Hanno infangato l'immagine del Partito popolando il gossip cinese e adesso minacciano pericolosamente la stabilità del regime. L'oggetto dell'invettiva caustica di Liu Yuan, generale e figlio di Liu Shaoqi, l'ex presidente caduto in disgrazia all'epoca di Mao, sono i "principini"; gli eredi dei leader, cresciuti all'estero, spediti nei più prestigiosi atenei d'oltremare per ricevere una formazione al top e, oggi, tra gli 1,4 milioni di studenti cinesi residenti oltre la Muraglia dalla fine del 2011.
Pronunciate nel mese di febbraio, all'inizio del scandalo che ha coinvolto l'ex segretario di Chongqing Bo Xilai, le affermazioni incendiarie di Liu sono apparse come una chiara dichiarazione di guerra alla corruzione che serpeggia nei palazzi del potere. Anche a costo di puntare il dito contro i grandi nomi dell'amministrazione Hu Jintao-Wen Jiabao. E perché il monito venisse ascoltato, il generale ha fatto appello alla storia recente, agitando il fantasma della primavera araba che tanto spaventa Pechino. A decretare la rovina del dittatore libico Gheddafi -avverte il generale- è stato proprio il suo secondogenito Saif al-Islam; un riformatore traviato dai valori occidentali, ubriaco di democrazia ed educato in quelle stesse università straniere presso le quali oggi si trovano molti "principini". Un destino analogo attende il Partito comunista cinese qualora non sarà in grado di trovare un collante ideologico in grado di giustificare il monopolio del potere che esercita alla luce del sole. Perché l'errore del Rais non è stato il mancato raggiungimento delle riforme democratiche e dello stato di diritto, come molti credono. La sua rovina ha un nome: Saif.
Il discorso di Liu, filtrato attraverso un rapporto interno di Zhu Jidong, funzionario della propaganda, suona come l'ennesima bordata contro l'Ovest. "L'egemonica classe capitalista occidentale ha creato una serie di valori -democrazia, diritti umani, e libertà- che maschera come "valori universali" per fare il lavaggio del cervello ai cittadini cinesi, attraverso organizzazioni non governative, i media e i figli degli alti dirigenti" tuona Liu "è questa cospirazione dell'Occidente la causa principale della guerra ideologica che, attualmente, infuria in Cina e non la naturale evoluzione delle aspirazioni di una società sempre più prospera, pluralista e ben informata".
Ma Liu ne ha per tutti e nel mese di aprile ha messo nuovamente a rischio la propria carriera accusando, senza giri di parole, la corruzione, la disuguaglianza e l'ipocrisia del Partito e dell'Esercito, assediati dal clientelismo e da un "individualismo maligno".
Dalle parti di Zhongnanhai, il Cremlino cinese, gli ammonimenti dell'ambizioso generale non sono stati graditi, tanto che Liu ha terminato in anticipo la propria carriera politica con il ritiro della sua tessera di membro del Congresso. Lasciato fuori dalla lista dei circa 250 membri del presidium del Congresso pubblicata dall'agenzia di stampa statale Xinhua nella giornata di giovedì, Liu sconta, tra le altre cose, la sua vicinanza al silurato Bo Xilai e le inimicizie attiratesi in seguito alla destituzione di Gu Junshan, il suo vice al dipartimento di logistica, implicato in un giro di denaro sporco.
Ma Liu non è una voce fuori dal coro e la sua sparata giunge nell'anno del più grande terremoto politico dai tempi del massacro di Tian'anmen. L'aristocrazia "rossa" finisce sempre più spesso al centro di episodi imbarazzanti. Dall'ormai noto incidente della Ferrari, nel quale lo scorso marzo avrebbe perso la vita il figlio di uno dei protégé del presidente uscente Hu Jintao, Ling Jihua, alla vita dissoluta di Guagua, il rampollo di famiglia Bo, fino ad arrivare alle ricchezze nascoste del leader in pectore Xi Jinping e del premier Wen Jiabao, portate alla luce da una stampa estera sempre più occhiuta verso gli stravizi dei "timonieri" cinesi.
I figli di almeno otto dei nove membri dell'attuale Comitato permanete del Politburo, il vero gotha cinese, hanno studiato o lavorato per lungo tempo oltremare; quelli del quasi-premier Li Keqiang e Wen, si sono formati negli Stati Uniti. Il rampollo del numero tre, Winston Wen, dopo aver calcato i banchi della Northwestern University, ha fondato la società leader nel private-equity, New Horizon Capital, mentre il genero di Hu Jinato, Daniel Mao, ha studiato alla Stanford, lavorato nella Silicon Valley per poi divenire CEO del colosso dell'internet cinese Sina. Li Tong, la figlia del capo della propaganda Li Changchun, laureata alla University of New South Wales, in Australia, oggi ricopre una posizione di rilievo presso la Bank of China. E se -secondo fonti del business cinese- Zhou Bin, rampollo dello zar della Sicurezza Zhou Yongkang, avrebbe studiato in Canada, uno dei figli di Jia Qinglin, numero quattro del Partito, pare abbia vissuto in Australia, mentre sua nipote, Jasmine Li, ha frequentato la prestigiosa Stanford. Per concludere, Xi Mingze, figlia di Xi Jinping, studentessa niente meno che ad Harvard, ma, con un'attenuante: di lei si dice sia molto cauta nei rapporti con il mondo occidentale.
Insomma, la gioventù dorata del Regno di Mezzo guarda al di là della Muraglia. E casa Liu non fa eccezione. Oltre ad un ragazzo mentalmente disabile, infatti, il generale anti-corruzione ha una figlia laureata ad Harvard: Liu Ting, oggi alla presidenza dell'Asia Link Group, società di consulenza per le aziende straniere che vogliono accedere al mercato cinese. Nella seconda economia mondiale il legame perverso tra potere politico e business non risparmia nessuno, mentre l'Occidente, additato come nemico numero uno, esercita un fascino minaccioso sull'élite rossa. E pone gli alti funzionari davanti ad un dilemma spinoso: riuscire a conservare la propria purezza ideologica, pur continuando ad assicurare ai propri figli una vita ai massimi livelli, oggi sembra un obiettivo sempre più irraggiungibile.
(Fonti: Foreign Policy, China Digital Times, AgiChina24)
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