo il 10 per cento è coperto dall'assicurazione contro la disoccupazione, stando ai dati della National Bureau of Statistics.

Nel 2015, le agenzie governative competenti hanno ricevuto 4815 denunce da parte dei mingong riguardanti perlopiù sforbiciate in busta paga o il mancato pagamento dello stipendio, divenuto quest'ultimo reato con l'emendamento del Codice Penale nel 2011. Tali casi hanno registrato un'impennata su base annua del 34 per cento nei primi tre trimestri del 2015, evidenziando uno spostamento dal settore edile (per sua natura tradizionalmente più soggetto a ritardi nella consegna degli stipendi previsti spesso solo alla conclusione dei lavori) al manifatturiero colpito da una sovrapproduzione che si sta traducendo in licenziamenti e riduzione dei compensi. Il periodo è quantomai sensibile considerato l'usuale moltiplicarsi di dispute sul lavoro alla vigilia del Capodanno cinese, ovvero quando i migranti battono cassa prima di tornare al villaggio natio per trascorrere le vacanze in famiglia. Il ministero delle Risorse Umane e della Sicurezza Sociale ha fatto sapere che i governi locali condurranno degli accertamenti per verificare che tutti siano entrati in possesso di quanto dovuto prima dei festeggiamenti previsti per il prossimo mese.

Se per i mingong è una questione di sopravvivenza, altrettanto lo è per Pechino e il suo Partito comunista, ora che il tacito patto "benessere economico in cambio di stabilità" evidenzia le prime crepe. Secondo le statistiche della ONG hongkonghese China Labour Bulletin, lo scorso anno si sono registrati 2774 "incidenti di massa" collegati al mondo del lavoro, il doppio rispetto al 2014, di cui la cifra record di 422 soltanto nel mese di dicembre. Tra questi oltre due terzi sono imputabili alla mancata paga del salario. Appena lo scorso mese un mingong ha dato fuoco ad un autobus nella provincia nordoccidentale del Ningxia per dare sfogo alla propria rabbia scaturita da una disputa finanziaria con un contractor.

E' così che recentemente il Consiglio di Stato, l'esecutivo cinese, ha emesso delle nuove linee guida in cui viene fissato il raggiungimento entro il 2020 di un regime di regolamentazione in grado di "mantenere sostanzialmente sotto controllo il problema delle mancate retribuzioni". Come spiegano alcuni esperti al Wall Street Journal, il documento appare più ambizioso rispetto alle direttive diramate in passato e ha lo scopo di responsabilizzare il datore di lavoro. Riuscirà Pechino a passare dalle parole ai fatti?

Senza dubbio se ci riuscirà lo farà a modo suo. Il nuovo anno si è aperto con l'arresto di quattro attivisti noti per il loro impegno nella difesa dei diritti dei mingong. Ultimo atto di una campagna volta a ingabbiare la società civile all'interno di uno stato di diritto "con caratteristiche cinesi" coadiuvato dall'alto. Anche nell'era della "nuova normalità" la mobilitazione grass-roots rimane uno "sport estremo". Un esempio: mentre per avvocati e dissidenti tintinnavano le manette, un migrante è stato nominato per la prima volta vicepresidente della All-China Federation of Trade Unions, l'unico sindacato ufficialmente riconosciuto nella Repubblica popolare rigorosamente sotto il controllo dello Stato.

(Pubblicato su Gli Italiani)




martedì 19 gennaio 2016

Xi Jinping in Medio Oriente

Fonte: China Daily
Nel 2016 è il Medio Oriente ad aprire l'agenda estera di Xi Jinping. Il presidente cinese, giunto il 19 gennaio in Arabia Saudita, visiterà anche Egitto e Iran (dal 22 al 23) diventando il primo capo di Stato cinese a mettere piede nella regione da quando a farlo fu Hu Jintao nel 2009. E nonostante gli interessi cinesi nell'area siano ben consolidati (da qui il Dragone attinge il 51,2 per cento delle proprie importazioni energetiche), si noterà come il tempismo risulti quantomai pregno di significato. Appena alcuni giorni fa Pechino ha pubblicato il primo libro bianco sulle politiche di sviluppo per il Medio Oriente e il Nordafrica, in cui l'economia primeggia nella cornice della One Belt, One Road, il progetto con cui la Cina si impegna a riportare in vita l'antica Via della Seta. Mentre secondo quanto dichiarato martedì in un comunicato congiunto, entro la fine del 2016 dovrebbe finalmente vedere la luce il tanto atteso accordo di libero scambio Cina-GCC (Cooperation Council for the Arab States of the Gulf), nell'aria fin dal 2004. Economia prima di tutto, si diceva, ma non solo da quando la volatilità regionale si è tradotta nell'esecuzione di un ostaggio cinese da parte dello Stato Islamico. Se è vero che in passato il gigante asiatico ha preferito lasciare i nodi insoluti della diplomazia mediorientale nelle mani degli altri quattro membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Russia), negli ultimi tempi Pechino si è affacciato sullo scacchiere regionale con alcune iniziative ampiamente celebrate dai media di Stato. Dal "ruolo costruttivo" ricoperto dalla Cina "nel processo di negoziazione" sul nucleare iraniano, ad un tentativo di mediazione tra il governo di Damasco e l'opposizione siriana culminato nelle visite oltre Muraglia del ministro degli Esteri siriano e del presidente della Syrian National Coalition a due settimane di distanza l'una dall'altra. Ma il momento storico richiede capacità funamboliche di difficile applicazione anche per un Paese che fa del principio della non ingerenza negli affari altrui il mantra della propria politica estera. Specie considerato il recente rinfocolare degli storici attriti tra Riyadh e Tehran. E' così che le avvisaglie di un velato affiancamento cinese alla linea saudita in Yemen - che individua nell'Iran il fattore scatenante nello scontro interno tra gli Houthi e il governo legittimo di Abd-Rabbu Mansour Hadi - potrebbero tramutarsi in un passo falso, appena a poche ore dall'arrivo di Xi Jinping a Tehran. Prima visita di un presidente cinese nella terra degli Ayatollah dal 2002. Nonché prima visita di un capo di Stato straniero dall'implementazione del Joint Comprehensive Plan for Action, che il 16 gennaio ha sancito la fine delle sanzioni internazionali collegate al programma nucleare iraniano.

ARABIA SAUDITA (19-20 GENNAIO)

Assumono lo status di "partnership strategica" le relazioni tra la Cina e l'Arabia Saudita, attestando la crescente importanza rivestita dalla "terra delle due sacre moschee" nella geometria delle alleanze mediorientali di Pechino. Non da ultimo a causa dell'ambiguità dimostrata da Riyadh nella questione della minoranza islamica degli uiguri residente nella regione cinese dello Xinjiang, e di cui Pechino paventa un'esposizione all'integralismo di matrice wahabita.
Secondo dati del Fondo Monetario Internazionale (2013), il commercio bilaterale è passato da 1,28 miliardi di dollari del 1990 (anno in cui Pechino e Riyadh hanno stabilito ufficialmente relazioni diplomatiche) ai 74 miliardi del 2012. Durante la visita di Xi è stato annunciato "un comitato di alto livello per guidare e coordinare la cooperazione bilaterale". Intanto sono stati siglati "14 accordi storici e memorandum d'intesa" in settori che spaziano dalla cooperazione nell'ambito della Silk Road Economic Belt e della Maritime Silk Road al settore delle rinnovabili, fino alla costruzione di un reattore nucleare. Ciliegina sulla torta: un accordo quadro tra il gigante petrolifero saudita Aramco e l'equivalente cinese Sinopec per un valore di circa 1-1,5 miliardi di dollari. Aramco ha già avviato trattative per investire nel settore della raffinazione in Cina.



EGITTO (20-21 GENNAIO)

"La Cina supporta gli sforzi dell'Egitto nel mantenimento della stabilità, nello sviluppo economico e nel miglioramento delle condizioni di vita. Sostiene inoltre un ruolo più incisivo del paese negli affari internazionali e della regione", ha scandito Xi Jinping al suo arrivo nella capitale egiziana, giusto alla vigilia della ricorrenza delle proteste del 25 gennaio 2011, che hanno segnato una battuta d'arresto per l'economia locale. 21 sono gli accordi commerciali siglati dalle due parti nel settore delle infrastrutture, della produzione energetica, compresi finanziamenti alla banca centrale (1 miliardo di dollari) e alla National Bank of Egypt (700 milioni di dollari). "I prestiti cinesi aiuteranno a incrementare le riserve estere della banca centrale più che dimezzate dal 2011, anno in cui l'istituto ha cominciato a combattere per difendere la propria valuta contro le pressioni a ribasso", scrive la Reuters. L'interesse cinese per il paese trova conferma nell'annuncio dei lavori per l'espansione della China-Egypt Suez Economic and Trade Cooperation Zone, la zona industriale congiunta sino-egiziana lanciata nel 2009. Il progetto di ampliamento, che copre un'area di 6 chilometri quadrati, dovrebbe essere concluso in dieci anni e rientra nell'ambito della Nuova Via della Seta. Mentre la cooperazione bilaterale nello sviluppo della cintura eurasiatica verrà implementata nell'ambito di un piano quinquennale.
L'Egitto è stato il primo paese del mondo arabo a istituire rapporti diplomatici con la Cina nel 1956. Due anni fa, Pechino e il Cairo hanno elevato le relazioni bilaterali a "partnership strategica comprensiva" con un volume commerciale da 11,62 miliardi di dollari, un +13,8 per cento su base annua. Numeri che pendono nettamente in favore della Cina: nel 2014 ammontava a 10,46 miliardi l'export cinese verso l'Egitto, contro i miseri 1,16 miliardi registrati dalle importazioni.

La visita di Xi ha poi fornito l'occasione per la ripresa dei colloqui (da tempo congelati) riguardo un accordo di libero scambio Cina-GCC. "Un FTA (Free Trade Agreement) comprensivo sarà ultimato entro il 2016", riporta il China Daily. Non solo. Presso la sede della Lega Araba, giovedì Xi ha annunciato che la Cina elargirà 15 miliardi di dollari in prestiti per incrementare l'industrializzazione in Medio Oriente; 10 miliardi per la cooperazione industriale e altri 10 in prestiti preferenziali. A ciò si aggiunge un fondo d'investimento da 20 miliardi di dollari lanciato congiuntamente con il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti. Oltre a strappare assegni, il presidente cinese ha puntigliosamente messo nero su bianco la posizione mantenuta dalla Repubblica popolare nel conflitto israelo-palestinese: "La Cina supporta fermamente il processo di pace in Medio Oriente e sostiene l'istituzione di uno Stato palestinese con piena sovranità, come stabilito sulla base dei confini tracciati nel 1967, con Gerusalemme Est come capitale". Nel farlo, ha chiarito Xi, non si propone di riempire "un vuoto". Piuttosto agisce con l'intento di stabilire un network di partnership cooperative per il raggiungimento di "soluzioni win-win".

IRAN (22-23 GENNAIO)

Ormai, si sa, non c'è visita di Stato cinese che non si apra senza una citazione culturale in grado di
stupire l'ospite. Stavolta a precedere la visita di Xi nella terra degli Ayatollah è un articolo scritto di suo pugno per "Iran", la testata ufficiale del governo di Tehran, in cui spicca il nome di Saadi Shirazi, poeta persiano autore del Golestan, una collezione di poesie del XIII secolo tutt'oggi conservata nella mosche Niujie di Pechino. Niente di meglio per rimarcare i legami di lungo corso tra i due paesi, anche quando la cultura lascia il posto al vile denaro. Da sei anni la Repubblica popolare si conferma principale acquirente di greggio e prodotti non-petroliferi iraniani. Nel 2014, il commercio bilaterale ha sorpassato i 50 miliardi di dollari, dove le esportazioni verso la Cina ammontano a 27,5 miliardi di dollari contro i 24,3 miliardi di importazioni. L'arrivo di Xi a Teheran, a pochi giorni dall'implementazione del JCPOA, non è casuale. L'accordo sul nucleare iraniano rappresenta un'arma a doppio taglio per Pechino, ora che a corteggiare il produttore di petrolio -finalmente dispensato dalle sanzioni internazionali- arriveranno anche i competitor europei. La visita di Xi "aiuterà la Cina a rimanere il principale partner commerciale" del paese mediorientale, spiega alla Xinhua l'economista iraniano Saeed Leylaz.
Nella giornata di sabato il presidente cinese e il suo omologo iraniano Hassan Rouhani hanno dichiarato di voler espandere le relazioni politiche ed economiche, portando gli scambi a 600 miliardi di dollari nell'arco di dieci anni. 17 gli accordi siglati tra le due parti in ambiti che spaziano dalla cooperazione lungo la Nuova Via della Seta allo sviluppo del nucleare con scopi pacifici. Un'intesa è stata raggiunta anche per quanto riguarda la lotta contro il "terrorismo e l'estremismo in Iraq e Siria".



sabato 16 gennaio 2016

Tsainami: la vittoria del DPP


[AGGIORNAMENTI
- 21 gennaio: secondo quanto rivelato dal canale militare della CCTV, recentemente la Cina ha condotto esercitazioni militari a largo di Xiamen, proprio difronte all'isola di Taiwan.
- 18 gennaio: all'indomani delle votazioni, la stampa cinese ha invitato la nuova presidente a "guidare il DPP lontano dalle allucinazioni dell'indipendenza di Taiwan, e a contribuire ad uno sviluppo comune pacifico" tra l'isola e la mainland. Gli analisti hanno fatto notare che, nonostante gli avvertimenti di rito, la reazione di Pechino fin'ora si è rivelata meno velenosa rispetto al 2000, quando ad assumere la leadership era stato Chen Shui-bian, ultimo presidente appartenente al DPP.
- 17 gennaio: Ad urne chiuse, il Taiwan Work Office e il Taiwan Affairs Office, ovvero l'agenzia incaricata di gestire le relazioni con Taiwan, hanno riferito che "continueremo ad attenerci al consenso del 1992 e a opporci a qualsiasi forma di rivendicazione secessionista finalizzata all'indipendenza di Taiwan".
Intanto il nome di Tsai, precedentemente bloccato su Weibo, è riemerso sui social cinesi dopo che la leader del DPP ha dichiarato di non voler "provocare" Pechino. ]

E' una vittoria a valanga quella che vede Tsai Ing-wen, candidata d'opposizione DPP (Democratic Progressive Party) sconfiggere il Kuomintang (KMT), il partito filocinese nazionalista al governo, con il 56,12 per cento dei voti; il risultato più schiacciante mai ottenuto dall'istituzione delle elezioni dirette venti anni fa. Il candidato del KMT Eric Chu, che ha ottenuto solo il 31,04 per cento dei consensi, ha riconosciuto la sconfitta e ha annunciato le proprie dimissioni dalla direzione del partito. Sono invece 1,57 milioni i voti andati a James Soong, del People First Party (PFP), promotore di una "middle way" tra le posizioni indipendentiste di Tsai e quelle pro-Pechino di Chu.

Le lezioni, che hanno chiamato alle urne circa 18 milioni di persone, rappresentano una svolta epocale per l'isola democratica. Tsai, 59 anni, diventa il primo presidente donna della repubblica di Cina (altro nome con cui è nota Taiwan), nonché la prima leader d'Asia a raggiungere la vetta del potere senza avere natali illustri. Senza essere "la figlia di..." o "la moglie di...". Ma una svolta epocale lo è anche per i rapporti oltre lo stretto. E' con preoccupazione che Pechino vede affondare il suo principale punto di riferimento nell'ex Formosa, dopo anni di quasi ininterrotta leadership nazionalista.

Da quando nel 1949 la fine della guerra civile tra i comunisti di Mao e il KMT di Chiang Kai-shek vide questi ultimi riparare da perdenti sull'isola oltre lo Stretto di Formosa, le due leadership hanno governato sotto regime antitetici (di tipo democratico a Taiwan, monopartitico in Cina) raggiungendo nel 1992 un'intesa non priva di criticità: quell'anno Pechino e Taipei si accordarono sul riconoscimento dell'esistenza di "una sola Cina" continuando tuttavia, ognun per sè, a interpretare la formula a proprio piacimento. Fin'oggi l'escamotage ha funzionato: nonostante Pechino continui a considerare l'isola una provincia ribelle, nel 2008 la nomina di Ma Ying-jeou a presidente ha portato segni di distensione tra le due Cine. Lo dimostra lo storico incontro dello scorso novembre tra Ma e il suo omologo cinese Xi Jinping; primo sintomo di una possibile apertura cinese verso un riconoscimento di Taiwan come Stato sovrano.

Ora questo delicato balletto diplomatico rischia di venire capovolto con il passaggio del testimone al DPP, fazione che da sempre fa dell'"indipendenza formale" la propria bandiera, mentre l'erosione del KMT viene confermata dall'altrettanto cattivo risultato alle legislative, che hanno visto i nazionalisti perdere la maggioranza in parlamento, portandosi a casa soltanto 35 dei 113 seggi. 68 i seggi andati al DPP e 5 quelli ottenuti dal neonato New Power Party, promotore delle libertà civili e vicino al Movimento dei Girasoli (vedi sotto). Questo vuol dire che -per la prima volta nella storia- sia il potere esecutivo sia quello legislativo finiranno in mano ai filo-indipendentisti.

"Speriamo che le relazioni nello stretto possano essere pacifiche, che possano progredire e allo stessoun Paese due sistemi".
tempo speriamo possa essere conservato lo status quo da tutte le parti, inclusa la Cina continentale", aveva rassicurato Tsai alla vigilia della vittoria. Ma non è un mistero che, a differenza del suo predecessore, la leader del DPP sia poco incline a tollerare il compromesso racchiuso nel motto "una sola Cina"; principio incontestabile delle relazioni bilaterali, avvertono da Pechino. Né è un mistero che la linea dura di Tsai abbia trovato terreno fertile nell'elettorato insoddisfatto, dopo un anno e mezzo di tensioni. Specie dopo che le vicende nella vicina Hong Kong hanno proiettato ombre inquietanti sulla possibile assimilazione di Taiwan nel modello "

Lontani sono i tempi in cui l'ex Formosa fungeva da porta d'accesso per gli investimenti esteri nella Cina del dopo Mao. Nonostante la firma di oltre 20 accordi e un fiorente giro d'affari nel settore turistico tra le due sponde dello stretto, i timori per una crescente dipendenza economica dalla mainland hanno tirato acqua al mulino dell'opposizione taiwanese. Dagli anni '80 ad oggi, 70mila industrie locali hanno trasferito la loro linea di produzione sulla terraferma, rendendo l'isola il secondo principale investitore nella Repubblica popolare dopo Hong Kong. E ora che i cervelli espatriati ammontano ormai a circa un milione, molti cominciano a soppesare la partnership con il gigante asiatico. Nel 2014, il governo di Taipei è stato costretto ad accantonare un trattato sui servizi dopo che la manifestazione studentesca nota come Sunflower Movement era sfociata nell'occupazione del parlamento. Mentre lo scorso mese ad acuire le frizioni si era aggiunto un nuovo accordo tra Taipei e Washington (legati da una vecchia alleanza risalente alle dinamiche da Guerra Fredda, nonostante dal '79 gli Stati Uniti riconoscano Pechino come legittimo governo della Cina) per la vendita di armi da 1,83 miliardi di dollari. "Speriamo che l'amministrazione del presidente Ma e quella entrante assicurino una transizione graduale e continuino a lavorare al mantenimento della stabilità nella regione", aveva reso noto la Casa Bianca a pochi giorni dalle elezioni.

Eppure sarebbe errato leggere gli esiti delle urne esclusivamente da una prospettiva sinocentrica. Come fa notare sull'Huffington Post J. Michael Cole di Thinking Taiwan Foundation, non tutto ruota intorno al vicino ingombrante. I voti parlano chiaro: è la politica interna a dominare le preoccupazioni dei cittadini. In particolare i bassi salari e gli alti prezzi delle case. "Francamente non penso che le relazioni attraverso lo stretto domineranno l'agenda [di Tsai]", spiega al Guardian Nathan Batto dell'Academia Sinica di Taipei. "Penso che il suo focus principale saranno le questioni domestiche, quindi programmi di welfare sociale, la revisione delle leggi fiscali, probabilmente, l'avvio di una specie di grande riforma giudiziaria e l'attacco al sistema della sicurezza alimentare". Questioni lasciate aperte dal governo di Ma Ying-jeou e dal KTM, impantanato in una crisi di credibilità difficile da sanare con una campagna elettorale morbosamente incentrata sulla Cina.





mercoledì 13 gennaio 2016

Il test nordcoreano e la risposta cinese



[AGGIORNAMENTI
- 22 GENNAIO: La presidente sudcoreana Park Geun-hye ha proposto la ripresa dei colloqui sul nucleare nordcoreano in un format 6-1. Ovvero escludendo Pyongyang dai "six-party talks".
- 15 GENNAIO: La Cina supporterà il Consiglio di Sicurezza dell'Onu in ogni azione "necessaria" contro la proliferazione nucleare nella penisola coreana. Lo ha affermato Wang Yi, ministro degli Esteri cinese venerdì al termini di colloqui di alto profilo tra Pechino e Seul.
- 14 GENNAIO: La Corea del Sud riprende in considerazione l'adozione del sistema di difesa anti-missile americano THAAD (Terminal High Altitude Area Defense). Il progetto è stato al centro di un accesso dibattito nel corso del 2015.]

Nella questione nordcoreana tutto ruota intorno alla Cina. O almeno questo è quanto credono Washington e Seul a pochi giorni dall'annuncio del quarto esperimento nucleare a nord del 38° parallelo. Il primo -stando alle dichiarazioni di Pyongyang- ad aver coinvolto una bomba all'idrogeno "miniaturizzata", ovvero ovvero in grado di essere installata nell'ogiva di un missile.
Mentre permangono molti dubbi sulla reale natura del test (in molti avanzano la probabilità che si sia trattato di un'atomica come nei precedenti casi), l'evento di per sé costituisce una violazione delle precedenti risoluzioni Onu e apre la strada a nuove sanzioni.

Dal momento che Pechino è l'unico governo a conservare un certo ascendente politico-economico sul Paese, non stupisce venga considerato una sorta di ago della bilancia.

Nella giornata di ieri la presidente sudcoreana Park Geun-hye ha chiesto alla Cina di assumere una posizione più dura nei confronti del "Regno Eremita", dopo la mancata risposta alla richiesta d'aiuto inoltrata dal Ministero della Difesa alla controparte cinese attraverso una hotline di recente istituzione. Altrettanto risoluta la reazione degli Stati Uniti, che legati a Seul da una vecchia alleanza oggi -in tempi di contese territoriali tra Cina e vicini- più che mai si sentono investiti del ruolo di "gendarme" dell'Asia-Pacifico (sono circa 29mila i soldati americano su suolo sudcoreano con l'intento conclamato di difendere l'alleato e quello mai ammesso di contenere l'assertività cinese). In segno d'avvertimento, un bombardiere a stelle e strisce ha sorvolato i cieli sudcoreani verso il 38° parallelo, poco dopo la riattivazione degli altoparlanti con cui la Corea del Sud inonda i cugini a nord di K-Pop e propaganda denigratoria. Quanto alla Cina, "le cose non possono continuare andare andare avanti come al solito"; è quanto il Segretario di Stato americano John Kerry ha intimato al suo omologo cinese Wang Yi durante una conversazione telefonica all'indomani del test nucleare. Letteralmente:  "We cannot continue business as usual". Dove per "business" si può tenere buona l'accezione più comune del termine.

Pechino rappresenta praticamente l'unica fonte di petrolio per la Corea del Nord, un Paese frequentemente colpito da carestie, in barba agli 1,1-3,2 miliardi di dollari stanziati per il proprio programma nucleare (stime del governo sudcoreano). Fino ad oggi le sanzioni imposte dalla comunità internazionale non sono riuscite a smorzare la passione per l'atomo del giovane leader nordcoreano Kim Jong-un. Di natura prevalentemente militare più che economica, le sanzioni imposte dall'Onu -con l'appoggio del Dragone- sono più soft di quelle adottate contro l'Iran "in parte per evitare il rischio di colpire aziende e banche cinesi che intrattengono affari redditizi con la Corea del Nord", scrive la Reuters. Dal momento che Stati Uniti e Repubblica popolare sono commercialmente interconnessi "sarebbe come puntare una pistola economica alla testa della Cina, quindi alla nostra", commenta ai microfoni dell'agenzia britannica Joseph DeThomas, ex diplomatico americano.

Potenzialmente, Pechino ha a disposizione diversi lacci e lacciuoli con cui tenere a freno Pyongyang: potrebbe chiudere i rubinetti energetici, limitare gli acquisti di minerali (la specialità nordcoreana) colpendo il settore minerario. Oppure azzoppare il commercio informale transfrontaliero fino addirittura a valutare un cambio di politica nei confronti dei rifugiati nordcoreani che ogni anno scappano dal regime di Kim, venendo rispediti al mittente dalle autorità cinesi. Nel 2013, il gigante asiatico aveva reagito all'ultimo esperimento nordcoreano riducendo drasticamente le esportazioni petrolifere. E' poi seguito un raffreddamento dei rapporti diplomatici, che vede tutt'oggi Kim a quota zero incontri ufficiali con i leader d'oltre Muraglia, fatta eccezione per la presenza del numero 5 della nomenklatura cinese, Liu Yunshan, al 70esimo anniversario della fondazione del Partito dei Lavoratori, a Pyongyang (sei sono invece i faccia a faccia tra il presidente cinese Xi Jinping e la Park). Che le cose si stessero mettendo male lo si era intuito con l'esecuzione di Jang Song-taek, zio del giovane dittatore nonché fautore di riforme economiche alla cinese. Poi, lo scorso dicembre, la cancellazione improvvisa della tournée oltre Muraglia della band nordcoreana Moranbong ha messo il cappello ad un periodo di incertezze per le relazioni bilaterali. Ma mai si è avuta l'impressione di una rottura irreparabile.

"Se dalla prospettiva cinese le armi nucleari nordcoreane sono una brutta cosa, il collasso del regime potrebbe anche essere peggio", spiega DeThomas. Sfollati da sfamare a parte, la Repubblica popolare si troverebbe anche con una nutrita presenza statunitense appena alle porte (quei 29mila soldati di stanza in Sud Corea).

Fin'oggi, Pechino ha mantenuto un atteggiamento di condanna al pari dei vicini regionali. "La Repubblica Popolare Democratica di Corea ha effettuato un altro test nucleare nonostante il divieto della comunità internazionale. Il governo cinese si oppone fermamente", ha scandito il Ministero degli Esteri cinese, dicendosi completamente all'oscuro delle intenzioni di Pyongyang, "intimiamo alla Corea del Nord di rispettare il suo impegno nel processo di denuclearizzazione della penisola evitando la proliferazione nucleare e mantenendo la pace e la stabilità in Asia".
Molti gli editoriali piccati apparsi sulla stampa di Stato. Il Global Times, considerato il quotidiano-bulldozer della politica estera cinese si è prodotto con un articolo dal titolo eloquente: "Il test nucleare rovina i rapporti con la Cina e acuisce le tensioni". Tensioni che, come spesso dimostrato in situazioni di crisi, il Dragone spera di sgonfiare attraverso l'arma del dialogo.

Nella fattispecie nordcoreana la soluzione auspicata starebbe nella ripresa dei colloqui a sei (tra Corea del Nord, Corea del Sud, Cina, Giappone, Russia e Stati Uniti), interrotti nel 2008 con l'espulsione dal nord degli ispettori internazionali incaricati di verificare l'andamento del processo di denuclearizzazione. Stando a fonti della Reuters, il "Regno Eremita" starebbe cercando la mediazione cinese per ottenere un "vero" accordo di pace con Stati Uniti e Corea del Sud (la semplice firma di un armistizio alla fine della Guerra di Corea rende la penisola formalmente ancora in guerra), precondizione necessaria alla rinuncia di qualsiasi velleità nucleare. Un punto sul quale la diplomazia d'oltre Muraglia ha preferito non rilasciare dichiarazioni, salvo fare presente che "la causa e il nocciolo della questione nordcoreana non è la Cina, né la Cina è la chiave per risolvere il problema".

domenica 10 gennaio 2016

Montagne russe cinesi


[AGGIORNAMENTI
20 febbraio: Dopo mesi di speculazioni, Xiao Gang è stato formalmente rimosso dall'incarico di capo della CSRC. Al suo posto subentra Liu Shiyu, direttore dell'Agricultural Bank of China ed ex vicegovernatore della banca centrale.

18 gennaio: Secondo fonti Reuters, Xiao Gang avrebbe presentato le dimissioni la scorsa settimana, dopo il fallimento del "circuit bracker". Non è chiaro se le dimissioni sono state accettate o meno.]

Sarà un 2016 di montagne russe per i mercati azionari cinesi. Lo suggeriscono i numeri degli ultimi giorni e gli esperti confermano.

Lunedì scorso la Borsa di Shanghai ha perso il 7%, mentre quella di Shenzhen era scesa sotto l'8% mettendo in funzione per la prima volta il "circuit breaker", il sistema di interruzione dei mercati per i casi di eccessivi rialzi o ribassi nel corso della seduta introdotto ad inizio anno sulla scia delle turbolenze che avevano interessato le borse cinesi la scorsa estate. Il 7 gennaio, il sistema aveva decretato la sospensione della seduta dopo soli trenta minuti dall'inizio delle contrattazioni, in cui la Borsa di Shanghai era crollata del 7,32%, scatenando i commenti spigolosi di netizen e analisti.

"Appena mezzora dopo l'apertura, si è conclusa una giornata di contrattazioni. Il mercato cinese ha di nuovo fatto la storia. Il 2015 sarà ricordato per la crisi delle borse, il 2016 per il 'circuit breaker'. Questo è quello che succede quando il governo prova a intervenire sul mercato. Lunga vita al mercato azionario cinese!", scrive Newworld alludendo all'intervento della lunga mano di Pechino. E qualcosa di vero ci deve essere se a fine giornata la China Security Regulatory Commission, la Consob d'oltre Muraglia, ha deciso di sospendere il meccanismo d'interruzione ad appena quattro giorni dalla sua introduzione, riportando immediatamente stabilità nei mercati. Ancora prima che la manovra venisse messa in atto, Michele Geraci, docente di finanza presso la Notthingham University, metteva in guardia dai rischi collegati all'interruttore dei mercati, citando un possibile "effetto panico". Vale a dire un fisiologico picco di vendite nei primi minuti della seduta per anticipare un'eventuale sospensione delle contrattazioni.

"Questo e' uno dei tanti esempi di interventi maldestri dei policy makers che si avventurano nel difficile compito di 'controllare' la finanza. Quasi impossibile. Interventi un po' maldestri perché non si tiene conto dei loro possibili effetti collaterali", scriveva sul Sole 24 Ore l'economista.

Difficile compito lo è davvero dal momento che l'andamento della Borsa di Shanghai segue dinamiche da casinò, subendo l'emotività dei piccoli azionisti inesperti approdati nel mercato borsistico sull'onda del rallentamento del tradizionale bene di rifugio: il mattone. Non a caso, nella mainland, la passione per la finanza ha cominciato a rimpiazzare quella per il tappeto verde come le trasferte a Macao, il paradiso del gioco d'azzardo, sono state rese più difficili dalla campagna anticorruzione lanciata da Pechino nel 2012.

"Gli interventi del governo cinese sui mercati, ormai con frequenza mensile, possono essere accettabili per chi ha un orizzonte temporale di pochi giorni, ma chi ha una visione di 30 giorni o piu' percepisce tali interventi come 'cambi in corsa'," spiega Geraci. "Il tutto alimenta, quindi, non soltanto una elevata volatilita', ma anche una tendenza ad investire e disinvestire nel breve periodo, proprio per evitare di essere presi nella rete. Aumentando la frequenza di acquisti e vendite, la volatilità aumenta ancora di più." E' quello che potremmo chiamare "comportamento da gregge".

E poi c'è quello che l'economista Fabrizio Patti definisce su Linkiesta "comportamento erratico delle autorità politiche"; ovvero un'oscillazione tra un'economia statalista e meccanismi di mercato. E' dalle riforme anni '80 che Pechino lavora per allentare prudentemente la propria presa sull'economia nazionale e incentivare la partecipazione dei privati - sebbene le State-owned Enterprises continuino a costituire lo zoccolo duro del "capitalismo di Stato". Oggi, nel "socialismo con caratteristiche cinesi", la vecchia pratica delle pianificazioni quinquennali si accinge a lasciare maggior spazio al mercato nell'allocazione delle risorse. Ma siamo ancora nel pieno della sperimentazione, con tutti i rischi del caso.

"L’elemento nuovo in questa crisi [delle borse] è proprio il persistere dei dubbi sulla capacità tecnica e di visione delle autorità cinesi nel far fronte a questo tipo di situazioni con strumenti moderni," chiarisce Patti. "Si sarebbe potuto auspicare che avessero imparato la lezione, ma il fatto che abbiano introdotto un blocco automatico delle transazioni (il cosiddetto circuit breaker) e l'abbiano subito levato, può rafforzare questi dubbi." Spetterà a Xiao Gang, il presidente della CRSC, rassicurare gli azionisti in erba sull'altalenante stato di salute della finanza cinese. O in caso di fallimento finire in pasto all'opinione pubblica. Una soluzione a cui spesso Pechino ricorre per sgonfiare il malcontento popolare. Per il momento sulla lista dei sacrificati compaiono pesci medio-piccoli (funzionari, securities executive, giornalisti, gestori di fondi), ma in futuro potrebbe non bastare.

Di opinione differente Alberto Forchielli, tra i fondatori di Mandarin Capital Partner. "Questa volta, lo scenario è diverso rispetto a quello della scorsa estate," commenta su Facebook l'economista riferendosi al tonfo del -14 % registrato dalla Borsa di Shanghai a luglio. Una correzione quasi fisiologica, s'era detto, dopo un anno di boom alimentato dallo spostamento (indotto dall'alto) dei piccoli investitori dalla bolla immobiliare ai listini. "Questa volta, mi sembra che il declino del mercato sia guidato da piccole istituzioni. Le grandi avevano concordato, per un periodo di 6 mesi, una restrizione nella vendita di titoli. Questa restrizione sta per scadere e le istituzioni di più piccole dimensioni stanno cercando di uscire dal mercato prima che i giganti forzino la loro uscita."

Ma questa non è la sola ragione. Vi è anche chiara evidenza di un crescente rallentamento che spaventa gli investitori intelligenti: l'indice del manifatturiero fermo in fase di contrazione, una crescita del Pil sottotono per gli standard cinesi, e i prezzi al consumo troppo flebili per attestare l'agognato slittamento da un'economia trainata dal binomio investimenti-export a un modello basato sui consumi interni. Quel "new normal" sponsorizzato dalla leadership cinese come rimedio alla crescita ipertrofica degli ultimi trent'anni, che ancora poco convince.

Nel mese di dicembre le riserve cinesi in valuta estera sono scese di 107,9 miliardi di dollari raggiungendo quota 3,33 trilioni, il valore più basso da oltre tre anni. Il dato, secondo gli esperti, risulta - punto primo- dalla decisione della banca centrale cinese di intervenire sul mercato azionario con iniezioni di liquidità (liquidità attinta prevalentemente dalla montagna di scorte forex accumulate negli ultimi 10 anni attraverso le esportazioni e gli investimenti esteri in entrata). Punto secondo: dalla necessità di sostenere la valuta cinese (lo yuan/renminbi), controllandone la svalutazione.

Giovedì la People's Bank of China ha fissato la parità del cambio con il dollaro a 6.5646, il livello più basso dal marzo 2011. Una mossa che i più critici ascrivono all'esigenza cinese di dare nuovo slancio al proprio export per risollevare la crescita, ma che le autorità centrali inseriscono in quel processo di transizione verso meccanismi di mercato. Nell'ultimo anno lo yuan si era apprezzato del 15% e se è vero che dalla scorsa estate la divisa cinese ha perso quota rispetto al biglietto verde, è altrettanto vero, tuttavia, che ha continuato a registrare un andamento lineare nei confronti di quello che sembra essere ormai il vero punto di riferimento per le autorità cinesi: un nuovo indice basato su un paniere di 13 valute lanciato alla fine dello scorso anno. D'altra parte, il recente inserimento dello yuan tra i diritti speciali di prelievo del Fondo Monetario Internazionale è un segno del riconoscimento a livello globale della Cina come Paese "solido" dal punto di vista economico e politico, ci dice un analista finanziario di base a Miami.

Spiegazioni che per il momento non riescono ad arrestare la corsa di risparmiatori e società cinesi alla conversione dei reminbi in biglietti verdi, altra motivazione dietro l'ultima netta erosione delle riserve forex nei forzieri di Pechino. Tanto che, secondo quanto riporta la Reuters, la State Administration of Forex Exchange (SAFE), l'agenzia cinese che supervisiona il mercato dei cambi, avrebbe già ordinato ad alcuni istituti di credito di limitare l'acquisto di dollari per tamponare l'emorragia di capitali in uscita. Per le autorità, comunque, è tutto normale. Anzi "nuovo normale": "La Cina detiene ancora le più ampie riserve estere al mondo, nonostante il calo record su base mensile dovuto in parte all'aumento dei tassi di interesse attuato dalla Federal Reserve americana lo scorso mese e da possibili rialzi in futuro", commentano i media di Stato.

(Pubblicato su Gli Italiani)


giovedì 7 gennaio 2016

China’s Dilemma over Land and Sea Routes


Last November, China’s railway authority, the state-owned China Railway Corporation (CRC), proposed a high-speed rail line for both passengers and cargo connecting Xinjiang, the country’s northwest region, to West Asia via Central Asia, for the first  time getting rid of  the incompatibility between the region’s wide-gauge track systems and China’s standard-gauge system, helping the  Eurasian Land Bridge make a great leap forward.

Such projects – which allegedly skip the other regional Big Brother Russia – are part of China’s One Belt, One Road (OBOR) initiative, namely the Silk Road Economic Belt and the 21st Century Maritime Silk Road, which aim to export domestic industrial overcapacity and boost connectivity between China and Central, Southwest and Southeast Asia and Europe. To support this infrastructure network, Beijing has launched the well-known US$40 billion Silk Road Fund and the US$100 billion Asia Infrastructure Investment Bank (AIIB), hailed with favor in the neighboring countries encompassed by the project.

Over-emphasis on rail development?

But China’s emphasis on connectivity as a key goal of the New Silk Road runs the risk of over-emphasising railway development as an end goal, since only a few high-value goods are cost-effective to transport by rail, warns a paper by the Royal United Services Institute for Defence and Security Studies.

In fact, Beijing is struggling to channel its exports through a more diversified network.

“China does not necessarily have to choose between a maritime and continental strategy. Indeed, all signs point to China pursuing a foreign policy that looks to achieve both maritime and continental interests,” Francis P. Sempa, author of Geopolitics: From the Cold War to the 21st Century, wrote early this year.

In his 1919 masterpiece, Democratic Ideals and Reality, the British geographer Halford Mackinder describes the “Heartland” (namely the northern-central core of the Eurasian landmass) as a base, inaccessible to sea powers, from which to extend geopolitical control in all directions. Mackinder warned that a land empire that controlled the Heartland could use its vast natural resources and central geographical position to dominate Eurasia.

Yet, so far it seems that what brings China into the “Heart of Asia” is merely the will to achieve independence from piracy-threatened maritime routes patrolled by Washington. And improving roadways and railways across Central Asia is just one option to realize this goal. To aid the effort to do so, Beijing, Astana, Baku, Tbilisi and Ankara have set up a consortium for cargo transport from China to Europe in the framework of the transnational project Silk Wind. According to Vestnik Kavkaza, the agreement assumes that Chinese goods would be delivered to the Kazakh port of Aktau by rail and then by ferry to Baku, then by rail to the Georgian ports, and by ferry to the Turkish and Ukrainian ports. If everything goes as planned, the Silk Wind would be the shortest route for the delivery of the international cargo from the western borders of China to the EU, with an estimated transit time of 12 days.

More Viable Arctic Maritime Passage

Thanks to global warming, Chinese shipping experts are considering routine navigation through Arctic waters as a shortcut to bypass the route (controlled by the US) that passes through the Malacca Strait and the Suez Canal. It would become the next “golden waterway” for trade between China and Europe, since the journey via the Bering Strait could shave as much as 15 days off the traditional route through the Suez Canal and Mediterranean Sea, said China Daily.

On Oct. 27, the Chinese cargo-shipping giant Cosco disclosed that it would start regularly scheduled vessel service through the Northern Sea Route at an future date, becoming the first shipping company considering the possibility of regularly scheduled container ship traffic. Cosco reportedly completed a 55-day trip between China and Europe (from Dalian to Rotterdam) through the Northern Sea Route last fall and did a similar trip in 2013. As Canadian Broadcasting Corporation explains, Russia’s Arctic route is attractive to shipping companies because the former Soviet Union built marine facilities such as ports during the Cold War and the country continues to invest in developing the shipping route.

In recent years China has done more or less the same, improving infrastructure and facilities at ports in Jilin Northeastern province with the purpose to open new export routes for its trade-starved economy.

But Northern Passage Years Away

However, analysts caution that it will be years before the Northern Passage, which is only passable for a few months, is commercially viable let alone a rival to the Suez Canal, which handled more than 17,000 ships in 2012. It means that, in spite of Beijing’s efforts to diversify its trade channels, it will probably continue to rely mainly on the maritime route passing along Southeast Asia’s coasts. Data don’t lie. As of November 2007, about 1 percent of the US$600 billion in goods shipped from Asia to Europe each year were delivered by inland transport routes.

Currently the land route has one one-hundredth of the capacity of goods from China to the EU than the sea route, said Vestnik Kavkaza. Even Russia receives most Chinese cargo by sea via Finland. At the same time, China’s major logistics investment is directed at the Myanmar corridor –almost 100 times more than it is ready to invest in the Silk Road Economic Belt.

Thus, for all the myriad ways China is attempting to get to the west, for the foreseeable future the world’s sea lanes through the Malacca Strait and across the South China Sea, will remain the most viable method to move global cargo.

(Pubblicato su Asia Sentinel)

mercoledì 6 gennaio 2016

L'esercito cinese cambia pelle


(AGGIORNAMENTI
11 gennaio: la Cina ha riorganizzato i suoi quatto comandi (staff, affari politici, logistica e armamenti) in 15 nuove agenzie direttamente controllate dalla CMC. La nuova struttura comprende tre commissioni (ispezione disciplinare, legge e politica e scienza e tecnologia), un ufficio generale e altri cinque: amministrazione; auditing; cooperazione internazionale, riforma e struttura organizzativa; pianificazione strategica. Sono stati istituiti anche sei nuovi dipartimenti: personale congiunto, lavoro politico, supporto logistico, sviluppo delle apparecchiature, formazione e difesa nazionale.)


La Cina ha dotato il proprio esercito (PLA) di tre nuove unità, compiendo un primo balzo in avanti nel processo di trasformazione delle proprie forze armate annunciato lo scorso settembre. Per il PLA si tratta dell'operazione di restyling più complessa dagli anni '50 ad oggi. Il Comando Generale per l'Esercito Popolare di Liberazione (PLA), il Corpo Missilistico (PLA Rocket Force) e il Corpo per il Supporto Strategico (PLA Strategic Support Force) hanno visto ufficialmente la luce il 31 dicembre, quando il Presidente cinese Xi Jinping ha consegnato ai rispettivi leader le bandiere militari in una cerimonia scandita dall'inno nazionale. Secondo quanto riportato dalla televisione di Stato, il PLA Rocket Force andrà a sostituire il Secondo Corpo d'Artiglieria nel controllo dell'arsenale nucleare e dei missili convenzionali "con scopo difensivo", mentre il PLA Strategic Support Force, probabilmente, si occuperà delle minacce cibernetiche.

La rinascita nazionale passa per l'esercito

Xi ha affermato che le tre unità rientrano in un processo di modernizzazione finalizzato al "raggiungimento del sogno cinese di un esercito forte", con chiari rimandi ad un altro concetto introdotto appena assunto l'incarico di Segretario generale del Partito comunista (Pcc): quello di una "grande rinascita della nazione cinese" dopo gli anni dell'oblio iniziati con l'invasione da parte delle potenze occidentali sotto la dinastia Qing. Se ad oggi il PLA continua ad essere l'esercito più numeroso al mondo, allo stesso tempo permangono moti dubbi sulla sua capacità difensiva a causa della lunga assenza dai campi di battaglia. L'ultima volta che la Cina ha combattuto in guerra risale al 1979, anno in cui Pechino tentò di dare una lezione al Vietnam incassando una pesante sconfitta e trovandosi costretto a far cadere qualsiasi rivendicazioni sul territorio vietnamita. Un ricordo che pesa sugli attuali contenziosi territoriali che vedono il Dragone reclamare alcuni tratti lungo il confine sino-indiano e ampie porzioni del Mar Cinese Meridionale e Orientale, contese con i vicini rivieraschi. Non a caso la riforma punta a sostituire il vecchio sistema incentrato sulle truppe di terra con un comando congiunto in cui l'esercito, la marina e l'aviazione siano ugualmente rappresentati. Una manovra che arriva contestualmente a massicci investimenti nello sviluppo di sottomarini, mentre appena alcuni giorni fa il Ministero della Difesa ha confermato l'inizio della costruzione della seconda portaerei cinese, la prima completamente "Made in China" sebbene ispirata alla Liaoning, la portaerei di seconda mano acquistata dall'Ucraina nel 1998 e sottoposto a ristrutturazione.

Cinque nuove "zone strategiche"

La notizia ha raggiunto le pagine del South China Morning Post lo scorso settembre senza tuttavia ricevere conferma: è atteso nei prossimi giorni l'annuncio dell'accorpamento dei sette comandi regionali in cinque unità. La principale novità starebbe nell'istituzione di una gigantesca zona occidentale, pari a oltre metà del Paese e al 22 per cento della popolazione cinese. L'area, che dovrebbe riunire più di un terzo delle forze di terra, comprende Tibet e Xinjiang, due regioni instabili non soltanto per via degli storici attriti tra le minoranze e l'etnia maggioritaria Han, ma anche a causa della loro prossimità ad Afghanistan, Pakistan e Asia Centrale, possibili basi d'addestramento per gli aspiranti terroristi residenti oltre Muraglia. Sono poi previste una zona centrale a protezione della capitale, una zona settentrionale competente per Mongolia, Russia e Corea del Nord, mentre le zone a est e a sud -che non a caso ospitano basi navali strategiche- saranno responsabili della sicurezza a Hong Kong e nel Mar Cinese Meridionale/Orientale.

Un esercito più "snello"

Stando a quanto riportato dai media statali, la riforma è finalizzata a "ottenere progressi e risultati concreti entro il 2020 nell'amministrazione militare e nel comando operativo congiunto, ottimizzando la struttura militare, potenziando i sistemi politici e l'integrazione della sfera civile-militare e dando vita a un esercito moderno con caratteristiche cinesi in grado di vincere una guerra nell'era dell'informazione." Mentre nel 2015 si è assistito ad un'implementazione del management della leadership e alla riforma del comando operativo congiunto -spiega l'agenzia Xinhua-, il 2016 sarà perlopiù dedicato allo snellimento e al miglioramento del personale, nonché alla riforma delle accademie militari e delle forze di polizia. Si parla di tagliare le truppe di 300mila unità da 2,3 milioni a 2 milioni entro il 2017 (di cui il 70 per cento appartenenti alle unità di terra), come preannunciato da Xi Jinping in occasione della parata militare svoltasi lo scorso settembre a Pechino per commemorare il 70esimo anniversario della resa giapponese. L'evento aveva fornito anche l'occasione per uno sfoggio di muscoli attraverso la presentazione dei più sofisticati sistemi d'arma della tecnologia bellica cinese. Il disimpiego di armamenti obsoleti e lo sviluppo di nuovi sistemi d'arma risultano, infatti, tra gli obiettivi primari della riforma.

Secondo Antony Wong Dong, analista militare con sede a Macao, il PLA sta seguendo le orme degli eserciti americano e russo per rimpiazzare le tradizionali strutture divisionali con un sistema di corpi organizzati più agile ed efficiente, in cui ogni gruppo di combattimento risulta formato da circa 4.500 unità anziché 15.000. "Se il PLA vuole attenersi agli standard internazionali, è necessario che tutti i gruppi militari esistenti siano ulteriormente riorganizzati in divisioni", ha spiegato Wong al South China Morning Post, precisando che è dal 1998 che Pechino si muove in questa direzione.
Allo stesso tempo, norme più severe richiedono ai soldati di conservare una forma fisica "a prova di guerra", negando la promozione a quanti sovrappeso. Non è infatti insolito che, in tempi di pace, le truppe eccedano nei piaceri della buona tavola e altre pratiche disdicevoli, che dal 2012 allo scorso agosto hanno condotto all'incarcerazione di 39 generali con l'accusa di corruzione. Tra questi spiccano i nomi di Guo Boxiong e Xu Caihou, due sodali del presidente in pensione Jiang Zemin, eminenza grigia della politica cinese. Molti arresti eccellenti girano intorno al General Logistic Department, l'agenzia incaricata di amministrare le risorse del PLA in cui si annidano pericolose sacche di potere. Dal momento che, come insegna l'Unione Sovietica di Nikita Khrushchev, perdere il controllo dell'esercito può costare un colpo di Stato, pare che il dipartimento sarà tra i primi a cadere nella sforbiciata volta a snellire la burocrazia interna.

Una "corretta direzione politica" contro corrotti e detrattori

Alla luce di quanto sopra, non stupisce, quindi, che tra le direttive cardine della riforma compaia il mantenimento di una "corretta direzione politica", di cui è presupposto "l'assoluta leadership del Partito sulle forze armate". E non potrebbe essere altrimenti dal momento che il PLA è l'esercito del Pcc non dello Stato. Una distinzione resa quantomai nebulosa dalla sovrapposizione delle tre sfere di potere: Xi Jinping, oltre a ricoprire il ruolo di Presidente della Repubblica popolare e capo del Pcc, siede anche alla direzione della Commissione Militare Centrale (CMC), l’organismo istituzionale preposto alle decisioni nazionali in campo militare; un incarico assunto con netto anticipo rispetto al suo predecessore Hu Jintao. Ma se l'autonomina, nel marzo del 2014, a direttore del gruppo di lavoro per le riforme sembrerebbe confermare il pieno controllo di Xi sulle truppe, tuttavia, le recenti dimissioni del generale Liu Yuan, personaggio chiave nelle lotta contro la corruzione personalmente vicino al presidente, suggeriscono cautela. "Xi si trova ad affrontare nell'esercito più opposizioni di quanto non credano la maggior parte degli analisti", commenta Peter Mattis, autore di "Analyzing the Chinese Military: A Review Essay and Resource Guide on the People’s Liberation Army", avanzando l'ipotesi che il ritiro di Liu non sia stato del tutto volontario. D'altronde, non è un mistero che la ristrutturazione delle milizie goda di scarso favore nell'ambiente. Ancora prima dell'ufficializzazione del piano di riforma, il PLA Daily aveva messo in guardia dalle possibili ricadute che il ventilato licenziamento di 300mila soldati potrebbe avere sulla stabilità sociale. Una preoccupazione a cui Pechino ha risposto ordinando alle aziende statali di assicurare un 5 per cento annuo delle proprie assunzioni ai veterani dell'esercito.






Hukou e controllo sociale

Quando nel 2012 mi trasferii a Pechino per lavoro, il più apprezzabile tra i tanti privilegi di expat non era quello di avere l’ufficio ad...