Yin ha lasciato la sua città natale nello Henan per cercare un impiego nella capitale una decina di anni fa; da tre lavora in discarica come molti altri migranti (mingong). Una professione che fin'oggi gli ha fruttato tra i 3.000 e i 5.000 yuan al mese, circa 400-600 euro. Ma i tempi stanno cambiando, la metropoli cinese diventa ogni giorno più cara e inospitale nei confronti dei forestieri, considerati un ostacolo al raggiungimento del limite di 23 milioni di abitanti stabilito dalla municipalità di Pechino per il 2020. Un obiettivo che le autorità stanno cercando di inseguire spostando mercati all'ingrosso e scuole professionali per i figli dei mingong nell'hinterland. Il tutto risulta declinato alla Jing-Jin-Ji, la nuova megalopoli che la leadership cinese sta plasmando attraverso l'incorporazione delle municipalità di [Bei]Jing e [Tian]Jin alla provincia circostante dello Hebei (spesso chiamata Ji) con lo scopo di decongestionare il traffico della capitale e ad allentare la pressione esercitata su Pechino dall'arrivo di orde di lavoratori migranti a fronte di risorse insufficienti e strutture d'accoglienza ormai sature.
A distanza di circa tre anni dal suo avvio, il processo tuttavia sembra procede a singhiozzi: secondo recenti dati della Commissione municipale per lo Sviluppo e le Riforme, nei primi nove mesi dell'anno il numero dei residenti nei sei principali distretti della capitale è sceso soltanto di 96mila unità, appena un quarto rispetto al target annuale prefissato dal governo. Ecco che, nei piani di Pechino, la chiusura e la delocalizzazione delle discariche in periferia dovrebbe facilitare il deflusso dei mingong verso aree del Paese meno allettanti ma anche meno affollate. Quel che le autorità sembrano tuttavia sottovalutare è l'apporto imprescindibile della popolazione mobile nello svolgimento di tutte quelle professioni che - come ricordava Yin- i pechinesi non farebbero mai. Lo smistamento della differenziata è certamente tra queste.
Secondo statistiche della World Bank, nel 2004 la Cina è diventata il primo produttore di rifiuti al mondo, affermandosi col tempo anche come una delle mete principali per il trattamento degli scarti americani spediti sull'altra sponda del Pacifico per ottimizzare i costi del viaggio di ritorno delle navi cargo attraccate nei porti statunitensi colme di Made in China. Nell'ex Celeste Impero gran parte della raccolta differenziata viene di fatto affidata agli immigrati delle province più povere e ai pensionati, che separano i rifiuti riciclabili (carta, plastica e metello) dal resto dell'immondizia per rivenderli a società incaricate di riconvertirli. Si tratta di un'industria che oltre la Muraglia impiega più personale di qualsiasi altro settore esclusa l'agricoltura, ovvero tra i 3 e i 5,5 milioni di lavoratori, di cui 200mila nella sola Pechino. Li si vede attraversare la città in bicicletta con rimorchi improvvisati, rovistare nella spazzatura o persino fermare i passanti per prelevare semplicemente una bottiglietta d'acqua.
Negli anni del boom economico, questo esercito di riciclatori informali si è comodamente sistemato in una zona grigia ai margini della legalità (che permette di guadagnare senza pagare tasse), sino a oggi considerata favorevolmente anche dalle autorità come una toppa a costo zero con cui coprire il vuoto lasciato dai servizi pubblici inefficienti e dalla disattenzione dei nuovi consumatori cinesi, nati nella società del benessere e sprovvisti di quell'allergia agli sprechi delle vecchie generazioni vissute prima delle riforme anni '80. Ma spesso i laboratori semi-abusivi (600 nella sola Pechino) finiscono per causare all'ambiente più danni di quelli che dovrebbero evitare: stando ai media di Stato, delle circa 20 tonnellate di bottiglie di plastica destinate al riciclo nella capitale cinese, soltanto il 20 per cento risulta riutilizzato in maniera appropriata. Il resto finisce in stabilimenti sprovvisti dei macchinari adatti, che riversano gli scarti nel più vicino corso d'acqua, andando ad aggravare la contaminazione delle falde acquifere.
Secondo il People's Daily, «nel periodo 2014-2015 l'industria del riciclo ha registrato un calo del 20,1 per cento su base annua», assetandosi sui 514,9 miliardi di yuan (circa 70 miliardi di euro). Il quotidiano ufficiale del Partito comunista spiega che «a causa delle sfavorevoli condizioni economiche e alla limitata vigilanza del governo, il settore sta soffrendo una recessione su larga scala, con ingenti perdite per le aziende coinvolte, mentre molte attività medio-piccole hanno già dovuto chiudere». Nel 2015 le compagnie sopravvissute erano 150mila, 7000 in meno rispetto all'anno prima, mentre Nanqijia, la principale comunità pechinese del riciclo a 45 minuti da piazza Tian'anmen, ha cominciato a sfaldarsi nei mesi successivi alla bolla speculativa sui mercati azionari. Insieme alla mancanza di innovazione, «l'inadeguatezza degli standard industriali sarebbe all'origine della crisi incontrata dal comparto, con esplicito riferimento al coinvolgimento di «lavoratori migranti e disabili, gente con un basso livello di istruzione».
Ma per Joshua Goldstein, docente della University of Southern California nonché studioso dell'industria informale del riciclo fin dagli anni '90, «l'inquinamento è più una scusa di convenienza che la ragione principale dietro alla repressione dei migranti. Così come la decisione di chiudere i mercati per la rivendita del materiale smistato non è soltanto motivata dalla volontà di allontanare i migranti da Pechino», ci spiega. «E' anche un modo per massimizzare gli affitti degli immobili urbani; per assumere il controllo del settore e deviare i profitti verso le imprese a conduzione statale. Non è detto che il giro di vite funzioni. Tentativi analoghi sono stati messi in campo precedentemente senza successo. Ma se questa è la volta buona, non si tratterà solo di lasciare centinaia di migliaia di migranti senza lavoro».
Infatti considerando che entro il 2025 la Cina produrrà circa 1,4 milioni di tonnellate di rifiuti al giorno, l'esclusione dei mingong dal settore - volontaria a causa del rincaro della vita cittadina o indotta sotto il pungolo delle autorità - inevitabilmente spingerà il governo verso l'utilizzo massiccio di altri espedienti meno «verdi» e più invisi alla popolazione, come l'interramento o la combustione dei rifiuti.
«Assisteremo così al proseguimento di un corso insostenibile, mirato a sfruttare l'industria dell'incenerimento nella quale Pechino ha iniettato ingenti investimenti - conclude Goldstein - ma per tenere gli inceneritori accesi occorrerà mantenere massicci flussi di rifiuti urbani, andando quindi in direzione opposta rispetto alla promozione di una riduzione dei rifiuti sbandierata dalle autorità».
(Pubblicato su China Files)