mercoledì 28 novembre 2018

Hukou e controllo sociale



Quando nel 2012 mi trasferii a Pechino per lavoro, il più apprezzabile tra i tanti privilegi di expat non era quello di avere l’ufficio ad appena venti minuti di cammino quanto piuttosto quello di vivere in un compound munito di “minimarket” aperto h24 con ogni genere di confort cinese: acqua minerale, sturalavandini e stuzzichini per la fame tossica al ritorno dai bagordi del sabato sera. Anche di notte la luce sempre accesa, solo più tenue, invogliava a entrare. E allora dovevi intrufolarti silenziosamente per non svegliare Li, il giovane negoziante steso a terra tra gli scaffali dei noodles liofilizzati e quello dei biscotti, mentre la suocera gestiva la cassa e la moglie dormiva abbracciata al figlio di pochi mesi in una stanza attigua: la loro casa. Poco più di un letto, una tv e un fornello su cui ribollivano costantemente pentoloni fumanti.

Incuranti delle condizioni di vita spartane, dicevano di voler restare lì fino a quando il bambino non avesse raggiunto l’età scolare: poi i costi dell’istruzione sarebbero stati insostenibili per una famiglia di mingong (migranti) come loro.

A complicare la vita di Li e degli oltre 260 milioni di lavoratori itineranti cinesi è l’hukou, il sistema di registrazione famigliare che classifica ogni individuo, fin dalla nascita, sulla base di una serie di parametri – tra cui provenienza (rurale o urbana), indirizzo, professione, etnia e religione – ancorandone l’accesso ai servizi essenziali al luogo d’origine. Ed è ereditario. Vuol dire che per poter iscrivere il figlio ad una scuola pubblica Li sarà costretto a tornare nel villaggio del Sichuan da cui proviene, o in alternativa a pagare la retta per un mediocre istituto privato di Pechino.

Introdotto all’epoca degli Stati Combattenti (III sec. a.C.), inizialmente il sistema serviva a rubricare famiglie e clan per facilitare l’imposizione fiscale, la coscrizione e il mantenimento della stabilità sociale. E’ soltanto nel 1958 che l’hukou “diventa specificatamente uno strumento per controllare lo spostamento delle persone tra le città e le campagne”, Ci spiega Wang Fei-ling professore della University of Pennsylvania nonché autore del primo studio completo sul tema (Organizing Through Division and Exclusion: China’s Hukou System, Stanford University Press, 2005), “la dicotomia città-campagna è sempre esistita ma ha assunto una certa rigidità con la fondazione della Repubblica popolare (1949)”. Da quel momento in poi l’hukou è diventato uno strumento al servizio dell’economia pianificata nella distribuzione delle risorse e nella protezione delle attività economiche ad alta intensità di capitale.

Grazie all’apartheid, i contadini sarebbero dovuti restare nei campi per assicurare costanti approvvigionamenti alimentari agli operai impiegati nelle fabbriche urbane; manodopera a basso costo ma ricompensata con la cosiddetta “ciotola di ferro”, un pacchetto di benefit (istruzione gratuita, assistenza sanitaria, pensioni, una casa) assicurato dall’impiego statale. Così è stato durante il Grande balzo in avanti (’58-’62), quando le campagne – collettivizzate – continuarono a nutrire le città in base a stime sulla produzione gonfiate. Circa 30 milioni di cinesi persero la vita a causa della carestia, di cui il 95% in possesso di un hukou rurale.

Il sistema ha cominciato ad evidenziare le prime profonde crepe in concomitanza con gli esperimenti capitalistici anni ’80. La necessità di sostenere l’incessante richiesta di forza lavoro nel settore delle costruzioni e in quello industriale spinse milioni di persone a fluttuare dalle campagne alle città alla ricerca di migliori opportunità. Così, nel 2003, Pechino ha sospeso la pratica di sfratto forzato contro i mingong non regolarmente registrati, permettendo loro di lavorare legalmente nelle città ma continuando a privarli del welfare assicurato ai loro concittadini urbani. Risultato: se da una parte la migrazione giovanile dalle zone rurali alle città ha ridotto il tasso di disoccupazione nelle campagne permettendo ai lavoratori di accumulare capitale da reinvestire nei luoghi d’origine, dall’altra, le ripercussioni discriminatorie dell’hukou hanno causato fratture sociali e distorsioni sistemiche.

Mentre i migranti costruivano il “miracolo cinese” assemblando smartphone, tirando su palazzi o smistando rifiuti, l’attuale classe media accumulava benessere grazie al processo di privatizzazione del mercato immobiliare anni ’90, quando le aziende di Stato cominciarono a svendere ai propri dipendenti urbani le abitazioni in cui vivevano in affitto. Proprio il mattone – secondo un recente rapporto dell’Economist Intelligence Unit – è il principale catalizzatore dell’ineguaglianza sociale che vede la Cina posizionarsi a quota 3 su una scala in cui l’1 indica una situazione di pieno equilibrio nella distribuzione degli asset (Global Wealth Report). Lo stipendio medio di un mingong (2.290 yuan) continua ad essere nettamente inferiore rispetto a quello dei lavoratori urbani (3.987 yuan), con un tasso di risparmio del 50% (rispetto al 30% dei cittadini in senso stretto) motivato dalla necessità di far fronte di tasca propria alle spese per tutti quei servizi di base da cui gli inurbati sono esclusi. Un trend che va contro il nuovo paradigma di crescita trainato dai consumi interni con cui Pechino vuole sostituire il vecchio modello “export/investment-driven” non più funzionale alla luce delle nuove dinamiche globali. In questo futuro all’insegna di una crescita sostenibile saranno le città di seconda, terza e quarta fascia a diventare il centro nevralgico del Paese. Non più le megalopoli ipertrofiche esplose negli ultimi anni.

Solo nel 2011 la popolazione urbana cinese ha superato quella rurale, un processo che la leadership comunista punta ad accelerare arrivando a rilocalizzare il 60% degli abitanti (compresi 100 milioni di mingong) nelle città entro il 2020. Gli esperti stimano che una spinta urbanizzatrice dell’1% l’anno regalerebbe tassi di crescita attorno all’8% nel prossimo ventennio, mentre una forza lavoro destinata a mansioni agricole di base nelle campagne – dove gli appezzamenti sono generalmente molto piccoli e la terra non può essere assegnata secondo meccanismi di mercato né convertita ad altri usi – sottrae produttività alla Nazione. D’altronde, proprio la prospettiva di perdere il controllo sul principale asset a propria disposizione, la terra, in cambio di un futuro incerto lontano da casa, continua a scoraggiare la popolazione rurale dal lasciare le campagne – dove la sovraoccupazione si aggira ancora attorno al 6,3%.

La coincidenza temporale tra la ripresa del dibattito sull’hukou e la formulazione del Tredicesimo Piano Quinquennale (2016-2020) – che ha per missione il raggiungimento di una “società moderatamente prospera” – è tutt’altro che casuale. Tre anni fa, il Consiglio di Stato ha introdotto una roadmap per l’istituzione di un sistema di registrazione unificato, sia per i cittadini rurali sia per quelli urbani, potenzialmente in grado di assicurare a tutti lo stesso accesso ai servizi sociali e aumentare il potere di spesa dei mingong. Ciò vuol dire che la distinzione tra hukou rurale e cittadino si estinguerà a favore di una serie di criteri di accesso generici in base alla località di arrivo: lavoro e una residenza stabili, il pagamento dei contributi per l’assicurazione sociale e il tempo che una persona ha trascorso nella città in questione. Gli spostamenti verranno incoraggiati verso le piccole città laddove i centri con popolazione superiore ai 5 milioni (e servizi migliori) continueranno ad alzare nuove barriere. E’ un sistema che lascia ampia discrezionalità ai governi locali, liberi di allentare o inasprire i criteri di insediamento in accordo alla disponibilità delle risorse locali.

“E’ dagli anni ’90 che si cerca di ammorbidire il sistema ma il controllo viene ancora largamente esercitato”, spiega Wang alludendo a una serie di riforme lanciate a partire dal 1997: dall’hukou “a punti” di Shanghai e Guangzhou a varie forme sperimentali di commercializzazione. Ma, secondo l’esperto, nessuna riforma andrà mai a segno in assenza di una revisione del regime dei diritti di proprietà. Come promesso nel nuovo piano quinquennale, è necessario che sia il mercato a governare l’allocazione delle risorse e di conseguenza la direzione intrapresa dai flussi migratori. “Le grandi città oggi sono tali perché il governo ha deciso che lo diventassero attraverso politiche mirate”, spiega Wang, che evidenzia un altro inaspettato ostacolo alla liberalizzazione del sistema: nessun cittadino urbano “di prima classe” muore dalla voglia di dividere i propri privilegi con un’umanità considerata inferiore e tradizionalmente vilipesa.

Quanto avverrà in futuro sarà probabilmente un gioco di “cosmesi”, in cui nuovi ritocchi non cambieranno la sostanza. E non solo per non scontentare l’elite cittadina. “Il governo cinese vuole rilassare il sistema per ottenere una buona crescita economica, ma allo stesso tempo ne vuole conservare le funzionalità politiche di controllo sociale” attive fin dall’epoca imperiale, conclude Wang. Da quando alla fine degli anni ’80 il database nazionale degli hukou è stato digitalizzato, il ministero della Sicurezza pubblica, i suoi uffici a livello locale e le stazioni di polizia – che lo amministrano – ne hanno sfruttato le potenzialità occulte per mantenere il controllo sugli “elementi target” (zhongdian renkou): criminali, dissidenti fino ai “terroristi” che si annidano nella regione musulmana dello Xinjiang. Per lo studioso, “il perseguimento dell’unità politica” è ciò che terrà veramente in vita l’hukou.

Stando alla stampa statale, grazie alla costante ricerca di nuove soluzioni, negli ultimi sei anni il numero dei migranti in arrivo nelle città ha mantenuto una traiettoria discendente dal +3,4% del 2011 al +0,3% del 2016. Ma più che la riforma dell’hukou, pare siano le nuove contingenze economiche (a partire dalla saturazione del settore impiegatizio nelle metropoli) a dettare un ritorno alle piccole e medie realtà urbane. Insomma, il mercato.

Dalla Cina i primi esseri umani geneticamente modificati



La Cina è riuscita a creare i primi esseri umani geneticamente modificati. È quanto sostenuto da He Jiankui, un ricercatore cinese con formazione americana oggi affiliato alla Southern University of Science and Technology di Shenzhen, alla vigilia di una conferenza sull’editing genetico in programma per martedì 27 novembre a Hong Kong.

Secondo quanto racconta lo scienziato in un video pubblicato su Youtube (vedi immagine), le gemelle “Lulu” e “Nana” sono nate alcune settimane fa nell’ambito della sperimentazione sull’alterazione degli embrioni a cui sono state sottoposte sette coppie durante regolari trattamenti di fertilità. L’obiettivo conclamato dell’esperimento non è curare o prevenire malattie ereditarie, quanto piuttosto sviluppare una resistenza alle possibili future infezioni come l’HIV. Infatti, mentre in tutte le coppie coinvolte l’uomo risultava positivo al virus dell’AIDS, la trasmissibilità della malattia si sarebbe potuta evitare con metodi molto meno complessi dell’editing genetico.

Come precisa He, lo scopo dell’esperimento è quindi quello di “offrire alle coppie affette da HIV la possibilità di avere un bambino che possa essere protetto dal loro stesso destino.” Come? Modificandone il DNA attraverso la tecnologia di editing genomico CRISPR-Cas9, così da disabilitare il gene CCR5 che compone le proteine che permettono al virus dell’HIV di penetrare nelle cellule. L’operazione chirurgica viene effettuata da un embriologo subito dopo l’inserimento dello sperma nell’ovulo, prima che questo venga impiantato nell’utero.

L’università prende le distanze – L’annuncio, in attesa di ricevere conferme indipendenti, ha già suscitato non poche polemiche. Stando alla MIT Technology Review – la rivista che per prima ha riportato la notizia domenica scorsa – “la nuova tecnologia ha implicazioni etiche perché le modifiche di un embrione possono essere ereditate dalle generazioni future, finendo per interessare l’intero pool genetico“, l’insieme di tutti gli alleli dell’intero set di geni appartenenti a tutti gli individui che compongono una popolazione in un determinato momento. Ben 122 scienziati cinesi hanno sottoscritto un comunicato di condanna, mentre la Southern University of Science and Technology ha preso le distanze dichiarandosi ignara di quanto sperimentato dal ricercatore. In un’intervista esclusiva ad AP, He afferma di sentire “una forte responsabilità non solo per essere stato il primo, ma anche per aver fornito un esempio per gli sviluppi futuri della scienza”. “Sarà la società a decidere cosa fare in seguito”, afferma.

I dubbi degli scienziati – A impensierire gli esperti è anche la metodologia impiegata. Per Nicholas Evans, assistente di filosofia presso la University of Massachusetts Lowell, “annunciare il test attraverso un video su YouTube è una pratica scientifica molto problematica, in quanto esclude processi di controllo come la revisione paritaria”, ovvero la procedura di selezione degli articoli o dei progetti di ricerca proposti dai membri della comunità scientifica effettuata attraverso una valutazione di specialisti del settore che ne verificano l’idoneità alla pubblicazione scientifica.

La tecnica e i possibili benefici – Bandito nel resto del mondo, negli Stati Uniti l’editing del DNA umano è stato fino ad oggi consentito solo nelle ricerche di laboratorio. In Cina tuttavia la tecnica è al vaglio da tempo, tanto che lo scorso settembre gli scienziati della Sun Yat-sen University hanno annunciato di aver impiegato l’editing genomico per correggere una mutazione degli embrioni umani all’origine della beta-talassemia, una malattia del sangue potenzialmente fatale. Nonostante le preoccupazioni diffuse, c’è anche chi riconosce i benefici della pratica. Secondo George Church, famoso genetista della Harvard University, l’utilizzo dell’editing genetico è “giustificabile” se finalizzato a combattere l’HIV, “una grave e crescente minaccia per la salute pubblica”. Stando ai dati ufficiali, nell’ultimo anno i casi di Aids e HIV oltre la Muraglia sono aumentati del 14%. Oggi sono più di 820mila le persone affette, con 40mila nuovi casi solo nel secondo trimestre del 2018.

[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]

martedì 6 novembre 2018

Il calo dei consumi fa traballare il patto sociale



“Siamo preparati al peggio”. Con queste parole il governatore della banca centrale cinese Yi Gang ha rassicurato i vertici di G20 e FMI riuniti a Bali sulla resilienza della seconda economia mondiale, trascinata da Trump in una guerra commerciale tutt’altro che passeggera e alle prese con nuovi smottamenti del mercato finanziario, la svalutazione del renminbi e “un iceberg del debito” (copyright S&P Global). Ma, affermando che “in Cina molti sono pronti alle prolungate incertezze,” Yi sembra dare voce a pochi ottimisti, ignorando le preoccupazioni nutrite da quella fetta di popolazione su cui la leadership cinese punta tutto per ribilanciare il proprio modello di crescita. “E’ finito il tempo del binomio investimenti-export, si passa a consumi e servizi,” aveva annunciato Pechino nel 2013, anticipando l’arrivo di riforme economiche.

Secondo i dati dell’agenzia di stampa statale Xinhua, lo scorso anno i consumi hanno contribuito al Pil nazionale per il 58%, mentre i servizi sono arrivati a contare per il 51,6%. Ma quei numeri, sbandierati fino a oggi a riprova della soddisfacente performance economica, rischiano di segnare una traiettoria decrescente ora che le frizioni commerciali con Washington – abbinate alle misure restrittive nei settori finanziario e immobiliare – cominciano a esercitare i loro effetti psicologici sulla pancia del paese prima ancora di intaccare l’economia reale.

Non è il rallentamento della crescita al 6,5% a preoccupare gli esperti.

Quest’anno durante la Golden Week, uno dei pochi periodi vacanzieri nella Repubblica popolare tradizionalmente dedicato allo shopping selvaggio, i consumi hanno toccato i minimi dal 2000, perdendo 10 miliardi di dollari rispetto all’anno scorso. La crescita delle vendite al dettaglio (barometro della spesa dei consumatori) è rallentata al livello più basso degli ultimi 15 anni, con segni di sofferenza anche nell’automotive, di cui la Cina è il primo mercato al mondo.

Secondo Li Shi, professore di economia presso l’Università Normale di Pechino, l’erosione dei consumi, sul lungo periodo, andrebbe imputata al calo del reddito delle famiglie – sceso al 50% del reddito nazionale complessivo dai circa due terzi del 2000 – a causa di un aumento più rapido delle entrate statali dovuto alla sostenuta imposizione fiscale; un punto che Pechino vorrebbe correggere con l’introduzione di sgravi fiscali e l’annuncio del primo taglio in sette anni delle tasse sul reddito. A ciò si aggiungono mutui e affitti, spese mediche, per l’istruzione dei figli e l’assistenza agli anziani.

A contribuire all’assottigliamento dei portafogli concorre la riduzione delle possibilità di investimento, minacciate dal recente crollo delle borse e dal rallentamento del real estate, settori che negli ultimi anni si sono alternati nel fornire un rifugio ai risparmi delle famiglie cinesi. Dall’inizio dell’anno a oggi, gli investitori hanno perso in media più di 100.000 yuan ciascuno dopo che il crollo registrato dai listini negli ultimi mesi ha bruciato 3 trilioni di dollari di capitalizzazione di mercato. Secondo la Xinhua, nel 2017 il 66% degli investitori ha chiuso l’anno in perdita. Il tutto proprio mentre il mattone – che conta per il 15% del Pil – comincia a perdere terreno dopo sei mesi di crescita continuativa sulla scia delle misure introdotte dal governo centrale in ottica di deleveraging. Un trend che spaventa tanto gli sviluppatori immobiliari quanto i proprietari che vedono polverizzarsi il valore delle loro abitazioni, spesso acquistate con scopi speculativi.

Per la leadership al potere in gioco c’è molto più della stabilità economica. A rischio è il patto implicito con cui all’indomani del massacro di Tian’anmen Pechino ha promesso alla popolazione benessere in cambio di lealtà politica. Segni di insofferenza tanto tra i piccoli investitori quanto tra i proprietari immobiliari evidenziano la posizione scomoda delle autorità, chiamate a intervenire come deus ex machina per riportare la situazione alla normalità. Negli scorsi giorni, la riduzione dei prezzi delle case a Shanghai, Xiamen e Guiyang è stata accolta da proteste violente e appelli “in lacrime e in ginocchio affinché il governo serva il popolo.”

Che la fiducia nei confronti di Pechino sia in discesa lo dimostra la premura con cui, negli ultimi anni, la classe media ha provveduto ad assicurarsi assets all’estero con l’obiettivo di ottenere permessi di residenza e un accesso a servizi migliori in paesi come Australia e Stati Uniti. Acquisti spericolati talvolta sfociati in frodi. In altre circostanze culminati in pesanti sanzioni a causa dei limiti imposti sull’esportazione di capitali. Alla fine di agosto la SAFE ha reso noti 23 casi, di cui cinque concernenti l’acquisizione di proprietà immobiliari, con multe fino a 1,45 milioni di yuan per l’impiego di “banche sotterranee”.

Chi è che sarebbe “pronto a tutto”?

[Pubblicato su il manifesto]

Hukou e controllo sociale

Quando nel 2012 mi trasferii a Pechino per lavoro, il più apprezzabile tra i tanti privilegi di expat non era quello di avere l’ufficio ad...