domenica 10 gennaio 2016
Montagne russe cinesi
[AGGIORNAMENTI
20 febbraio: Dopo mesi di speculazioni, Xiao Gang è stato formalmente rimosso dall'incarico di capo della CSRC. Al suo posto subentra Liu Shiyu, direttore dell'Agricultural Bank of China ed ex vicegovernatore della banca centrale.
18 gennaio: Secondo fonti Reuters, Xiao Gang avrebbe presentato le dimissioni la scorsa settimana, dopo il fallimento del "circuit bracker". Non è chiaro se le dimissioni sono state accettate o meno.]
Sarà un 2016 di montagne russe per i mercati azionari cinesi. Lo suggeriscono i numeri degli ultimi giorni e gli esperti confermano.
Lunedì scorso la Borsa di Shanghai ha perso il 7%, mentre quella di Shenzhen era scesa sotto l'8% mettendo in funzione per la prima volta il "circuit breaker", il sistema di interruzione dei mercati per i casi di eccessivi rialzi o ribassi nel corso della seduta introdotto ad inizio anno sulla scia delle turbolenze che avevano interessato le borse cinesi la scorsa estate. Il 7 gennaio, il sistema aveva decretato la sospensione della seduta dopo soli trenta minuti dall'inizio delle contrattazioni, in cui la Borsa di Shanghai era crollata del 7,32%, scatenando i commenti spigolosi di netizen e analisti.
"Appena mezzora dopo l'apertura, si è conclusa una giornata di contrattazioni. Il mercato cinese ha di nuovo fatto la storia. Il 2015 sarà ricordato per la crisi delle borse, il 2016 per il 'circuit breaker'. Questo è quello che succede quando il governo prova a intervenire sul mercato. Lunga vita al mercato azionario cinese!", scrive Newworld alludendo all'intervento della lunga mano di Pechino. E qualcosa di vero ci deve essere se a fine giornata la China Security Regulatory Commission, la Consob d'oltre Muraglia, ha deciso di sospendere il meccanismo d'interruzione ad appena quattro giorni dalla sua introduzione, riportando immediatamente stabilità nei mercati. Ancora prima che la manovra venisse messa in atto, Michele Geraci, docente di finanza presso la Notthingham University, metteva in guardia dai rischi collegati all'interruttore dei mercati, citando un possibile "effetto panico". Vale a dire un fisiologico picco di vendite nei primi minuti della seduta per anticipare un'eventuale sospensione delle contrattazioni.
"Questo e' uno dei tanti esempi di interventi maldestri dei policy makers che si avventurano nel difficile compito di 'controllare' la finanza. Quasi impossibile. Interventi un po' maldestri perché non si tiene conto dei loro possibili effetti collaterali", scriveva sul Sole 24 Ore l'economista.
Difficile compito lo è davvero dal momento che l'andamento della Borsa di Shanghai segue dinamiche da casinò, subendo l'emotività dei piccoli azionisti inesperti approdati nel mercato borsistico sull'onda del rallentamento del tradizionale bene di rifugio: il mattone. Non a caso, nella mainland, la passione per la finanza ha cominciato a rimpiazzare quella per il tappeto verde come le trasferte a Macao, il paradiso del gioco d'azzardo, sono state rese più difficili dalla campagna anticorruzione lanciata da Pechino nel 2012.
"Gli interventi del governo cinese sui mercati, ormai con frequenza mensile, possono essere accettabili per chi ha un orizzonte temporale di pochi giorni, ma chi ha una visione di 30 giorni o piu' percepisce tali interventi come 'cambi in corsa'," spiega Geraci. "Il tutto alimenta, quindi, non soltanto una elevata volatilita', ma anche una tendenza ad investire e disinvestire nel breve periodo, proprio per evitare di essere presi nella rete. Aumentando la frequenza di acquisti e vendite, la volatilità aumenta ancora di più." E' quello che potremmo chiamare "comportamento da gregge".
E poi c'è quello che l'economista Fabrizio Patti definisce su Linkiesta "comportamento erratico delle autorità politiche"; ovvero un'oscillazione tra un'economia statalista e meccanismi di mercato. E' dalle riforme anni '80 che Pechino lavora per allentare prudentemente la propria presa sull'economia nazionale e incentivare la partecipazione dei privati - sebbene le State-owned Enterprises continuino a costituire lo zoccolo duro del "capitalismo di Stato". Oggi, nel "socialismo con caratteristiche cinesi", la vecchia pratica delle pianificazioni quinquennali si accinge a lasciare maggior spazio al mercato nell'allocazione delle risorse. Ma siamo ancora nel pieno della sperimentazione, con tutti i rischi del caso.
"L’elemento nuovo in questa crisi [delle borse] è proprio il persistere dei dubbi sulla capacità tecnica e di visione delle autorità cinesi nel far fronte a questo tipo di situazioni con strumenti moderni," chiarisce Patti. "Si sarebbe potuto auspicare che avessero imparato la lezione, ma il fatto che abbiano introdotto un blocco automatico delle transazioni (il cosiddetto circuit breaker) e l'abbiano subito levato, può rafforzare questi dubbi." Spetterà a Xiao Gang, il presidente della CRSC, rassicurare gli azionisti in erba sull'altalenante stato di salute della finanza cinese. O in caso di fallimento finire in pasto all'opinione pubblica. Una soluzione a cui spesso Pechino ricorre per sgonfiare il malcontento popolare. Per il momento sulla lista dei sacrificati compaiono pesci medio-piccoli (funzionari, securities executive, giornalisti, gestori di fondi), ma in futuro potrebbe non bastare.
Di opinione differente Alberto Forchielli, tra i fondatori di Mandarin Capital Partner. "Questa volta, lo scenario è diverso rispetto a quello della scorsa estate," commenta su Facebook l'economista riferendosi al tonfo del -14 % registrato dalla Borsa di Shanghai a luglio. Una correzione quasi fisiologica, s'era detto, dopo un anno di boom alimentato dallo spostamento (indotto dall'alto) dei piccoli investitori dalla bolla immobiliare ai listini. "Questa volta, mi sembra che il declino del mercato sia guidato da piccole istituzioni. Le grandi avevano concordato, per un periodo di 6 mesi, una restrizione nella vendita di titoli. Questa restrizione sta per scadere e le istituzioni di più piccole dimensioni stanno cercando di uscire dal mercato prima che i giganti forzino la loro uscita."
Ma questa non è la sola ragione. Vi è anche chiara evidenza di un crescente rallentamento che spaventa gli investitori intelligenti: l'indice del manifatturiero fermo in fase di contrazione, una crescita del Pil sottotono per gli standard cinesi, e i prezzi al consumo troppo flebili per attestare l'agognato slittamento da un'economia trainata dal binomio investimenti-export a un modello basato sui consumi interni. Quel "new normal" sponsorizzato dalla leadership cinese come rimedio alla crescita ipertrofica degli ultimi trent'anni, che ancora poco convince.
Nel mese di dicembre le riserve cinesi in valuta estera sono scese di 107,9 miliardi di dollari raggiungendo quota 3,33 trilioni, il valore più basso da oltre tre anni. Il dato, secondo gli esperti, risulta - punto primo- dalla decisione della banca centrale cinese di intervenire sul mercato azionario con iniezioni di liquidità (liquidità attinta prevalentemente dalla montagna di scorte forex accumulate negli ultimi 10 anni attraverso le esportazioni e gli investimenti esteri in entrata). Punto secondo: dalla necessità di sostenere la valuta cinese (lo yuan/renminbi), controllandone la svalutazione.
Giovedì la People's Bank of China ha fissato la parità del cambio con il dollaro a 6.5646, il livello più basso dal marzo 2011. Una mossa che i più critici ascrivono all'esigenza cinese di dare nuovo slancio al proprio export per risollevare la crescita, ma che le autorità centrali inseriscono in quel processo di transizione verso meccanismi di mercato. Nell'ultimo anno lo yuan si era apprezzato del 15% e se è vero che dalla scorsa estate la divisa cinese ha perso quota rispetto al biglietto verde, è altrettanto vero, tuttavia, che ha continuato a registrare un andamento lineare nei confronti di quello che sembra essere ormai il vero punto di riferimento per le autorità cinesi: un nuovo indice basato su un paniere di 13 valute lanciato alla fine dello scorso anno. D'altra parte, il recente inserimento dello yuan tra i diritti speciali di prelievo del Fondo Monetario Internazionale è un segno del riconoscimento a livello globale della Cina come Paese "solido" dal punto di vista economico e politico, ci dice un analista finanziario di base a Miami.
Spiegazioni che per il momento non riescono ad arrestare la corsa di risparmiatori e società cinesi alla conversione dei reminbi in biglietti verdi, altra motivazione dietro l'ultima netta erosione delle riserve forex nei forzieri di Pechino. Tanto che, secondo quanto riporta la Reuters, la State Administration of Forex Exchange (SAFE), l'agenzia cinese che supervisiona il mercato dei cambi, avrebbe già ordinato ad alcuni istituti di credito di limitare l'acquisto di dollari per tamponare l'emorragia di capitali in uscita. Per le autorità, comunque, è tutto normale. Anzi "nuovo normale": "La Cina detiene ancora le più ampie riserve estere al mondo, nonostante il calo record su base mensile dovuto in parte all'aumento dei tassi di interesse attuato dalla Federal Reserve americana lo scorso mese e da possibili rialzi in futuro", commentano i media di Stato.
(Pubblicato su Gli Italiani)
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