martedì 25 settembre 2018

I molti dubbi sull’accordo Cina-Vaticano



All’indomani dello storico accordo tra Pechino e Vaticano sulle nomine episcopali, non si placano le polemiche sull’opacità dei contenuti, motivo di apprensione per buona parte della comunità cattolica. Nel pomeriggio di sabato si è svolta a Pechino una riunione tra il monsignor Antoine Camilleri, sotto-segretario per i Rapporti della Santa Sede con gli Stati, e Wang Chao, viceministro degli Affari Esteri della Repubblica Popolare Cinese, rispettivamente Capi delle Delegazioni vaticana e cinese. L’incontro si è concluso con una vaga intesa sulla scelta dei vescovi cinesi, fino a oggi principale punto di frizione per le relazioni tra il governo comunista e le autorità vaticane, che dagli anni ’50 esercitano il proprio controllo su due Chiese distinte più o meno numericamente equivalenti: quella “patriottica“, riconosciuta da Pechino (con i propri vescovi), e quella sotterranea, vicina al Vaticano e costretta a operare in clandestinità per sfuggire alla repressione del governo, ostile a qualsiasi forma di condivisione del potere.

Secondo Vatican Insider, l’accordo – di cui non è stato pubblicato il testo – viene definito “provvisorio” “perché contempla un tempo di verifica – presumibilmente, almeno un paio d’anni – per sperimentarne sul campo il funzionamento e gli effetti, così da modificarne e migliorarne la codificazione testuale”. Trattasi di “accordo non politico ma pastorale”, precisa la Santa Sede, smentendo tra le righe un’imminente rottura dei rapporti diplomatici con Taiwan (istituiti nel 1951 in seguito al divorzio dalla Cina continentale comunista), ma senza fornire i dettagli procedurali per l’effettuazione delle nomine.

Stando alle indiscrezioni trapelate sulla stampa internazionale nel corso delle negoziazioni, i vescovi verranno scelti per elezione da parte dei rappresentanti cattolici della diocesi (i sacerdoti, più i rappresentanti delle suore e dei laici) e approvati dalle autorità politiche cinesi, prima di essere sottoposti alla valutazione della Santa Sede per l’approvazione decisiva. Ma del potere di veto papale non sembra più esserci traccia. Intervistato dal New York Times nel weekend, l’arcivescovo Claudio Maria Celli, direttamente coinvolto nei negoziati, si è limitato ad assicurare “un intervento del Santo Padre” nelle nomine, schivando la richiesta di un chiarimento sull’entità dei poteri lasciati al capo della Chiesa cattolica.

Ugualmente abbottonata la reazione cinese, sintetizzata in uno scarno comunicato del ministero degli Esteri in cui si fa menzione di un “accordo temporaneo” mirato a facilitare il “miglioramento delle relazioni bilaterali.” Nessuno indizio in più sulla stampa statale spesso trainata dalle affermazioni incendiarie del Global Times. Il quotidiano bulldozer della politica estera cinese si è limitato a riportare il commento conciliatorio di Marcelo Sanchez Sorondo, cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze, sulla marginalità dell’opposizione schierata da parte della comunità cattolica, che ha nel cardinale Joseph Zen, ex arcivescovo di Hong Kong, il suo più loquace portavoce.

A preoccupare i detrattori sono soprattutto le misteriose premesse alla base della firma, che comprendono il riconoscimento da parte della Santa Sede di sette vescovi nominati da Pechino e precedentemente scomunicati dalla Chiesa di Roma. L’intesa prevedrebbe inoltre la sostituzione degli attuali rappresentanti “sotterranei” delle diocesi di Shantou e Mindong con due vescovi prescelti dal governo cinese. Il tutto mentre invece rimane incerto il futuro dei 36 vescovi ordinati con mandato papale e fino a oggi disconosciuti dal governo cinese.

A stretto giro dalla firma dell’accordo, la Chiesa cattolica cinese ufficiale – rappresentata dall’Associazione patriottica cattolica cinese (CPCA) e dalla Conferenza episcopale della Chiesa cattolica in Cina (BCCCC) – ha riaffermato il proprio sostegno al Partito comunista, promettendo di gestire le attività religiose “in maniera indipendente, attraverso un percorso di sinizzazione che si adatti a una società socialista.” Un messaggio che difficilmente aiuterà a dissipare le preoccupazioni innescate dalle ripetute violazioni della libertà religiosa sotto l’amministrazione Xi Jinping, responsabile di una recente stretta su tutte le comunità religiose presenti oltre la Grande Muraglia nel segno di un processo di indigenizzazione delle fedi.

È dunque l’inizio del totale assoggettamento della Chiesa alle autorità comuniste? Non per Francesco Sisci, sinologo che per Asia Times intervistò Bergoglio nel 2016. Secondo quanto riferisce l’esperto all’agenzia SIR, con l’accordo per la prima volta “Pechino ha ammesso l’ambito religioso del Papa in Cina“, una concessione che in epoca imperiale i missionari gesuiti non ottennero mai.

[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]

Il calo delle nascite mette in crisi l’esercito giapponese



Il calo delle nascite non fa male solo all’economia giapponese. A risentire negativamente dei numeri è anche il suo esercito: le cosiddette Jieitai, ovvero le Forze di autodifesa giapponesi (SDF) create dopo la fine della seconda guerra mondiale – “ufficialmente” – con l’unico scopo di mantenere la pace e, di questi tempi, difendere il paese dalle provocazioni nordcoreane.

Secondo recenti dati del governo, oltre il 28% della popolazione nipponica è da considerarsi vecchia – con gli over 65 ormai a quota 35,6 milioni -, la percentuale più alta al mondo. Un trend spiegabile alla luce delle migliori aspettative di vita ma soprattutto del costante calo delle nascite, ferme da due anni sotto il milione. Una popolazione ingrigita comporta pesi notevoli per il sistema pensionistico giapponese, costretto a fare affidamento su un minor numero di contribuenti. Ma non solo.

A causa del basso tasso di natalità, il numero di giapponesi nella fascia di età per il reclutamento (tra 18 e i 26 anni) è sceso a 11 milioni rispetto ai 17 milioni del 1994. Ed entro i prossimi trent’anni si prevede toccherà i 7,8 milioni. D’altronde è dal 2014 che l’esercito non riesce a raggiungere le quote di reclutamento previste, tanto che nell’anno terminato a marzo è arrivato a riempire appena il 77% dei 9.734 posti aperti tra le cariche di rango più basso.

Gli esperti la chiamano “crisi silenziosa”. Il Sol Levante è costantemente minacciato da centinaia di missili nordcoreani a medio raggio in grado di raggiungere il territorio nipponico. Una situazione – che l’ultimo libro bianco della Difesa definisce “un nuovo livello di pericolo” -, a cui si aggiungono le mai sopite rivalità territoriali con Pechino nelle acque contese del Mar Cinese orientale.

Stando a quanto proposto dal ministero della Difesa, la spesa militare giapponese per il 2019 dovrebbe sfiorare i 50 miliardi di dollari, cifra record, pari a un aumento del 2,1 per cento rispetto a quanto stanziato nel 2018, con la difesa balistica a fare la parte del leone. Peccato però che manchino le risorse primarie. “A meno che non si riesca a sostituire un numero considerevole di persone con dei robot, tra vent’anni sarà difficile riuscire a mantenere l’attuale livello di capacità belliche”, spiega alla Reuters l’ex vice-ministro della Difesa Akihisa Nagashima, “e allora la situazione per il Giappone non sarà più pacifica.”

Con il miglioramento dell’economia giapponese, la disoccupazione è scesa ai minimi da circa 25 anni e il numero degli iscritti all’università è aumentato. Certamente un bene secondo molti punti di vista ma non per le sue capacità difensive. Nonostante fosse stato stanziato un budget sufficiente a retribuire complessivamente 247.154 dipendenti (quanto contavano le forze di autodifesa nel 2016), nel 2018 l’esercito ha impiegato solo 226.789 persone. Con il margine più ridotto registrato tra i ranghi inferiori, circa il 26% in meno di quanto preventivato. Che fare?

Considerata l’incostituzionalità della coscrizione obbligatoria, rimangono aperte due strade: reclutare più donne e innalzare l’età massima per le nuove leve, che dal mese prossimo sarà portata a 32 anni. Un’Iniziativa sul Potenziamento del personale femminile, presentata lo scorso anno, mira a aumentare le “quote rosa” nelle SDF dal 6,1% del 2016 ad almeno un 9% del 2030. Numeri – ugualmente molto al di sotto rispetto a Stati Uniti (15%) e Gran Bretagna (10%) – che difficilmente faranno la differenza, soprattutto data l’usuale limitazione delle donne a impieghi per i quali non è previsto l’utilizzo delle armi.

La verità è che, sebbene il 90% della popolazione provi simpatia per l’operosità dell’esercito nelle situazioni di crisi – tifoni e terremoti non mancano nell’arcipelago – il Giappone sconta ancora il trauma della seconda guerra mondiale e 70 anni di propaganda pacifista. Secondo un sondaggio di Kyodo News, solo il 36% della popolazione si è detto favorevole alla controversa revisione della costituzione pacifista con cui il premier Shinzo Abe nel 2020 punta a dotare il paese di un esercito “normale”, in grado anche di offendere e non solo di difendere.

[Pubblicato su Il Fatto quotidiano]

martedì 11 settembre 2018

La rivoluzione tecnologica costerà alla Cina milioni di posti di lavoro



La rivoluzione tecnologica intrapresa dalla Cina costerà alla seconda potenza mondiale tra i 40 e i 50 milioni di posti di lavoro a tempo pieno nei prossimi quindici anni. Lo rivela un recente rapporto realizzato congiuntamente dal think tank governativo China Development Research Foundation (CDRF) e Sequoia Capital China sulla base dei dati raccolti dal McKinsey Global Institute. Secondo lo studio, entro il 2030, l’automazione – innescata da un più pervasivo impiego dell’intelligenza artificiale (AI) – sostituirà un quinto delle posizioni nell’industria manifatturiera. Quasi 100 milioni di lavoratori saranno costretti a cambiare professione nel caso in cui il processo di conversione alle macchine dovesse procedere a un passo più sostenuto.

Spinto dagli aumenti salariali e dal rapido invecchiamento della popolazione, quattro anni fa il governo di Pechino ha cominciato a investire massicciamente nella robotica. Tanto che, secondo l’International Federation of Robotics (IFR), dal 2016 l’ex Celeste Impero detiene il primato per numero di robot industriali, sebbene la densità sia al di sotto della media mondiale: 68 unità ogni 10mila lavoratori (dati del 2016). Le cifre macinate dall’AI non sono da meno. Se si danno per buone le statistiche tratte dal “China’s AI Development Report 2018” della Tsinghua University, oltre la Muraglia il settore vale ormai oltre 3,5 miliardi di dollari, contando per più del 15% del totale mondiale, ed è teso a superare i 22 miliardi entro il 2020 grazie a un tasso di crescita annuo del 65%, superiore alla media globale del 60%.

Robotica, automazione e intelligenza artificiale, sono i tre pilastri su cui poggia il controverso progetto “Made in China 2025” mirato a rilanciare l’industria cinese – tradizionalmente low cost – verso i segmenti più alti delle catene di produzione mondiali. Considerato da molti paravento per il saccheggio di tecnologia estera, il piano sembra tuttavia essere all’origine di grattacapi non solo per le relazioni tra Pechino e i competitor occidentali.

Negli ultimi tre anni, l’automazione ha già portato a un taglio della forza lavoro del 30–40% nel Zhejiang, Jiangsu e Guangdong, le province che negli ultimi quarant’anni di riforme economiche hanno trainato la locomotiva cinese. Stando al rapporto della CDRF, nell’ultimo decennio il gigante del beverage Wahaha con base ad Hangzhou ha ridotto tra i 200 e i 300 posti sulla catena di montaggio. Le ultime proiezioni sembrano andare oltre, arrivando a minacciare anche le mansioni ripetitive dei colletti bianchi: entro il 2027, mentre il settore finanziario cinese impiegherà 9,93 milioni di persone, l’automazione porterà una sforbiciata del 22% dei posti di lavoro in banca, del 25% nel mercato assicurativo e del 16% nel mercato dei capitali. Al contempo, le ore di lavoro per il personale fisico subiranno una riduzione del 27%.

Lo sviluppo di nuove tecnologie, unitamente allo sfoltimento della manodopera nei comparti affetti da sovrapproduzione – come acciaio e carbone -, costituisce un mix preoccupante per il ministero delle Risorse umane, che chiarisce: l’aumento della disoccupazione strutturale è il risultato dello squilibrio tra la fornitura di lavoratori poco qualificati e istruiti, e lo spostamento della domanda verso forza lavoro più qualificata.

Nonostante i progressi compiuti negli ultimi trent’anni, il paese presenta ancora una notevole diseguaglianza regionale per quanto concerne il reddito e la qualità dell’istruzione. Secondo l’Accademia delle Scienze sociali, un lavoratore migrante sotto i trent’anni compie un percorso scolastico di appena 9,8 anni, senza finire la scuola superiore. Sottolineando i limiti del sistema, proprio di recente Huang Qifan, vicepresidente del Financial and Economic Affairs Committee, ha sottolineato come la manodopera mobile non abbia accesso ai programmi statali di formazione professionale, di cui godono invece i residenti regolarmente registrati. Investire nel capitale umano è una priorità per creare lavoro nell’era dell’AI, conferma lo studio.

“L’intelligenza artificiale libererà enormemente l’umanità dalle professioni ripetitive e aiuterà a coltivare menti creative”, spiega al China Daily Neil Shen, fondatore e managing partner di Sequoia Capital China. “Questo significa che il lavoro passerà dall’essere incentrato sull’azione all’innovazione: più talenti dedicheranno il loro tempo alla scoperta scientifica e all’innovazione tecnologica, destinando i loro sforzi all’arricchimento del mondo.”

[Pubblicato su il Fatto quotidiano online]

La Marina di Pechino supera quella Usa, almeno nei numeri



Per secoli la Cina è stata una potenza continentale, agricola e con il suo centro politico ben radicato a nord. Almeno fatta eccezione per il trentennio tra il 1405 e il 1433, durante il quale la dinastia Ming finanziò sette spedizioni navali verso paesi remoti guidate dall’ammiraglio musulmano Zheng He.

Da alcuni decenni riproposta all’attenzione popolare dagli storici, oggi l’immagine del condottiero dei mari ha raggiunto persino il Ningxia, la regione autonoma islamica a 1200 chilometri dal mare, dove Pechino sta costruendo un imponente centro di cultura dedicato alla minoranza Hui, l’etnia musulmana cinese nata dalla commistione tra la popolazione autoctona e i commercianti arabi in arrivo dal Medio Oriente. Trasformata in simbolico punto di incontro tra il corridoio terrestre e quello marittimo del progetto Nuova Via della Seta (aka Belt and Road), questa remota provincia della Repubblica popolare ci ricorda come quel breve interludio marino sia più che mai vivo nell’immaginario della Cina e della sua leadership.

Negli ultimi anni, la necessità di difendere i propri interessi economici e geopolitici nonché la propria sovranità dalle mire dei vicini rivieraschi ha spinto il gigante asiatico a ricalibrare la propria potenza di fuoco in favore della marina. E’ un processo cominciato nel 2000 e velocizzato dalla nomina di Xi Jinping a presidente, segretario del Partito comunista e capo della Commissione militare centrale, l’organo che sovrintendere alle forze armate cinesi. Con lo scopo di sfoltire e ottimizzare le forze a disposizione, nel 2015 la più grande riforma militare degli ultimi decenni ha posto l’accento sulla necessità di ridurre l’esercito più numeroso al mondo – ma impigrito dalla prolungata assenza dal campo di battaglia – di 300mila unità, fino a quota 2 milioni. Al medesimo obiettivo ha concorso un’agguerrita campagna anticorruzione tra i ranghi più alti, accompagnata da un rafforzamento della marina e delle forze missilistiche per troppo tempo trascurate a vantaggio delle forze terrestri. Secondo il rapporto presentato lo scorso ottobre durante il Diciannovesimo Congresso del Partito, questo dovrebbe bastare a rendere l’esercito cinese una “potenza moderna” entro il 2035 e una “forza di livello mondiale” allo scoccare del 2050.

Sottolineando le priorità in agenda, lo scorso aprile il presidente Xi ha sentenziato che “la necessità di costruire una marina potente non è mai stata così impellente come oggi”. I numeri sembrano confermare l’impegno. Soltanto negli ultimi dieci anni la Marina dell’Esercito Popolare di Liberazione ha costruito oltre 100 nuovi sottomarini e navi da guerra, più di quanto possiedano le flotte della maggior parte dei paesi del mondo. Domenica scorsa, la seconda portaerei cinese – la prima interamente Made in China – ha lasciato la città portuale di Dalian alla volta del Mar Giallo per la sua seconda e ultima navigazione di prova, appena due giorni dopo la messa in mare del cacciatorpediniere Type 055, il più potente della regione, destinato a scortare la nuova nave da guerra una volta operativa. Accidentalmente, all’inizio dell’estete, un’immagine catturata negli uffici della China Shipbuilding Industry Corporation ha confermato l’esistenza di una terza portaerei in costruzione in un cantiere di Shanghai dal 2017.

Con 11 portaerei in servizio, nemmeno Washington è in grado di tenere testa alle ambizioni marine di Pechino. Lo scorso anno il gigante asiatico ha superato gli Stati Uniti per numero di sottomarini e navi da guerra (317 contro 283) e, per stessa ammissione del nuovo comandante del US Indo-Pacific Command Philip Davidson, “la Cina è ora in grado di controllare il Mar Cinese Meridionale in tutti gli scenari di una guerra con gli Stati Uniti”. Proprio quest’anno la seconda potenza mondiale ha istallato sulle isole Spratly missili da crociera antinave Yj-12B capaci di minacciare Filippine e Vietnam, due delle nazioni con cui la Cina ha in sospeso dispute territoriali. Ennesimo potenziamento dei propri asset A2 / AD (anti-accesso/area di diniego) – razzi, satelliti e radar-, che dal 2015 vantano i “missili killer” DF-26 impossibili da intercettare e in grado di raggiungere la base americana di Guam, per stessa ammissione del Pentagono. Tanto che, per Davidson, ormai il gigante asiatico è un “competitor alla pari” se si considerano le capacità sviluppate per far fronte a una “guerra asimmetrica”.

Questo sembra complicare non poco la tutela degli interessi strategici americani nella regione e non solo. Quest’estate, per punire l’attivismo negli arcipelaghi contesi, Washington ha bandito la Cina dal Rimpac, le più massicce esercitazioni navali al mondo. Con intenti che Washington ritiene provocatori, negli ultimi tempi le incursioni di Pechino intorno a Taiwan e alle isole nipponiche Ryukyu si sono fatte più frequenti, spingendo le mire cinesi in tratti di mare anche più remoti con scopi dichiaratamente autodifensivi, umanitari e logistici. Ne è esempio la base di Gibuti, nel Corno d’Africa, dove gli States hanno il loro unico avamposto militare permanente nel continente.

Sebbene molto dell’hardware in mani cinesi abbia origini sovietiche (vedi la prima portaerei Liaoning), negli ultimi anni – legalmente e illegalmente – Pechino ha assorbito e rielaborato tecnologia d’importazione grazie a un budget militare in continua crescita. Con 228 miliardi di dollari stanziati, la Cina è seconda soltanto agli States (610 miliardi), sebbene la percentuale destinata alla Difesa rispetto alla spesa pubblica complessiva sia progressivamente diminuita.

Secondo esperti citati dal New York Times, ormai non serve più che la marina cinese ottenga capacità belliche in grado realmente di sconfiggere gli States. Basta che il suo attivismo nel Pacifico renda un intervento americano troppo costoso per essere preso in considerazione.

[Pubblicato sul Il Fatto quotidiano online]

sabato 8 settembre 2018

La roadmap di Singapore è appesa alla parata di Pyongyang



Quando Moon Jae-in e Kim Jong-un si incontreranno a Pyongyang per il loro terzo faccia a faccia il 18 settembre, sull’altra sponda del Pacifico le parole e i gesti dei due leader saranno oggetto di minuziose analisi. A meno di tre mesi dal vertice di Singapore, lo stallo nell’implementazione dei quattro punti contenuti nel Sentosa Agreement rischia di sfaldare nuovamente lo scricchiolante fronte unito messo in piedi da Washington con l’intento primario di spingere la Corea del Nord ad abbandonare l’atomica.

Ancora inebriato dai riflettori, a giugno il presidente americano aveva salutato l’esito del summit come la fine della minaccia nucleare nordcoreana, una posizione mantenuta in barba alle critiche internazionali fino alla fine dello scorso mese, quando – giustificando l’improvvisa cancellazione della quarta visita del segretario di Stato Mike Pompeo a Pyongyang – ha mestamente cinguettato: “sul versante denuclearizzazione non stiamo facendo progressi sufficienti”.

Il brusco ritorno alla realtà segue mesi di dubbi e indiscrezioni sulla tenuta dell’intesa siglata dai due leader. Alcuni giorni fa, in uno dei suoi rapporti più completi sulla questione, l’International Atomic Energy Agency ha ribadito l’esistenza di prove evidenti sulla continuazione dei lavori di ampliamento e arricchimento dell’uranio presso il sito di Yongbyon. Ultima conferma delle attività occulte già messe a nudo da una corposa raccolta di rilevamenti satellitari pubblicati nei mesi trascorsi da autorevoli istituti internazionali di ricerca.

In difesa della “diplomazia paziente” intessuta da Washington, a luglio Pompeo aveva definito le negoziazioni con Pyongyang “produttive” – citando lo smantellamento della stazione missilistica di Sohae – salvo poi ammettere la mancata interruzione della produzione di materiale fissile per la realizzazione di nuovi ordigni. “La diplomazia e l’impegno sono preferibili al conflitto e all’ostilità”, aveva dichiarato il capo della politica estera americana, rispondendo alle critiche di quanti continuano a definire lo storico meeting tra Kim e Trump un inutile “reality TV summit” al servizio della propaganda trumpiana.

Nel tentativo di sbloccare l’impasse, il Dipartimento di Stato americano ha provveduto recentemente a introdurre figure ad hoc, come Stephen Biegun, ex capo degli affari internazionali di Ford, nominato inviato speciale per la Corea del Nord. Una mossa che non è bastata ad azzittire le indiscrezioni sulla sostanziale assenza di un’interpretazione unanime del termine “denuclearizzazione”, che stando a Washington dovrebbe includere la consegna del 60-70% delle testate entro sei sette mesi, oltre a una lista dei siti e delle armi nucleare. La roadmap da seguire sembra costituire un ulteriore elemento di disaccordo tra le due leadership. In particolare è la successione cronologica dei punti 2 (“costruzione di una pace stabile e duratura”) e 3 (“impegno a lavorare per una denuclearizzazione completa”) della dichiarazione congiunta a costituire il vero pomo della discordia.

Secondo un’esclusiva di Vox, in quel di Singapore, lontano dai flash, The Donald avrebbe promesso a Kim l’imminente firma di un accordo di pace. Un documento non vincolante ma con una valenza simbolica fondamentale per il giovane leader, chiamato a giustificare davanti al popolo e all’esercito nordcoreano la rinuncia al prezioso arsenale in cambio di garanzie fumose – solo pochi giorni fa il Pentagono ha ventilato la ripresa delle esercitazioni congiunte con Seul, sospese in dimostrazione di “buona fede” dopo il vertice del 12 giugno. Nonostante la parola data, tuttavia, Washington non ha ammorbidito la propria ostinazione nell’anteporre la denuclearizzazione a qualsiasi concessione, dall’allentamento delle sanzioni a una dichiarazione formale atta a sostituire l’armistizio che nel 1953 ha posto fine agli scontri ma non alla guerra. Un passo che renderebbe superflua la presenza militare statunitense nella penisola.

Secondo la CNN, la decisione di annullare il viaggio di Pompeo al Nord sarebbe stata determinata proprio dalla consegna di una lettera in cui il regime di Pyongyang minacciava nuove provocazioni missilistiche e nucleari nel caso in cui la controparte americana non avesse “soddisfatto le aspettative riguardo alla firma di un trattato di pace”. Insomma, per il Nord, dopo la distruzione del principale sito nucleare, il rilascio dei prigionieri americani e la consegna delle spoglie dei caduti in guerra, Washington si starebbe ostinando a eludere la concessione di “misure corrispondenti”. E a pensarlo non è solo Pyongyang.

L’improduttività dei negoziati sta allontanando nuovamente gli altri interlocutori asiatici – compresi gli alleati storici – mossi da agende politiche ed economiche divergenti. Il 15 agosto, nel Giorno della Liberazione nazionale dal Giappone, il presidente sudcoreano Moon, annunciando il suo terzo meeting con Kim, ha affermato che l’incontro sancirà “un passo audace verso la dichiarazione della fine della guerra di Corea e la firma di un trattato di pace “. Condizione necessaria alla finalizzazione di un piano d’investimenti – già parzialmente bloccato da Washington – che prevede, tra gli altri, la creazione di zone economiche speciali congiunte e ferrovie attraverso il 38esimo parallelo. E se Seul fa il suo gioco Tokyo non è da meno. Di pochi giorni fa la notizia di un incontro segreto a luglio tra l’intelligence giapponese e quella nordcoreana in Vietnam, chiaro segno della scarsa fiducia riposta da Tokyo nella possibilità di ottenere l’aiuto americano a tutela degli interessi nazionali, soprattutto in riferimento all’annosa questione dei cittadini giapponesi rapiti alla fine degli anni ’70.

Difficilmente gli Stati Uniti troveranno una sponda più solida in Pechino, fin dall’inizio fautore di una sospensione delle sanzioni. In tempi recenti Trump ha sparato nuove bordate contro la Cina, accusata di strumentalizzare il suo ascendete economico su Pyongyang in ritorsione alle misure tariffarie adottate nell’ambito della guerra commerciale in corso tra le due sponde del Pacifico. E’ forse per smarcarsi da tali insinuazioni che, smentendo le indiscrezioni della stampa, domenica il presidente Xi Jinping si asterrà dal visitare la Corea del Nord per il 70esimo anniversario della fondazione della Repubblica popolare democratica, mandando in sua vece il numero tre del Partito, Li Zhanshu, il funzionario cinese di rango più elevato a mettere piede a Nord dal 2012. Segno che, dopo anni di gelo, i rapporti tra i due paesi stanno vivendo un processo di distensione, ma meno rapido di quanto pensi la Casa Bianca.

Ora tutti gli occhi sono puntati sulla parata per il genetliaco del regime nordcoreano. Dopo mesi di escursioni bucoliche e visite in fabbrica, chissà che Kim non decida di tornare ai vecchi e provocatori messaggi subliminali. Come la sfilata di missili balistici intercontinentali in grado di colpire gli Stati Uniti.

[Pubblicato su il manifesto]

Hukou e controllo sociale

Quando nel 2012 mi trasferii a Pechino per lavoro, il più apprezzabile tra i tanti privilegi di expat non era quello di avere l’ufficio ad...