mercoledì 24 dicembre 2014

La Cina e il Risiko europeo


I Balcani come scorciatoia nella 'lunga marcia' del Dragone verso l'Europa. L'idea, non del tutto nuova, ha ricevuto un ulteriore impulso in occasione del Central and Eastern European (CEE) – China Summit, evento ospitato la scorsa settimana dalla capitale serba Belgrado. L'incontro, finalizzato a completare quanto messo sul tavolo durante l'edizione dello scorso anno tenutasi a Bucarest, si basa sulla formula 16+1, ovvero i 16 Paesi dell'Europa centro-orientale più la Cina. Per il Premier cinese Li Keqiang, frequente visitatore del Vecchio Continente, la missione ha fornito l'occasione per ribadire l'impegno cinese a creare un ponte tra Est e Ovest. Un concetto esposto poche ore prima nell'ambito di un meeting della Shanghai Cooperation Organization ad Astana, in Kazakistan, prima tappa del suo viaggio verso Occidente. Cosa c'entra il Kazakistan? C'entra. Pare infatti che, agli occhi del Dragone, il minimo comune denominatore tra Asia Centrale ed Europa centro-orientale sia il potenziale sommerso e l'arretratezza delle infrastrutture.

Secondo stime dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico, nei prossimi due decenni il fabbisogno mondiale di infrastrutture raggiungerà un costo di 50 trilioni di dollari, mentre l'Asian Development Bank calcola che le economie asiatiche emergenti necessiteranno di 8 trilioni di dollari nella decade 2010-2020 per tenere il passo con le loro esigenze infrastrutturali. Un problema che la Cina si sta apprestando ad alleviare con una serie di progetti, prima fra tutti quello per riportare in auge l'antica Via della Seta. Che nella sua versione moderna dovrebbe prendere le forme di una cintura economica attraverso l'Eurasia con il doppio scopo di facilitare il passaggio dell'export cinese e regalare dinamismo ai Paesi sospesi tra regno di Mezzo ed Europa. La parola 'integrazione' è ormai diventata il nuovo mantra dello 'sviluppo pacifico' cinese nel 'vicinato allargato', vale a dire in tutte quelle aree in cui l'ascendente del gigante asiatico si era estinto da secoli e che Pechino vuole riportare entro la propria sfera di influenza. 'Integrazione' da intendersi come connessione logistica del tessuto produttivo (rigorosamente win-win) ma anche come interrelazione 'people-to-people', per utilizzare un'espressione molto in voga tra la stampa cinese.

Nel corso del summit di Belgrado, Cina, Serbia, Ungheria e Macedonia hanno raggiunto un'intesa per l'istituzione di un corridoio economico finalizzato a collegare l'ex Impero Celeste al Mediterraneo. Si tratta di una 'linea veloce terra-mare' che andrà a connettere Budapest (Ungheria), Belgrado (Serbia), Skopje (Macedonia), Atene (Grecia) e il porto del Pireo, il principale scalo marittimo commerciale del Vecchio Continente e porta d'ingresso per il 'Made in China' in Europa. Qui il colosso cinese della logistica marittima COSCO opera dal 2009 con una concessione di 35 anni per lo sviluppo di due moli. Con la gestione cinese il traffico di container nello scalo greco è triplicato nel giro di cinque anni e i tempi di spedizione si sono abbreviati di una settimana. Nel frattempo, le ambizioni marittime del Dragone si sono estese anche ai porti di Tessalonica (Grecia) e Bar (Montenegro), in barba al nostro Gioia Tauro.

L'agenzia di stampa Xinhua descrive la 'linea veloce mare-terra' come «una versione più estesa e aggiornata» della ferroviaria Budapest - Belgrado -che dovrebbe vedere la luce entro il 2017 grazie ai finanziamenti di Pechino e al lavoro di compagnie cinesi- andando ad agganciare il Pireo alla capitale ungherese. L'area interessata dal progetto, che prevede anche una riduzione delle barriere doganali, copre una superficie di 340mila chilometri quadrati e coinvolge 32 milioni di persone. Per facilitare gli investimenti nella regione, Li Keqiang ha annunciato la creazione di un fondo da 3 miliardi di dollari che si va a sommare alla linea di credito speciale da 10 miliardi istituita due anni fa proprio per supportare i progetti Cina-CEE. Dal 2010, Pechino è attivo in Serbia, Bosnia e Montenegro con la costruzione di ponti, autostrade e centrali elettriche. Secondo Zhao Junjie, ricercatore di studi europei presso l'Accademia cinese delle Scienze sociali, il nuovo corridoio costituisce un'alternativa alla rotta settentrionale che connette Cina ed Europa passando attraverso la regione autonoma cinese del Xinjiang, la Russia e la Polonia giungendo infine in Spagna: ovvero la tratta Yiwu- Madrid, entrata in funzione lo scorso novembre. Una linea merci di 13mila chilometri (la più lunga al mondo) che permette di raggiungere il Vecchio Continente in soli due giorni contro i precedenti ventuno. La portata dei progetti a trazione cinese è rivoluzionaria se si considera che il 90% del commercio globale avviene ancora via mare, spesso attraverso canali difficili come lo Stretto di Malacca.

Normalmente si dice che l'espansione cinese all'estero si espliciti in tre forme: progetti infrastrutturali, accordi commerciali e sfruttamento delle risorse. In linea di principio, nei Balcani, Pechino può contare su tutti e tre. Quando nell'aprile 2012 l'allora Primo Ministro cinese Wen Jiabao si recò in missione a Varsavia (prima visita di un Premier cinese in Polonia dal 1987), parlò di hi-tech, energia verde e infrastrutture per rilanciare i rapporti virtuosi tra Cina e Stati CEE. Pressoché inesistente fino a qualche anno fa, dal 2000 il commercio tra la Repubblica popolare e le nazioni dell'Europa centro-orientale è cresciuto annualmente di oltre il 30% arrivando a toccare i 50 miliardi di dollari. Non solo. Come fa notare, su 'The Diplomat', Valbona Zeneli, docente presso il George C. Marshall European Center for Security Studies, la regione è ricca di risorse naturali. Il settore energetico locale, troppo rischioso per i partner occidentali, può servire alla Cina per sfoggiare il proprio expertise nell'energia pulita rafforzato dalla Green Credit Directive, politica introdotta nel 2012 che impone alle banche cinesi di valutare la sostenibilità dei progetti all'estero prima di concedere finanziamenti. Oltre alla Serbia, dove il Dragone ha stretto con l'ente nazionale per l'energia elettrica EPS un accordo da 2 miliardi di euro, anche la Bosnia-Erzegovina ha ricevuto capitali cinese attraverso il finanziamento della centrale termoelettrica Stanari per la cui costruzione China Development Bank ha sborsato 350 milioni di euro. Ed è già nell'aria una cooperazione tra Pechino e Praga per lo sviluppo dell'industria nucleare nella Repubblica Ceca, così come società cinese sono in lizza per la costruzione di una centrale a carbone in Montenegro.

 Secondo Zaneli, tuttavia, non è per assicurarsi una fonte di commodities che il Dragone si sta dando tanto da fare negli 'squattrinati' Balcani. La scarsa produttività della regione farebbe pensare ad una strategia sul lungo periodo a fronte di profitti immediati minimi. Per la Cina si tratta di un mercato appetitoso dalle potenzialità ancora inespresse: l'area offre «una forza lavoro qualificata in cambio di salari relativamente bassi, ha un tasso di crescita abbastanza buono ed è prossima per posizioni politiche e collocazione geografica all'Europa occidentale», dove poter rivendere i prodotti finiti. Qualcuno suggerisce anche che, grazie agli accordi di libero scambio tra gli Stati della regione e l'Unione europea, la Repubblica popolare potrebbe accedere direttamente ad un mercato di 800 milioni di persone aggirando le restrizioni commerciali messe in atto da Bruxelles.

La CEE ospita Paesi molto diversi tra loro per grado di sviluppo, dimensioni, trascorsi storici, tradizioni culturali e religiose, ma accomunati da un passato socialista interrotto, nel 1989, con l'inizio di un processo di trasformazione del sistema economico, politico e sociale in cui Europa occidentale e Stati Uniti hanno rivestito un ruolo cruciale. Il gigante asiatico, al contrario, gode di un'estraneità storica' percepita localmente con favore. Quello che ha fatto la Cina è stato essenzialmente allungare la mano ad una regione complessata a causa della propria marginalità politica che, ancorata la propria ripresa economica all'Occidente, si è ritrovata di riflesso impantanata nella crisi del 2008. Come spiega al 'China Daily' Ljiljana Smajlovic, Presidente dell'Associazione dei Giornalista della Serbia («un Paese traumatizzato»): «siamo contenti di avere con la Cina relazioni senza complicazioni emotive o uno sgradevole bagaglio politico. Concessioni, ferrovie ad alta velocità...sapete che anche soltanto sentir parlare di treni ad alta velocità è un piacere per le nostre orecchie? Ci piacerebbe molto vedere tutto questo diventare realtà».

Eppure l'avvicinamento della Cina ai Paesi CEE (di cui 6 sono candidati all'Ue e 11 ne fanno già parte) viene visto diffusamente come una minaccia per la coesione del blocco dei 28. Qualcuno suggerisce che Pechino stia volontariamente erodendo l'autorità di Bruxelles nella regione, secondo il detto 'divide et impera'. Non convince nemmeno l'atteggiamento ondivago degli Stati CEE, dal collasso dei regimi comunisti protesi verso l'Occidente filo-americano e ora pronti a 'tradire' per assicurarsi i finanziamenti cinesi. C'è da avere paura? No, secondo Richard Turcsányi, visiting fellow presso l'European Institute for Asian Studies. La Cina -come scrive Turcsányi- sembra più propensa a stringere cordiali rapporti con i Paesi già membri dell'Unione europea (non con quelli 'ribelli'), così come l'interesse cinese verso l'Europa centro-orientale è aumentato proprio con l'ingresso nell'Ue di buona parte dei Paesi della regione. Un interesse che, al di là delle implicazioni più strettamente economiche, potrebbe nascondere vantaggi di ordine strategico. Come spiegato in un'intervista da Adrian Severin, politico rumeno nonché membro del Parlamento Europeo, il gigante asiatico starebbe cercando di assicurarsi uno spazio d'importanza geopolitica cruciale tra Russia e Germania, in caso l'incapacità Ue nel contenere le intemperanze di Mosca si traducesse in un'ascesa russa nella regione.

"Una delle teorie più diffuse è quella che la Cina stia cercando di incrementare lo sviluppo dei Paesi CEE per affrancarli da un'eccessiva dipendenza da Mosca", racconta a 'L'Indro' Turcsányi, "dopo la crisi del 2008 l'attivismo dell'Occidente nella regione ha cominciato a scemare così che ora questi Paesi sono in cerca di un sostituto. Le alternative sono proprio la Russia o la Cina".

(Pubblicato su L'Indro)

mercoledì 17 dicembre 2014

Quella sottile linea rossa tra Stato e privato


«Il mercato sarà decisivo nell'allocazione delle risorse». Lo ha promesso la leadership cinese lo scorso anno in occasione del Terzo Plenum del Partito, annunciando «riforme senza precedenti» volte a scardinare i monopoli e ribilanciare la partecipazione tra Stato e privato nello sviluppo nazionale. Nella transazione da un'economia pianificata, più che a smantellare le grandi imprese di Stato (State-Owned Enterprises, SOEs) Pechino punta a renderle più efficienti favorendo l'ingesso di capitali privati attraverso un 'sistema di proprietà misto'. Alle grandi SOEs verrà chiesto di «restituire il trenta per cento» (finora era circa il quindici) dei loro profitti da reinvestire «per migliorare la vita delle persone». Si tratta di un compromesso tra una privatizzazione 'pura' (osteggiata dall'ala più conservatrice del Partito) e il sistema attualmente in vigore che non funziona più.

Stando ad un recente studio, al momento, le società a proprietà mista costituiscono il 40% dell'industria cinese. L'ulteriore arrivo di capitali privati ha il duplice scopo (a livello locale) di coprire i conti in rosso e (a livello nazionale) di aumentare la produttività dei colossi di Stato, che detengono il monopolio in alcuni settori chiave -come finanzia, energia e telecomunicazioni- e sono ricettacolo di sprechi e corruzione. Vendendo partecipazioni all'interno delle SOEs Pechino spera di aiutare le amministrazioni locali (che controllano due terzi delle 155mila compagnie statali cinesi) a pagare un debito che si aggira ormai sui 3 trilioni di dollari, pari al 58% del Pil nazionale. Secondo il People's Daily, il valore complessivo delle compagnie statali centrali e locali è di 16,33 trilioni di dollari, ma mentre, come dicevamo, le SOEs controllate direttamente da Pechino operano prevalentemente in settori 'strategici', quelle locali si estendono in quasi ogni tipo di comparto, seppur con un rendimento degli assets ben inferiori (di circa l'1,2% rispetto al 2,5% per quanto riguarda le società non finanziarie).

Il problema affonda le radici nelle misure adottate dal Governo cinese nel 2008, quando Pechino varò un maxi pacchetto di stimoli da 4 trilioni di yuan (586 miliardi di dollari) per pararsi dalla crisi finanziaria mondiale. Incoraggiate dai prestiti bancari facili, le imprese statali hanno investito massicciamente in attività fisse (sopratutto infrastrutture e real estate) con guadagni al di sotto delle aspettative è un debito corporate che è passato dal 96% al 142% del Pil, nel periodo 2007-2012. Opere che alzano i valori dei bilanci di aziende e governi provinciali, ma che spesso si rivelano cattedrali nel deserto finendo per gonfiare la bolla immobiliare. "Le imprese private si sono tenute fuori da questo tipo di investimenti perché, a differenza delle SOEs che avevano un accesso al credito agevolato, si sarebbero dovute rivolgere al sistema bancario ombra pagando tassi d'interesse tre, quattro, cinque volte superiori a quelli ottenuti dalle compagnie statali," spiega a 'L'Indro' Marshall W. Meyer, Professore emerito di Management presso la University of Pennsylvania e co-autore di "Making Ownership Matter: Prospects for China's Mixed Ownership Economy".

Dalla deflagrazione della crisi finanziaria, il divario di produttività tra gruppi statali e privati è aumentato, con un rendimento medio delle aziende statali di circa il 4,6 % contro il 9,1 % delle imprese private, secondo le stime di Gavekal Dragonomics, società di ricerca economica con base a Pechino. Numeri che preoccupano se si considera che, stando al censimento economico del 2008 (l'ultimo disponibile), le società statali controllano il 30% degli assets del settore non agricolo sebbene contino soltanto per il 3% del totale delle imprese. Migliorandone performance e servizi, Pechino spera di rendere le SOEs più competitive nel processo di 'go global', mentre l'introduzione di un management professionale dovrebbe andare a rimpiazzare la vecchia usanza che vede alti funzionari al timone delle principali società statali, sradicando i vari gruppi di interesse ritenuti d'ostacolo alle riforme.

"Ma il vero problema è il debito", ci dice Michael Pettis, "la gente ovunque pensa che un Paese con un pesante debito basta che introduca delle riforme e ricomincia subito a crescere. La storia ci insegna che questo succede solo in rarissimi casi. In Spagna, dove sono nato, Mariano Rajoy ha attuato una serie di riforme incredibili, ma la crescita continua a rallentare pericolosamente e in ultima analisi, credo, il Paese si troverà stretto in una crisi del debito. Due anni fa, Shinzo Abe (il Premier giapponese, ndr) ha promesso che con la strategia di riforme nota come 'Abenomics' il Giappone sarebbe tornato a crescere, invece ha continuato a frenare. Nel 1988 Domingo Cavallo ha implementato riforme profonde e dolorose in Argentina, ma la crisi è continuata fino a quando l'Argentina non ha ridotto il suo debito. Solo allora ha cominciato a godere degli effetti delle riforme. Gli economisti sono sempre molto sorpresi davanti al fallimento dei Paesi indebitati, ma la verità è che sono tutti fallimenti più che prevedibili. Questo è esattamente il rischio che corre la Cina, dove il livello del debito è altissimo eppure l'establishment sembra più preoccupato a introdurre le riforme piuttosto che a risolvere il problema dei conti in rosso".

Se per Meyer sarà proprio l'arrivo di capitali privati ad alleviare il debito cinese, sorge tuttavia spontanea una domanda: perché mai gli investitori dovrebbero comprare quote in società improduttive, indebitate e sulle quali non è ancora ben chiaro in che misura riuscirebbero ad esercitare la propria influenza? La partecipazione mista è il prodotto di un lungo e non indolore processo di evoluzione dal modello anni '70-'80, «quando ogni cosa di una certa rilevanza era di proprietà dello Stato». Negli anni a seguire, il primo step è stato quello di separare le SOEs dal Governo; poi è stata creata una struttura ibrida chiamata 'entità legale distinta' ('legal personal entity') che ha permesso allo Stato di ridurre la sua comproprietà, pur continuando a mantenere il controllo delle varie società. Non è un caso che tutt'oggi l'idea di un sistema di proprietà misto incontri numerose perplessità. Secondo una ricerca citata da Meyer, il 90% dei leader del 'private business' cinese ritene che una compartecipazione darebbe ugualmente troppo poco potere ai privati nel consiglio d'amministrazione; oltre la metà ha riferito di non avere intenzione di prendere parte al programma di privatizzazione.

Durante gli ultimi anni '90 e i primi del Duemila, la ristrutturazione delle imprese statali ha coinciso con la rapida crescita di quelle private. Secondo dati di 'China Economic Review', tra il 1998 e il 2010, la quota delle aziende di Stato è scesa dal 37% a meno del 5% per numero di imprese, e dal 68% al 44% per valore di assets. Dopo un primo tentativo di riforme negli anni '80, a distanza di un decennio il governo Jiang Zemin-Zhu Rongji ha introdotto una nuova radicale ristrutturazione del programma per la chiusura, fusione e privatizzazione di decine di migliaia SOEs inefficienti, culminata nel licenziamento di più di 30 milioni di lavoratori, che privati della cosiddetta 'ciotola di ferro' (tiefanwan, il posto statale non ampiamente retribuito ma sicuro), «assistettero allo scandaloso processo di arricchimento dei loro precedenti capi attraverso la manipolazione del processo di ristrutturazione». Il 'restyling' delle imprese statali, che prima del 2003 non aveva mai goduto di una politica di governo unificata, è stato al centro di accese proteste e arresti nei primi anni Duemila. Al drammatico diminuire delle assunzioni da parte delle SOEs, quelle nel settore privato hanno visto un progressivo incremento (China Labour Bullettin, 'Un decennio di cambiamento'). L'erosione dei posti di lavoro è una preoccupazione che ritroviamo nella nuova ondata di 'privatizzazione'. Secondo Meyer, "quello che occorre è prendere parte di quei soldi -altrimenti destinati a impianti e attrezzature- e utilizzarli per migliorare la forza lavoro. Insomma, metterli in capitale umano invece che in capitale fisico".

Per quanto il fenomeno della partecipazione mista, in Cina, renda il confine tra pubblico e privato nebuloso, vale la pena considerare quanto raccontato in un'intervista a China Files da Nicholas R. Lardy, economista e autore di 'Markets Over Mao'. In sostanza, secondo Lardy, il settore privato incide sull'economia cinese molto più di quanto non vorrebbe far credere la vulgata dominante. «Lo Stato contribuisce solo per il 20% dei posti di lavoro, che scende al 13% se si considerano i lavoratori urbani», mentre «lo share dello Stato nella produzione industriale è alto per quanto riguarda le utilities e il settore minerario, ma bassissimo nelle manifatture», solo il 26%. Già nel 2005, stando al China Private Economy Development Report, l'economia privata contava per il 65% del Pil e forniva l'84,1% delle opportunità d'impiego nel settore secondario e terziario. Si tratta di un trend che, nonostante il pensare comune, è stato avviato sotto la precedente amministrazione Hu Jintao - Wen Jiabao, spesso accusata di aver ostacolato la lunga marcia del Dragone verso il mercato. Addirittura sta prendendo piede una teoria che rintraccia i germogli del 'miracolo cinese' in un tessuto imprenditoriale precedente al 'capitalismo di Stato' inteso come prodotto delle riforme e dell'apertura fine anni '70. Senza contare che -sottolinea Lardy- il 70% del boom economico del gigante asiatico è stato finanziato «da soldi venuti da fuori», veicolati dalla diaspora cinese nel mondo (vale a dire da privati) o fatti entrare attraverso Hong Kong e Taiwan, vie d'accesso per i capitali occidentali nella Repubblica popolare.

Stando così le cose, nel corso dei prossimi 5-10 anni è possibile che Pechino si trovi a dover far fronte ad un problema inedito: quello di una crisi di successione nell'imprenditoria privata, che in Cina ha prevalentemente una struttura famigliare. Secondo le stime del magazine 'Fortune Generation', soltanto l'8% delle aziende cinesi sarebbe riuscito a trasferire con successo la propria attività ai discendenti. La questione si fa più spinosa via via che gli imprenditori di prima generazione, entrati nel mondo degli affari tre decadi fa, si fanno avanti con l'età. Molti dubitano che i rampolli, formatisi perlopiù nelle rinomate università d'oltremare, abbiano una conoscenza adeguata del business 'con caratteristiche cinesi' o che abbiano ereditato la caparbietà dei genitori, temprati dalle privazioni della Cina maoista. I figli vorrebbero introdurre sistemi manageriali occidentali e svincolarsi dalla consuetudine che vede affari e politica procedere a braccetto; i genitori, dal canto loro, guardano con sospetto alla modernizzazione d'oltre Muraglia e sono restii a cedere il controllo delle aziende ai giovani. Il tiro alla fune si fa particolarmente serrato quando si parla di manifatturiero. 'Fortune Generation' stima che oltre il 65% dei rampolli di aziende manifatturiere non voglia avere niente a che fare con le attività di famiglia. Un rifiuto che rischia di colpire pesantemente la produzione nella culla del boom cinese. Secondo quanto riportato nel 2010 dalla Camera di Commercio della provincia del Zhejiang, tra le più industriose della Cina, ben l'80% delle società private locali si troverà ad affrontare un problema di successione.

(Pubblicato su L'Indro)

mercoledì 10 dicembre 2014

La Cina conferma lo 'sviluppo pacifico'


E' incredibile. Più la Cina tenta di descriversi come un Paese pacifico, emergente (sic!) e rispettoso di un nuovo ordine multipolare, più la comunità internazionale agita il fantasma di una Cina assertiva, diplomaticamente sfrontata, 'rissosa' nell'esercizio della propria sovranità su territori contesi, subdola nel concedere assistenza ai Paesi in via di sviluppo. Così è stato anche alcuni giorni fa, quando i leader cinesi si sono riuniti per il Central Conference on Work Relating to Foreign Affairs, meeting con ricorrenza dilatata nel tempo (l'ultimo si era tenuto sotto la precedente amministrazione nel 2006) al quale hanno preso parte membri del Politburo, militari di alto rango e persino svariati diplomatici appositamente richiamati dall'estero. A giudicare dalla copertura riservata dai media di Stato, l'evento rientra a pieno titolo tra i «big deals». Si tratta, in effetti, di una dichiarazione d'intenti per la politica estera cinese sotto la guida del Presidente Xi Jinping, che tra i suoi numerosi incarichi riveste anche la carica di capo della Commissione Militare Centrale, il più alto organismo direttivo militare. Considerato il sospetto con cui viene percepita l'avanzata del gigante asiatico sullo scacchiere internazionale, vale la pena leggere con attenzione il resoconto dell'incontro così come viene riportato dalla Xinhua, agenzia di stampa subordinata al Consiglio di Stato.

L'attacco coglie il nocciolo della questione: «Come può la Cina, la seconda economia del mondo, garantire che non seguirà le orme delle grandi potenze che, una volta assunto il potere, hanno perseguito l'egemonia?». Xi sembra avere la risposta: «Tenendo alta la bandiera della pace, dello sviluppo e di una cooperazione win-win; perseguendo in maniera equilibrata gli interessi nazionali e internazionali, lo sviluppo della Cina e le sue priorità in fattore di sicurezza; concentrandosi sull'obiettivo prioritario di uno sviluppo pacifico e di una rinascita nazionale; confermando la sovranità, la sicurezza e gli interessi di sviluppo della Cina; incoraggiando un ambiente internazionale per uno sviluppo pacifico; mantenendo e sostenendo l'importante periodo che offre opportunità strategiche per lo sviluppo della Cina». Prosegue rimarcando come il meeting sia mirato a «implementare le decisioni prese nell'ambito del Diciottesimo Congresso del Partito (che ha sancito il ricambio di leadership, ndr) e del Terzo e del Quarto Plenum (punto di snodo delle varie riforme, ndr), continuando a seguire la dottrina di Deng Xiaoping, le importanti teorie delle Tre rappresentanze e dello Sviluppo scientifico».

Ritorna spesso l'allusione ad «una nuova era», all'«evoluzione degli sviluppi internazionali e del contesto esterno»; all'«evolvere dell'architettura internazionale" e alla necessità di «instaurare un nuovo tipo di relazioni sorrette da cooperazioni win-win». Nessuna stilettata bellicista, dunque. Anzi. Il Presidente ha dichiarato che «dobbiamo riconoscere pienamente le incertezze della situazione nei Paesi vicini, ma dobbiamo anche capire che l'andamento generale di prosperità e stabilità nella regione Asia-Pacifico non dovrà subire mutamenti (...) bisogna promuovere la democrazia delle relazioni internazionali e sostenere i Cinque Principi di Coesistenza pacifica (vedi sotto)». Fermo restando che «mentre seguiremo lo sviluppo pacifico, non permetteremo mai che i nostri diritti e interessi fondamentali vengano compromessi». Come ben sappiamo, questo è vero sopratutto quando si parla di 'interessi nazionali vitali', ovvero di questioni che toccano l'unità nazionale e l'integrità territoriale quali l'indipendenza di Taiwan, Tibet e Xinjiang, così come le dispute nel Mar Cinese. E', probabilmente, in quest'ottica che Xi ha chiesto in più occasioni all'Esercito di prepararsi a «combattere e vincere una guerra» in un momento in cui il moltiplicarsi delle sfide regionali mette in dubbio l'effettiva efficacia delle forze armate cinesi. Ma bisogna intendersi su quali sono le priorità della dirigenza.

La Central Conference on Work Relating to Foreign Affairs ha riconfermato il principio che vede la politica estera servire lo sviluppo economico. Secondo quanto messo nero su bianco dalla leadership, «due obiettivi centenari» vanno sommati al raggiungimento del «Sogno cinese di una rinascita nazionale» annunciato da Xi Jinping appena assunta la carica di Segretario Generale del Partito: 1) «Raddoppiare il Pil e il reddito pro-capite del 2010 nelle aree urbane e rurali, e raggiungere una società moderatamente prospera entro il centenario del Partito (2021)»; 2) «Rendere la Cina un Paese socialista moderno che sia prospero, forte, democratico, avanzato culturalmente e armonioso entro il centenario dalla fondazione della Repubblica popolare (2049)». Due questioni che evidentemente hanno ben poco a che fare con le relazioni diplomatiche, ma che segnano una virata nel modo di relazionarsi con l'esterno. Come fa notare Dingding Chen su 'The Diplomat', a differenza degli Stati Uniti, la Cina, per tradizione, non ama rivelare al mondo esterno i propri obiettivi strategici. Si noti che nel corso della Central Conference on Work Relating to Foreign Affairs del 2006 non fu fatta allusione ad alcun «strategic goal». Fattore che sembrerebbe denotare una Cina più sicura di sé, forte di una politica estera che, a partire dal 2012, ha acquisito toni rodomonteschi ma che - nonostante le critiche della comunità internazionale - l'establishment cinese giudica 'vincente'. Sopratutto alla luce di un nuovo ordine multipolare in cui la regione Asia-Pacifico assume una posizione di rilievo nella geopolitica economica globale, lasciando all'ex Impero Celeste ampio spazio per riappropriarsi della propria storica centralità come Regno di Mezzo (Zhongguo). Quello in corso è «un periodo di opportunità strategiche», ha scandito Xi. Una condizione che il Center for Strategic & International Studies stima durerà almeno fino al 2020, grazie alla quale il Dragone può comodamente focalizzarsi sulle questioni interne (riforme in primis) in base al principio secondo il quale tutto il mondo trarrà beneficio da una Cina più forte e prospera.

"La crescita economica è alla base dello status internazionale ottenuto dalla Cina", ci spiega Xuanli Liao, docente in International Relations and Energy Security presso la University of Dundee, "Da questo punto di vista Xi sembra seguire il pensiero di Deng Xiaoping: migliorare le condizioni interne del Paese prima di imbarcarsi nella politica estera. Allo stesso tempo i leader cinesi succeduti a Mao hanno messo abbastanza in evidenza il loro 'strategic goal', sebbene in maniera meno dettagliata, dal 'mantenere un basso profilo' di Deng Xiaoping (ampiamente ripreso dal Presidente Jiang Zemin), al 'mondo armonioso' di Hu Jintao. La Cina non ha gestito la questione come gli Stati Uniti, che hanno parlato di 'ritorno in Asia', perché la Cina fino ad oggi non si è vista come una 'potenza globale' e non aveva quel senso di 'missione' della controparte americana."

Altresì, il riferimento ad un «network di partnership globale» ribadisce l'impegno a creare una «comunità di interessi condivisi» attraverso progetti a guida cinese quali la nuova Via della Seta, la Via della Seta Marittima e la 'politica della Marcia verso Ovest' (xijin), sostenuti economicamente con l'istituzione della AIIB (Asian Infrastructure Investment Bank) e di fondi d'investimento ad hoc. Fonti della rivista economica 'Caixin' rivelano il progetto per una cooperazione sino-araba finanziata dalla China Development Bank e da Abu Dhabi Investment Authority, fondo sovrano negli Emirati Arabi Uniti. Il Dragone pianifica, quindi, un ritorno al centro del continente asiatico. Non solo: punta ad estendere la propria influenza verso territori più remoti su modello indiano, ovvero attraverso la creazione di un network di «partner strategici» più che di veri alleati. Ottica in cui, secondo l'analista Ankita Panda, andrebbe letta la liaison con Mosca e il rinnovato attivismo in Asia Centrale. «Dove il nemico avanza, noi ci ritiriamo. Dove il nemico si ritira, noi avanziamo»: tenendo bene a mente la massima di Mao Zedong, Pechino mira a riempire il vuoto lasciato dagli Stati Uniti nel 'cuore dell'Asia', in risposta al pivot di Obama che prevede un ribilanciamento nell'Asia-Pacifico.

Nel cementare la propria presenza oltre i confini della galassia sinocentrica (recente), il Dragone si rifà alla propria tradizione strategica. Letteralmente: «Dobbiamo farci più amici rimanendo fedeli al principio del non allineamento e costruendo un network di partnership globali». Nonostante venga ormai considerata la seconda potenza mondiale, la Cina continua a servirsi di una retorica dai toni dimessi. La Repubblica popolare ha sempre amato presentarsi all'esterno come un Paese del Terzo mondo, in via di sviluppo, indipendente, estraneo alla dialettica tra i due blocchi guidati da Stati Uniti e Unione Sovietica. La sua politica estera si basa sui i Cinque Principi di Coesistenza pacifica (rispetto dell’integrità territoriale e della sovranità, non aggressione, non ingerenza negli affari interni, uguaglianza e reciproco vantaggio negli scambi commerciali e coesistenza pacifica), affermati nel 1954 dall'allora Primo Ministro Zhou Enlai in occasione di una visita in India e Birmania, e riaffermati con la conferenza di Bandung (1955). Alla fine degli anni '90, i Cinque Principi sono stati affiancati dal New Security Concept che prevede il perseguimento di una strategia di sicurezza basata sui contatti diplomatici ed economici come soluzione agli antagonismi da guerra fredda. Intorno al 2002 tale concetto ha finito per essere inglobato alla più nota dottrina dell'ascesa pacifica (heping jueqi) nel corso di un processo di maggiore istituzionalizzazione della politica estera di Pechino e ad una maggiore collegialità decisionale in seno al Partito. Tutto questo costituisce il sostrato ideologico su cui basare la «grande rinascita della Nazione» sotto la guida di Xi Jinping. Con qualche comprensibile riserva per quanto riguarda la politica del «tenere un basso profilo» (tao guang yang hui), promossa dal padre delle riforme, Deng Xiaoping, nei primi anni '90. Attuale forse nel pieno della crisi diplomatica innescata dal massacro di piazza Tian'anmen; alquanto obsoleta oggi che la Repubblica popolare studia da Superpotenza.

Come fanno notare Andrew Nathan e Robert Ross in 'The Great Wall and the Empty Fortress: China’s Search for Security' (New York: W.W. Norton, 1997), mantenendo vivi i Cinque Principi (di cui recentemente è stato ricordato in pompa magna il 60esimo anniversario), Pechino tenta di offrire un'alternativa al concetto di un nuovo ordine mondiale di imprinting americano «in cui regimi e istituzioni internazionali, spesso riflettendo gli interessi e i valori degli Stati Uniti, limitano il diritto degli Stati sovrani a sviluppare e vendere armi di distruzioni di massa, a reprimere l'opposizione e violare i diritti umani, perseguire politiche economiche mercantilistiche che interferiscono con il libero commercio, e a danneggiare l'ambiente». La versione alternativa proposta dalla Cina prevede «l'inviolabile e uguale sovranità di tutti gli Stati, grandi e piccoli, occidentali e non-occidentali, ricchi e poveri, democratici e autoritari; tutti liberi di attuare il proprio sistema come meglio credono, anche se questo sistema non si accorda agli standard occidentali». Una prospettiva che ha permesso al gigante asiatico di continuare ad arricchire le proprie amicizie indiscriminatamente, senza provare remore nell'attingere dall'Asse del male. Proprio ai Cinque Principi ha fatto riferimento Xi Jinping per delineare la propria visione di un nuovo ordine pan-asiatico nell'ambito del summit CICA (Conference on Interaction and Confidence-Building Measures in Asia) dello scorso maggio. In quell'occasione l'uomo forte di Pechino ha ricordato come «lo sviluppo pacifico della Cina è cominciato in Asia, ha trovato il suo supporto in Asia, e offre tangibili benefici all'Asia». Dunque, cosa pensa l'Asia?

Come già sottolineato su queste colonne, a novembre il vertice Apec (Asia-Pacific Economic Cooperation) si è concluso con i piatti della bilancia sostanzialmente in equilibrio: se è vero che Pechino ha ceduto alle pressioni di Washington siglando un importante accordo sul clima, è anche vero che l'avvio di un piano di studio sulla FTAAP (Free Trade Area of the Asia Pacific) di per sé assegna alla Cina una vittoria a valanga. La FTAAP è l'area di libero commercio dell'Asia-Pacifico che Pechino propone in alternativa alla TPP (Trans-Pacific Partnership) americana - dalla quale Cina e Russia sono escluse. Il consenso ottenuto dal Dragone la dice lunga su almeno due questioni: innanzitutto, la bagarre su isole e confini contesi non sembra aver minato la leadership cinese nel quadrante regionale (la Cina ha influito per il 50% della crescita economica asiatica ed è il primo partner commerciale per molti Paesi del Pacific Rim). In secondo luogo, pare evidente come i dossier di Iraq, Siria e Ucraina, oltre allo scandalo Prism, abbiano messo in luce una certa fragilità americana con relativo calo di appeal tra gli storici alleati asiatici, non più tanto sicuri di poter contare sull'aiuto di Washington contro le angherie cinesi.

Alcuni giorni fa, in occasione di una tavola rotonda con vari imprenditori americani, Obama ha riconosciuto con insolita schiettezza l'impressionante velocità con la quale Xi Jinping ha consolidato il suo potere, a poco più di due anni dall'investitura a Segretario del Partito (l'ex Presidente Hu Jintao aspettò quasi il doppio del tempo per annunciare le linee guida della propria politica estera al Central Conference on Work Relating to Foreign Affairs del 2006). Fattore che lo renderebbe, secondo un cliché ormai assodato, il leader cinese più potente dai tempi del Piccolo Timoniere. Ma non vuole essere un complimento. Nell'accezione attribuita dal Presidente americano, reduce dalla debacle alle elezioni di mid-term, lo strapotere di Xi Jinping non è un bene né per la Cina né per i suoi vicini. Sul versante diritti umani, il cambio al vertice ha coinciso con un più serrato giro di vite ai danni di attivisti e dissidenti. Sul proscenio internazionale, l'ascesa di Xi ha visto un'inasprimento delle tensione con i vari attori regionali che -secondo Pechino- minacciano la sovranità cinese nel suo cortile di casa. Entrambe questioni sulle quali Washington continua a mettere bocca, ma che la Cina considera blindate dai Cinque Principi e pertanto off-limits.

(Pubblicato su L'Indro)

sabato 6 dicembre 2014

A Marshall Plan with Chinese Characteristics


In the fear of being a new target for Obama’s selective engagement strategy, Bejing is attempting to counterbalance the US president’s aim to shift his diplomatic focus to the Asia-Pacific. The immediate action is a repositioning of China in the voids the United States has so far left uncovered.

South America is attracting more and more Chinese investments while Washington is losing ground in what has always been considered its backyard. As Antonio C. Hsiang, Director of the Center for Latin America Economy and Trade Studies, noted on 'Want China Times', while the TPP (Trans-Pacific Partnership) is the cornerstone of American assertiveness in the East Asia-Pacific, the resistance advanced to the project by Japan might instill some doubt in South American partners about the strength of Washington in the region. It is not a coincidence that Mexico and Peru - albeit participating in the TPP negotiations - have spoken out at the annual conference of the Boao Forum for Asia 2013, the Davos of the East.

“The era of the Monroe Doctrine is over”, Secretary of State John Kerry officially announced at the top OAS (Organization of American States) meeting in November. A statement supported by the unequivocal reconfiguration of power in Latin America that sees the OAS joined by new federations -like the Community of Latin American and Caribbean States and the Pacific Alliance-, perceived as counterpoints to the dominance of the United States. In parallel to those Asia-Pacific countries, with several outstanding territorial disputes with Beijing, who gravitate closer to Washington in an anti-China function.

China has extended its influence on a global scale by implementing its own 'Marshall Plan'. As the developed West sank into the Great Recession, in 2009 the economist Xu Shanda advised that Beijing would have to use its forex reserves to finance infrastructure projects in emerging countries, whereas the governor of the People's Bank of China, Zhou Xiaochuan, proposed the creation of a "super-sovereign wealth fund." In more recent times, the concept was revived by the President of Ethiopia, Mulatu Teshome. Literally: "China is carrying out the same sort of role in Africa as to what the EBRD (European Bank for Reconstruction and Development) did after World War II in Europe under the Marshall Plan."

In July, on his second trip to Latin America as President, Xi Jinping announced the agreement reached for the construction of a railway which should extend for 3000 km connecting the East and the West Coast, starting in Brazil and ending in Peru. This is the largest railway project launched by Chinese leaders during their overseas trips, but not completely unexpected. Last summer, Beijing had signed a memorandum of understanding with Honduras to build a line between Amapala, on the Pacific, and Puerto Castilla, a port city on the Caribbean Sea. Since 2011, the Dragon is also in contact with Colombia for a railway expected to cross the country and unite the two oceans. According to Want China Times',"the July announcement didn't give details for the railway project, but what can be certain is that the project aims to break the monopolistic position of the Panama Canal controlled by the United States, making the railway the 'Panama Canal on land' to help China take a more active position in linking with Africa, Latin America and the Pacific Ocean".

Currently, international trade has only three solutions: Strait of Malacca, the Suez Canal and the Panama Canal and all three fall in the economic and geopolitical system created by Washington. The 'made in China' railroads and the project for the Nicaragua Canal (funded by a mysterious Chinese businessman allegedly linked to Beijing leaders) aim to rewrite the flows of a significant share of global trade. Last year, Colombia pointed the finger at China accusing it of pressuring the U.N. International Court over the assignment of 13-years-long maritime disputes to Managua. If the verdict had been in favour of Bogotá, the Nicaragua Canal would never see the light. The lack of diplomatic relations between Beijing and Managua -that still recognizes Taiwan as an independent state- is one of the few issues PRC can still use to silence the gossips on its implication in the project.

Beijing hopes that the soft power and economic support put in place in South America will be rewarded with political loyalty, a strategy already used effectively in Africa. This stance is confirmed in the July speech delivered by Xi Jinping to the National Congress of Brazil, in which  he made references to a 'new security concept' as well as to the hope for a greater cooperation between the two countries in international issues, urging mutual support in "sovereignty, security and territorial integrity". A question that Xi did not hesitate to speak of also during his visit to Buenos Aires, confirming that the Chinese firmly support Argentina's claim of sovereignty over the Falkland/Malvinas Islands (disputed with London) and the restart of negotiations based on relevant UN resolutions to solve the issue in a peaceful way. The statement has strategic value in the light of ongoing disputes between China and its Asian neighbors; a subject that Beijing cyclically brings into play at international summits.

mercoledì 3 dicembre 2014

La rivoluzione rurale di Alibaba


(Pubblicato su L'Indro)
Ogni 11 novembre, in Cina, si festeggia il Singles Day, festa speculare a San Valentino in cui le pene d'amore vengono attenuate riversando i propri risparmi nello shopping online. E' una tradizione che va avanti dal 2009, ma pare che quest'anno i cinesi c'abbiano dato giù che neanche gli americani al Black Friday o al Cyber Monday. Soltanto nella prima ora, il gigante dell'e-commerce Alibaba ha superato i 2 miliardi di dollari di vendite attraverso la sua app Alipay. La notizia è di quelle che bucano la Grande Muraglia raggiungendo le nostre latitudini. Se non altro perché appena un paio di mesi fa, la società fondata da Jack Ma aveva già polverizzato un primo record sbarcando a Wall Street con un'offerta pubblica iniziale di 25 miliardi di dollari, la più consistente nella storia della finanza Usa.

Mentre i media mainstream erano intenti a magnificare i successi del colosso dell'internet retail, soltanto pochi si sono resi conto di come il Single Day scattati una foto sul mastodontico processo di riforma attraversato dalla seconda economia mondiale. Stando ai dati rilasciati dalla società, il 10% dei 9,3 miliardi di dollari incassati l'11/11 è arrivato dalle campagne cinesi. Il dettaglio non è trascurabile. Se infatti è vero che la popolazione cinese è ancora largamente rurale (i cittadini in senso proprio costituiscono solo il 53% della popolazione), è altrettanto vero che sono ancora sopratutto i residenti urbani a smanettare con le tastiere. Il risultato rimane, dunque, più che apprezzabile. Cosa ha comprato questo 10%? Nella top ten redatta da 'TechInAsia' compaiono: 1) cellulari; 2) televisori a schermo piatto; 3) stivali; 4) cappotti di lana; 5/6) piumini da donna e da uomo; 7) scarpe da ginnastica; 8) lenzuola; 9) creme per il viso; 10) lavatrici. Articoli che si differenziano molto dai desiderata dei cinesi urbani, per i quali il televisore non è più una priorità, e lasciano intendere che, sì, nelle campagne si comincia a consumare di più, si comincia a consumare sul web ma lo si fa (comprensibilmente) in modo diverso.

Secondo un rapporto rilasciato dal gruppo, nel primo trimestre del 2014 le campagne contavano per il 9,11% del totale degli acquisti su Taobao - il sito dello shopping online fondato da Alibaba dieci anni fa-, segnando un +7,11% rispetto al secondo trimestre del 2012. Addirittura il Vicepresidente della società, Gao Hongbing, ipotizza un'espansione del mercato rurale a 460 miliardi di yuan (74 miliardi di dollari) entro il 2016. Come? A metà ottobre, il colosso internet ha annunciato di voler investire oltre 10 miliardi di yuan (1,6 miliardi di dollari) nell'arco dei prossimi cinque anni per cementare la propria presenza nelle campagne cinesi. Si parla di «1000 centri operativi a livello di contea» e «100mila stazioni di servizio a livello di villaggio». Un progetto con il quale Alibaba prevede di agganciare un terzo delle contee e un sesto delle zone rurali dell'ex Celeste Impero, partendo dalla provincia del Zhejiang dove la creatura di Jack Ma ha la sua sede. Intendiamoci: non si tratta di un'intuizione geniale di Alibaba.

Da un paio di anni concorrenti locali, come JD, stanno tentando di mettere in pratica qualcosa di molto simile con il beneplacito del governo cinese. Negli stessi giorni in cui a Wuzhen, nella provincia del Zhejiang, i leader delle grandi imprese IT cinesi, come Alibaba e Tencent, incontravano i boss dei colossi internazionali high-tech nell'ambito della World Internet Conference, il Premier cinese Li Keqiang si aggirava per Qingyanliu, villaggio che dal 2010 ospita il quartier generale di svariati trader attivi su Taobao. Qui, dove i residenti possono usufruire di una rete wireless completamente finanziata dal Governo, si contano oltre 2800 negozi e-commerce per oltre 4 milioni di spedizioni all'anno verso destinazioni domestiche e internazionali. Le vendite per il 2014 dovrebbero toccare i 4 miliardi di yuan (652 milioni di dollari). Qingyanliu rappresenta un modello da replicare su scala nazionale. Il perché lo ha spiegato Li Keqiang ai microfoni dell'agenzia di stampa Xinhua: nonostante l'e-commerce appartenga al mondo 'virtuale', la sua espansione può giovare all'economia reale fornendo «uguali possibilità di business ai residenti urbani e rurali, assottigliando il gap che separa le due categorie in termini di standard di vita».

Non è un caso che alcuni giorni fa Jack Ma abbia deciso di rimettere piede nello Xinjiang dopo quattro anni d'assenza. Lo Xinjiang è quella remota regione della Cina occidentale scenario di violenze che Pechino attribuisce a forze islamiche separatiste. Altresì, nei piani della dirigenza cinese, lo Xinjiang dovrebbe diventare il principale hub commerciale dell'Asia Centrale nell'ambito della Nuova Via della Seta fortemente voluta dal Presidente Xi Jinping. Tanto per capirci, sebbene la regione disti da Pechino grossomodo quanto New York da Seattle, ha un fuso orario tutto suo ed è legata alla confinante provincia del Gansu da un'unica linea ferroviaria e una sola autostrada. Le cose dovrebbero cambiare nell'arco di qualche anno, ma per il momento il flusso di merci in entrata e in uscita non ha vie di trasporto alternative. A livello pratico tutto questo si traduce in attese estenuanti. Gli ordini online effettuati dallo Xinjiang vengono considerati come spedizioni internazionali, spiega sul suo blog Josh Summers imprenditore residente a Urumqi, la capitale provinciale. «Non potremo dire che l'industria logistica cinese è veramente sviluppata fino a quando il tempo di spedizione di un pacco nello Xinjiang non sarà lo stesso di grandi città come Pechino e Shanghai», ha scandito Jack Ma annunciando l'apertura di tre shopping mall online specializzati in prodotti xinjianesi. Per comprendere il potenziale nascosto si consideri che, nei primi sei mesi del 2014, la vendita di prodotti locali via internet ha già registrato un aumento del 68,7% su base annua. Parliamo di 1,3 miliardi di yuan di vendite (212 milioni di dollari) sulla piattaforma T-mall, costola di Taobao.

Tutto questo si accorda perfettamente con il nuovo paradigma di sviluppo delineato dalla nuova leadership al potere dal marzo 2013. Mentre il manifatturiero locomotiva dell'iperbolica crescita cinese continua a rallentare, il Dragone sta cercando di affrancare la propria dipendenza dai settori tradizionali voltando lo sguardo verso l'immenso bacino di consumatori; quelli 'cibernetici' non fanno eccezione. Al momento la Cina vanta 632 milioni di utenti internet di cui 527 su piattaforme mobile. Le quattro principali aziende cinese (Alibaba, Tencent, Baidu e JD) valgono oggi 510 miliardi di euro. Il commercio online è cresciuto del 18% nei primi tre trimestri dell'anno toccando i 240 miliardi, mentre l'economia legata a internet è arrivata a coprire il 4,4% del pil del paese, contro il 3,3% del 2010.

Ad avvalorare i numeri del Singles Day, uno studio della Tsinghua University rileva un crescente attivismo dei lavoratori migranti (mingong) -ovvero quanti lasciano il villaggio d'origine per cercare un impiego in città- sulle piattaforme online, sopratutto per quanto riguarda l'acquisto di vestiti. Non si tratta di un fenomeno locale, ma di un trend che comincia ad interessare molte economie emergenti; oltre a Cina e India anche Sudafrica, Russia e Messico. L'Emerging Consumer Survery 2014 del Credit Suisse Research Institute fa addirittura riferimento ad una «middle classe rurale» come nuovo catalizzatore dei consumi a livello globale. Nella fattispecie cinese, un ribilanciamento dell'economia verso le campagne va di pari passo con quanto promesso dai leader.

Dopo trent'anni di crescita trainata dall'export, la crisi finanziaria che ha azzoppato i principali mercati di sbocco del Made in China ha costretto il gigante asiatico a puntare sui consumi interni come volano per una crescita più sostenibile. Una transizione che richiede come condizione base un innalzamento del potere d'acquisto della pancia del Paese. Pechino vuole che i cittadini spendano di più, ma perché questo avvenga è necessario assicurare welfare e benefit in modo che quel denaro sborsato fino ad oggi dai cinesi per i servizi di base possa presto andare ad oliare la ripresa dell'economia nazionale. Da qui la necessità di riformare il sistema dell'hukou e concedere ai contadini più margine di manovra nella vendita, l'affitto e l'ipoteca della propria terra, senza tuttavia intaccare il sistema della proprietà collettiva. L'obiettivo è quello di permettere agli agricoltori di beneficiare da un apprezzamento del valore dei terreni lasciando loro più risparmi da destinare alla spesa discrezionale. Il processo è in corso da alcuni anni, ovvero da quando, nel 2003, la precedente amministrazione Hu Jintao-Wen Jiabao decise di abolire la tassa sull'agricoltura, ampliare la copertura sanitaria e aumentare il prezzo minimo dei cereali.

Risultato: nel 2010 il reddito pro-capite nelle aree rurali ha cominciato a crescere più velocemente che nelle città per la prima volta dal 1997. Un'accelerata che Bloomberg attribuisce all'incremento dei guadagni accumulati dai contadini emigrati nelle zone urbane per cercare lavoro. Questa tendenza sembra trovare conferma in una recente ricerca riportata dal 'Nanfeng Chuang', in cui si dimostra il delinearsi di una 'migrazione in senso inverso', ovvero che dai nuclei urbani procede a ritroso verso le campagne. Pare, infatti, che sempre più giovani decidano di ritornare nelle cittadine di nascita una volta riscontrata la difficoltà di inserimento sociale e professionale nelle caotiche megalopoli cinesi. Al loro rientro, questi migranti 'pentiti' portano con loro un bagaglio di esperienza fondamentale per lo sviluppo delle città di seconda e terza fascia. Proprio quelle che i leader cinesi puntano a rendere zoccolo duro della nuova espansione urbana. Una chengzhenhua ('townizzazione'), contraltare della precedente chengshihua, urbanizzazione sfociata in una crescita ipertrofica di metropoli tentacolari e ingestibili.

La direzione è quella giusta, ma la strada ancora lunga e lastricata di ostacoli. Nel 2012 il reddito rurale pro-capite era ancora un terzo di quello urbano (rispettivamente 7917 yuan e 24.565 yuan). Proprio lo scarto tra i salari percepiti nei grandi e piccoli centri rientra tra le micce scatenanti di un'ondata di proteste che da alcuni mesi coinvolge il ceto insegnante nelle città minori e nelle regioni della Cina interna, quelle più arretrate.

Hukou e controllo sociale

Quando nel 2012 mi trasferii a Pechino per lavoro, il più apprezzabile tra i tanti privilegi di expat non era quello di avere l’ufficio ad...