lunedì 23 novembre 2015
Pechino e il dilemma del non interventismo
Intervenire o non intervenire? Questo è il dubbio amletico che tormenta Pechino mentre si allunga la lista dei cittadini cinesi vittima del jihad. Lo scorso giovedì lo Stato Islamico (IS) ha reso nota l'esecuzione Fan Jinghui, il cinquantenne di Pechino ostaggio del Califfato "messo in vendita" lo scorso settembre assieme al norvegese Ole Johan Grimsgaard-Ofstad. Nemmeno 24 ore dopo tre dirigenti cinesi della statale China Railway Construction Corp. hanno perso la vita nell'attacco al Radisson Hotel di Bamako sulla cui paternità permangono diversi dubbi, fatta eccezione per l'assodata matrice islamica.
"La Cina si opporrà risolutamente a qualsiasi forma di terrorismo e risolutamente risponderà ad ogni attività criminale e violenta che sfida l'essenza della cultura umana", ha tuonato il Ministero degli Affari Esteri cinese alla notizia della morte di Fan. Mentre la recente escalation di violenza si è fatta strada in sedi inusuali quali i vertici economici di G20, Apec ed East Asia Summit, il gigante asiatico non ha mancato di rimarcare il proprio cordoglio per le perdite altrui all'indomani del massacro di Parigi, sottolineando tuttavia come il terrorismo sia un problema comune. Un problema che non tollera "doppi standard": "anche la Cina è una vittima". L'allusione -che trascende le uccisioni oltremare di cui sopra- batte sul nervo scoperto del Dragone.
Da alcuni anni lo Xinjiang, regione autonoma musulmana dell'estremo occidente cinese, fa da sfondo ad una "guerra a bassa intensità" in cui è difficile distinguere le semplici frizioni etniche dalle infiltrazioni jihadiste. Dagli anni '90 a oggi, attacchi con coltelli ed esplosivi sono stati registrati non soltanto nello Xinjiang ma anche in altre aree del Paese. Stando alle autorità della regione autonoma, nell'ultimo anno sono stati sgominati almeno "181 gruppi terroristici" (pari al 96,2% delle gang locali), ma la reticenza nel fornire informazioni su quanto avviene nel Far West cinese trattiene gli osservatori internazionali dal riconoscere formalmente una minaccia islamica in Cina. Così se Pechino punta il dito contro l'East Turkestan Islamic Movement (sigla oggi di dubbia esistenza ma un tempo prossima ad al-Qaida), le organizzazione per la difesa dei diritti umani tendono a leggere nelle violenze una risposta al presunto genocidio culturale perpetrato dalle autorità centrali ai danni delle minoranze etniche locali, per usi e costumi più vicine al quadrante centroasiatico di quanto non lo siano al resto della Cina. Lo stesso leader dell'IS, Abu Bakr Al-Baghdadi, all'inizio dell'anno aveva condannato le politiche repressive del governo cinese invitando i musulmani dello Xinjiang ad abbracciare la causa jihadista. Il rischio di un contagio da oltre Muraglia (Pakistan e Afghanistan sono alle porte) agita i sonni dell'establishment cinese: secondo Wu Sike, ex inviato speciale in Medio Oriente, sono circa 100 i cinesi assoldati dalle milizie dell'IS, un bilancio diffuso da fonti estere e non verificate indipendentemente dalle autorità di Pechino.
La crescente volatilità dei territori occidentali arriva in un momento in cui la Cina sta cercando di promuovere una cintura economica afro-eurasiatica direttamente ispirata all'antica via della seta. Il progetto (di natura prevalentemente commerciale ma che non disdegna, per ovvie ragioni, la cooperazione sul versante sicurezza) vedrà una massiccia presenza di investimenti e forza lavoro cinesi all'estero, di cui buona parte dislocati in regioni turbolente tra Asia, Africa ed Europa. Le stime attuali parlano di 5 milioni di cinesi oltre Muraglia, tra i quali circa 2 milioni concentrati nel Continente Nero. Tutelare la sicurezza dei propri capitali e cittadini oltreconfine è diventata una priorità per il gigante asiatico. Nel marzo 2015, navi da guerra cinesi hanno evacuato 629 cinesi e altri 279 stranieri dallo Yemen. Nel solo 2011, la Cina ha salvato più cinesi all'estero (oltre 47.000, di cui circa 35.000 in Libia) che nei decenni a partire dalla fondazione della Repubblica popolare (1949).
Stando a fonti del People's Daily, le operazioni di salvataggio di Fan Jinghui erano a buon punto prima che la controffensiva franco-russa contro l'IS facesse deragliare i colloqui tra Pechino e i rapitori. Ma, per molti, l'approccio adottato dal governo cinese davanti al pericolo estremismo (oltreconfine) sarebbe ancora troppo soft. "l'IS ci sta oltraggiando con l'uccisione dell'ostaggio cinese. E' tempo che la Cina si alzi in piedi e agisca da grande potenza", commenta demi_miao sulla piattaforma di microblogging Weibo. Parecchi i commenti favorevoli ad un maggior protagonismo cinese nella guerra contro il terrorismo; altrettanti quelli che invitano alla cautela. "Un'azione militare? Dopodiché possiamo anche dire addio alla pace nei cieli e nel centro di Pechino e Shanghai", scrive Tao Ye sul forum Zhihu.com, mentre Hercule_Holmes_Star avverte: "La Francia ha dichiarato guerra all'IS e cosa ha ottenuto? Se la Cina si schierasse apertamente contro l'IS credete che ora stareste qui a chiacchierare a gambe incrociate?"
A frenare la neo-superpotenza non sembra essere tanto il rischio di una ritorsione islamica quanto piuttosto la necessità di attenersi al principio cardine della propria politica estera, in auge fin dai tempi di Mao: quello della non ingerenza negli affari degli altri Paesi. Con la speranze che lo stesso valga di rimbalzo quando si parla di questioni delicate che interessano direttamente la Repubblica popolare: guai a chi critica la condizione dei diritti umani in Cina o mette in dubbio la sovranità di Pechino su Xinjiang, Tibet e Mar Cinese Meridionale/Orientale. E questo spiega anche la diffidenza cinese nei confronti delle varie rivoluzioni colorate e primavere arabe, finanziate dall'esterno e considerate miccia scatenante dell'emergenza migranti in Europa.
Nel dicembre 2014, il Financial Times aveva ventilato l'ipotesi di raid aerei cinesi in Iraq, citando niente meno che Ibrahim Jafari, ministro degli esteri iracheno. La notizia si sarebbe poi rivelata infondata, almeno quanto i più recenti rumors sull'attracco della portaerei Liaoning lungo le coste siriane. Ma questo non vuol dire che il Dragone stia fermo a guardare. Oltre a contribuire all'addestramento della polizia afghana, nel 2013 la Cina ha rimpolpato la missione Onu di peacekeeping in Mali inviando 170 soldati, mossa storica dopo circa due decenni di supporto esclusivamente medico e logistico. E se tutt'oggi, la massiccia presenza economica del Dragone in Africa risulta accompagnata da un modesto contributo in materia di sicurezza, tuttavia, stiamo assistendo a un rafforzamento della posizione cinese all'interno del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e a un maggior coinvolgimento nella gestione di situazioni di crisi. Proprio recentemente Pechino ha schierato un battaglione da combattimento sotto l’egida della missione di pace dell’Onu in Sud Sudan, Paese in cui il gigante asiatico ha ingenti interessi petroliferi. In futuro, però, tutto questo potrebbe non bastare.
(Pubblicato su Gli Italiani)
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