giovedì 26 dicembre 2013

La sparizione delle statue di Mao


225 statue commemorative in 122 città, distretti e contee. In piena Rivoluzione Culturale l'Università Tsinghua decise di far costruire una statua di Mao.  Fu l'inizio di un fenomeno che interessò tutto il paese. Poi nel 1977 la Rivoluzione Culturale terminò e molte di quelle statue furono gradualmente rimosse. Oggi è ancora possibile ammirarne alcune. A vent'anni di distanza, nel 1997, il fotografo Cheng Wenjun comincia un viaggio alla ricerca delle statue sopravvissute. [L'intera gallery è consultabile qui]

Ho sempre amato viaggiare. Quando frequentavo il liceo e non ero libero di fuggire via spesso
prendevo in mano una mappa per viaggiare con la mente. Dopo aver cominciato a lavorare, raggiunta l'indipendenza economica, le occasioni di viaggiare divennero molte. Ma, durante queste peregrinazioni, a contare non era tanto la destinazione, quanto piuttosto i meravigliosi paesaggi e i costumi locali che incrociavo sul mio cammino. Fino a quando, dopo due viaggi compiuti vent'anni fa, decisi di mettermi alla ricerca delle statue di Mao Zedong.

225 statue commemorative in 122 città, distretti e contee
Era l'estate del 1989. Il treno da Pechino impiegò quattro giorni e tre notti per raggiungere Turpan. A seguire, altri tre giorni di macchina fino a Kashgar. Era la prima volta che mi spingevo così lontano. Kashgar era nella mia mente un luogo remoto e quest'esperienza nuova mi elettrizzava, tanto che ancora ne conservo ogni ricordo. Nella Piazza del Popolo della città un'enorme statua di Mao mi colpì al cuore. Alta 20 metri, svettava verso l'alto in quel luogo di frontiera, distante ed esotico. Tutto ciò in un primo momento mi lasciò spaesato, poi capii che non importava la distanza o la differenza dei costumi. Anche se relegata al confine del paese, si trattava pur sempre di una città cinese.

Quando nel 1992 mi recai nella remota Sanya, trovai anche lì una statua di Mao. Per raggiungere le isole Xisha (conosciute anche come Paracel, ndt) dovetti alloggiare in una caserma che a sua volta aveva una statua di Mao alta oltre dieci metri. Lo stile con cui era stata realizzata possedeva la classica impronta dell'epoca per via del cappotto e della mano destra sollevata. Ma, mentre guardavo quella statua rivolta verso il Mar Cinese Meridionale, all'improvviso mi resi conto che quel Mao Zedong non aveva tanto l'aspetto di un leader, quanto piuttosto quello di una sentinella di frontiera.

Da quel momento in poi, che mi trovassi a Pechino o in qualsiasi altro posto, ogni volta che mi imbattevo in una statua di Mao pensavo inevitabilmente a quelle viste a Kashgar e a Sanya. Alla fine tutto questo mi fece sorgere diverse curiosità, e così nel 1997 mi misi in viaggio alla ricerca delle statue di Mao: camminavo, cercavo, guardavo, fotografavo, domandavo...

Fino a oggi sono già stato in 122 città, distretti e contee, e ho fotografato 225 statue. Tra queste più di 180 sono state erette prima del 1970, le restanti risalgono al periodo delle riforme e dell'apertura. Alcune delle statue da me immortalate sono state poi smantellate; alcune di quelle conservate oggi sono considerate un pezzo di storia. Altre sono state prima buttate giù e in seguito ricostruite. Ma tra tutte quelle sparse per il paese c'è ne è una che possiede più di ogni altra una storia veramente indimenticabile.

La Rivoluzione Culturale e la statua della Tsinghua che affascinò tutta la Cina
Negli anni Sessanta del Ventesimo secolo, quello delle statue del presidente Mao divenne un fenomeno di portata nazionale. In piedi con le mani dietro alla schiena o il braccio destro sollevato; con il berretto militare o con il cappello; con il cappotto o con la giacca a vento. Ognuna conservava tratti distintivi di quel periodo.

La prima statua di Mao è quella che fu eretta presso la Tsinghua dal Comitato Rivoluzionario, per volere dei docenti e degli studenti appartenenti alle Guardie Rosse. Il 24 giugno del 1966, per abbattere "i quattro vecchi" [i vecchi pensieri, la vecchia cultura, le vecchie consuetudini e le vecchie abitudini, ndt] le Guardie Rosse smantellarono la struttura che simboleggiava più di tutte l'Università, un'istituzione ormai ritenuta "feudale": il secondo cancello (Er Xiao Men).

Dopo aver buttato giù il cancello, Cheng Guoying, professore della facoltà di Architettura, propose di erigere una statua di Mao nell'area rimasta sgombera dopo le demolizioni. Il Comitato Rivoluzionario accettò. Il 15 settembre 1967 fu completata una statua ritraente Mao con il berretto militare e la mano destra alzata. La sua costruzione era stata filmata e fotografata dal gruppo responsabile che mostrò tutto il materiale alle unità di lavoro e a quanti erano venuti in visita da ogni parte della Cina. A partire da quel momento, in molte città e università, si cominciò a costruire statue del Grande Timoniere. Persino i villaggi rurali ne fecero alcune in piccolo.

Nell'Heilongjiang la storia delle statue di Mao realizzate sotto la Rivoluzione Culturale è imprescindibile da quella dell'industria pesante locale. Nello stabilimento della China First Heavy Industry di Fula'erji è ancora possibile vedere una statua in acciaio inossidabile che è stata realizzata fondendo 55 tonnellate di acciaio, e il cui peso finale è di 35. Un pezzo che non ha eguali nel resto del paese. A Jiamusi invece vi è una statua in lega di alluminio. Se alla base non ci fosse stata una solida industria e una tecnica matura, tutto questo non sarebbe potuto essere realizzato soltanto grazie all'entusiasmo rivoluzionario e alla grande devozione.

Nel 1977 la Rivoluzione Culturale giunse alla sua conclusione, lasciando il posto a un periodo di "riordino" dopo lo stato di caos degli anni precedenti. Il culto di Mao subì una battuta d'arresto con l'inizio di uno smantellamento sistematico delle statue, che risparmiò solo poche aree. A quel tempo la maggior parte degli studenti e dei professori della Tsinghua chiedeva la rimozione della statua di Mao e la ricostruzione del secondo cancello. Il 29 agosto 1987 le autorità scolastiche la abbatterono e iniziarono la ricostruzione dello storico Er Xiao Men.

Quelli delle statue di Mao sono numeri da record per la storia della scultura cinese. Le statue risalenti alla Rivoluzione Culturale, ancora in piedi, sono per la maggior parte opera degli scultori delle varie Accademie d'arte cinesi.

Le statue di Mao spariscono dal Guangdong
Ancora oggi è possibile ammirare le statue di Mao in molte città del paese. Lo Henan è una di quelle province in cui ne sono rimaste di più: Zhengzhou, Luoyang, Kaifeng, Xinxiang, Hebi e Shangqiu ne hanno tutte una. Anche nello Hubei ve ne sono molte. Tra quelle da me fotografate tre sono di Wuhan e altre tre di Huangshi. Eppure nella provincia del Guangdong sembra quasi non esserne sopravvissuta nessuna. Un costruttore di statue di Mao una volta scherzando disse: "Nel Guangdong le persone sono più realistiche, per questo lo sviluppo della provincia è il più rapido del paese. Tutto avviene prima".

Dato che molte delle statue da esterno erano state costruite in cemento, il principale modo per smantellarle fu semplicemente buttarle giù. Altre, invece, dopo essere state completamente rimosse sono state seppellite sotto terra. Con l'inarrestabile sviluppo del real estate, alcune di quelle statue sono poi state riportate alla luce; come nel caso di quella ritrovata il 15 luglio 2003 in un cantiere di Aijianbinjiang, a Harbin. Era rimasta sepolta 25 anni, fino a quando gli sviluppatori immobiliari non hanno cominciato a scavare nella vecchia area industriale riportandola in superficie. Poi la ripararono e dorarono. La statua fu disposta assieme ad alcuni materiali, antichi centinaia di anni, che erano stati conservati nel tempo: un'officina, comignoli, un serbatoio idrico a torre ecc... Ne è nata così una piazza cittadina che racchiude in sé elementi paesaggistici, della storia politica moderna e della civiltà industriale.

Tra le molte statue di Mao fotografate quella di cui conservo il ricordo più vivo è una che vidi a Lianzhushan, nella contea di Jiangmishan, provincia dello Heilongjiang. In realtà si trattava soltanto di un piedistallo ormai vuoto da vent'anni, ma che per altrettanti vent'anni aveva sorretto una statua di Mao Zedong. Il cemento scrostato lasciava intravedere sotto dei mattoni rossi sbeccati. Esposto per un quarantennio al vento e alla pioggia, quel piedistallo non è mai stato demolito dagli abitanti del posto, e tutt'oggi si trova ad un incrocio stradale, davanti all'ex fabbrica di armi 475. La gente del posto più attempata è solita riferirsi a quell'incrocio chiamandolo ancora "la statua di Mao Zedong".

(Pubblicato su China Files)

martedì 24 dicembre 2013

Donne, religione e società civile nella Nuova Cina


(Scritto per Uno sguardo al femminile di gennaio)

Un trentennio di arricchimento glorioso ha portato la Cina sul podio delle potenze mondiali lasciandola affetta da gravi distorsioni sociali e da un vuoto ideologico allarmante. Oggi questo vuoto induce qualcuno a guarda con rimpianto ai tempi controversi in cui il socialismo "puro" di Mao, basato sull'egualitarismo, aveva gettato le basi per la crescita economica firmata Deng Xiaoping, pur passando alla storia per la Grande carestia che ha falcidiato la popolazione, seguita a ruota dal periodo buio della Rivoluzione Culturale.

Allo stesso modo, in tempi di smarrimento morale, la religione potrebbe fare da stella polare, venendo parzialmente riabilitata dopo oltre cinquant'anni di laicismo ortodosso. Fatti fuori i "quattro vecchi" (vecchi pensieri, vecchia cultura, vecchie consuetudini e vecchie abitudini) la Nuova Cina, inaugurata dal Grande Timoniere, è stata costruita sui pilastri del razionalismo scientifico e di un progresso secolare che ha bollato i vecchi culti come "valori feudali".

Il rigoroso ateismo del padre della patria ha continuato a godere di una certa fortuna sotto i suoi successori. E nonostante l'articolo 36 della Costituzione cinese tuteli la libertà di religione, negli ultimi anni l'ossessione dei leader cinesi per l'armonia sociale e la stabilità a tutti i costi si è tradotta in una stretta repressiva ai danni dei gruppi spitiuali ritenuti potenzialmente destabilizzanti. Alla persecuzione della Falun Gong, che ha raggiunto la sua massima efferatezza durante la presidenza di Jiang Zemin (1993-2003), ha fatto seguito la paranoica repressione di Hu Jintao nell'annus horribilis 2011, quando una primavera mancata d'ispirazione araba agitò i sonni dell'establishment cinese.

Sotto il neopresidente Xi Jinping la condanna ai culti popolari e all'estremismo religioso si conferma ferrea, sopratutto alla luce di una serie di episodi violenti causati -secondo il Partito comunista cinese- da gruppi terroristi di matrice islamica che abitano l'estremo confine nord-occidentale del Paese. Eppure, il malcontento che cova nella pancia del paese -per via della corruzione dilagante e dell'abisso crescente che separa i ricchissimi dai poverissimi- sembra aver spinto il nuovo leader ad una parziale apertura. Sia benvenuta, dunque, la "benevolenza" e la "tolleranza" dei fedeli cinesi, che nella Repubblica popolare sono circa 100 milioni, di cui una buona metà musulmani e cristiani. " I credenti dovrebbero essere autorizzati a praticare seriamente il culto che sostengono" e "formare un consenso comune sulla promozione della stabilità e armonia sociale" ha dichiarato alla fine di novembre Wang Zuoan, capo dell'Amministrazione Statale per gli Affari Religiosi.

D'altra parte lo stesso Hu Jintao aveva tentato di recuperare quanto scardinato dal Grande Timoniere, rispolverando la tradizione confuciana per fornire un riferimento ideologico al paese in rapida trasformazione. Cavallo di battaglia proprio la "società armoniosa".

La religione declinata alla longevità del Partito, prevede una partecipazione maggiore da parte di quelle persone relegate nelle aree più periferiche della società e accusate, per via della loro fede, di "anticonformismo", "ignoranza" e talvolta di "separatismo".

Come scrive Maria Jaschok, esperta di storia cinese contemporanea e direttrice dell'International Gender Studies Centre presso la Oxford University, la crescente decentralizzazione dell'apparato statale, coniugata alla nascita di uno "spazio civile", apre nuovi spiragli ai gruppi ritenuti un tempo "eversivi". Così come la tensione politica porta incertezza e, allo stesso tempo, fornisce nuove opportunità per affermare le proprie aspirazioni grazie a un maggior coinvolgimento nella vita sociale. Nella vivace dialettica tra sfera spirituale e società civile si innesta l'aumento del numero delle praticanti e dei leader religiosi donna.

L'"altra metà del Cielo", come chiamava Mao il gentil sesso, è stata la prima a beneficiare della Rivoluzione comunista. Mentre il Grande Timoniere diceva basta al feudalesimo e alla religione ritenuta oppio dei popoli, la "liberazione femminile" recideva i lacci e lacciuoli dal principio cardine della cinesissima filosofia confuciana: il patriarcato. Proprio la definizione della donna socialista moderna è stato uno dei maggiori successi raggiunti dal neonato Partito comunista durante il suo processo di consolidamento. E, giusto di recente, un sondaggio riportato dal Global Times rivela che circa la metà degli intervistati considera positivamente la figura di Mao per aver reso la Cina una potenza nucleare e aver liberato le donne.

L'organizzazione All-China Women's Federation (ACWF), che ha visto la luce nel marzo 1949 con il nome di All-China Democratic Women's Foundation, nelle sue prime campagne aveva un preciso obiettivo: plasmare una donna cinese socialista, lavoratrice, politicamente impegnata e con una mentalità "scientifica". Il lavoro dei ricercatori della ACWF è stato, per lungo periodo, interamente votato all'industrializzazione, militarizzazione e modernizzazione della nazione, operando nel solco della tradizione marxista.

Quando, negli anni '80, politiche più liberali permisero la rinascita di un pensiero religioso, l'ampia partecipazione femminile venne letta da molti come sintomo di debolezza. Come se, aggrappandosi alla fede, la donna confermasse la propria fragilità e ingenuità, con buona pace di Mao.

Il legame perverso tra femminilità e religione ha ispirato un decano della letteratura d'oltre Muraglia: Lu Xun, unico intellettuale graziato dall'oscurantismo della Rivoluzione Culturale, nella novella New Year Sacrifice (1926) racconta la storia di Xianglin, una donna separata afflitta dalla povertà, ma anche dalla superstiziosità popolare che la porta a credere fino alla morte di vedere il proprio corpo tagliato a metà per essere spartito nell'oltretomba tra i due mariti. Il monito è chiaro: i culti tradizionali cinesi non fanno altro che portare alla distruzione le anime più semplici e già colpite dalle privazioni economiche.

Tutt'ora buona parte del dibattito continua a reggersi sull'interrogativo se la religione costituisca una forza oppressiva o piuttosto una forza liberatrice, che permette alle donne di ritagliarsi uno spazio nella cultura tradizionale caratterizzata da una forte predominanza maschile. Proprio lo stato di segregazione è diventata in alcuni casi la scintilla scatenante che ha spinto alcune comunità religiose "rosa" a forzare la mano per ottenere maggiori riconoscimenti. E' questo il caso delle moschee femminili che nel 1994 hanno ottenuto la registrazione come siti religiosi ufficiali, acquisendo pari status legale nonché uguale diritti economici e di rappresentanza politica. Talvolta le politiche adottata da Pechino sono state sfruttate dai gruppi religiosi per i propri fini. Come quando, con una la levata di scudi, le musulmane della moschea di Zhengzhou, nella provincia dello Henan, si sono opposte -con il placet del Partito- all'Islamismo ortodosso internazionale che proibisce alle ahong (imam in mandarino) di dirigere moschee femminili indipendenti.

Ad aver contribuito all'indigenizzazione di alcuni culti in Cina è stato il principio della non ingerenza negli affari interni, dietro il quale Pechino si trincera per respingere le interferenze da parte delle associazioni religiose straniere. Un aspetto del regime ferreo cinese che si è rivelato vantaggioso per diverse comunità di fedeli.

Particolarmente emblematica è la storia delle scuole coraniche femminili, nate oltre tre secoli fa dalla negoziazione sulla natura dell'identità musulmana nell'ambito della diaspora cinese. Durante la fine della dinastia Ming e l'inizio della Qing (XVII secolo), la rinascita islamica, ispirata da intellettuali e pedagoghi Hui, la minoranza musulmana cinese, finì per abbracciare anche il gentil sesso. Il processo di rafforzamento della comunità femminile venne interrotto durante la persecuzione religiosa negli anni '50 del secolo scorso, per poi riprendere timidamente durante l'apertura anni '80. Sopratutto a partire dalla fine degli anni '90 molte moschee furono riaperte e, in alcune aree della Cina centrale, ne furono costruite di nuove.

La ripresa di pratiche antiche, divenute desuete, fornisce un ponte tra le nuove generazioni e le loro origini, finite nel dimenticatoio dopo la fondazione della Repubblica popolare. Così la trascrizione e la compilazione dei canti musulmani jingge riportano in vita i sentimenti, le gioie e i dolori delle praticanti di un tempo, divenendo di ispirazione per le giovani fedeli di oggi. Il passato viene riempito di nuovo significato per rimuovere le connotazioni negative affibbiate per lungo tempo alle credenti. E la modernità, avvertita con trepidazione come la perdita delle passate certezza si accompagna, tuttavia, alla garanzia di benefici materiali e di una partecipazione religiosa alle dinamiche sociali più proattiva rispetto al passato; sopratutto per quanto la riguarda l'assistenza ai gruppi emarginati.

Esemplare è stato l'impegno delle suore del convento cattolico Zhugu di Kaifeng, Henan, nella scolarizzazione e in opere di carità, in particolare tra gli anni '80 e '90. Eredi delle Sorelle della Provvidenza di St Mary's of the Wood, giunte a Kaifeng dall'Indiana nel novembre 1920 e rimpatriate forzosamente nel 1950, le suore di Zhugu (oggi tutte cinesi) si sono impegnate in progetti sociali che aggiungono una dimensione religiosa allo sviluppo locale. Dall'assistenza ai bambini abbandonati, agli handicappati e agli anziani, fino al più recente impegno nella difesa delle mogli vittime di violenze familiari. A confermare come l'alterità di alcune associazioni di culto sia riuscita a collaborare alla nascita di una Cina moderna, tappando i buchi lasciati da un welfare insufficiente.

"Le donne credenti sono particolarmente preoccupate dall'orientamento laico della cultura cinese" scrive Shui Jingjun, coautrice con la Jaschok di Women Religion and Space in China, " la cultura religiosa che determina la loro vita e la loro soggettività porta ad una posizione marginale nella società e negli ambienti accademici, anche per via della loro invisibilità nella sfera pubblica sociale (secolare). Eppure abbiamo scoperto che le donne musulmane, nella costruzione di un gruppo religioso attivo, hanno finito per arricchire non soltanto la storia delle musulmane cinesi, ma anche la storia cinese nel suo complesso. E che il silenzio e l'assenza non coincide con la non-esistenza o l'incapacità di far sentire la propria voce."


venerdì 20 dicembre 2013

Il fiore all'occhiello della stampa cinese


(Tradotto dal Phoenix Weekly e pubblicato in forma ridotta su Internazionale - 20/26 dicembre 2013)

La redazione del Quotidiano del popolo sorge 1,6 chilometri ad est della nuova sede della televisione statale CCTV, nel cuore del distretto finanziario di Pechino. Un angolo di tranquillità in un quartiere caotico e rumoroso. Una volta attraversata l'entrata sorvegliata dalla polizia armata, procedendo verso nord-est, si raggiunge un edifico bianco di tre piani, proprio accanto ad un giardino. Al suo interno esso presenta un'arredamento semplice: le apparecchiature degli uffici sono tutti prodotti a buon mercato e, a parte le poltrone in pelle della sala conferenze, gli altri divani sono rivestiti di semplice stoffa. Le piastrelle del pavimento color grafite si sono allentate e cominciano già ad avere le prime crepe.

Questa è la redazione dell'edizione cinese del Global Times. Da quando, nel 2011,  il giornale si è trasferito in questo palazzo non sono mai stati intrapresi lavori di ristrutturazione. E in effetti questa sede non è proprio all'altezza del suo nome: con 1,5 milioni di copie pubblicate giornalmente, il Global Times si piazza al terzo posto nel mercato della carta stampata cinese, e -anche a livello globale- viene sempre più spesso menzionato nell'ambito della politica internazionale. Per via del suo distintivo stile tagliente, è considerato dal mondo esterno non soltanto il megafono del governo cinese, ma anche del popolo.

Sul web cinese gira un modo di dire che ben sintetizza il ruolo giocato dal giornale nella società cinese, per via del suo pluralismo: "Chi amministra il paese legge il Quotidiano del popolo, chi lo vuole amministrare legge il Nanfang Zhoumo, chi crede di amministrarlo legge il Global Times, chi ritiene che il paese sia ormai in mano a forze straniere legge [il sito di estrema sinistra] Utopia".

Persone diverse giudicano il Global Times in maniera completamente differente. I suoi sostenitori ne esaltano il patriottismo, la voce del Paese, l'energia positiva. I suoi detrattori, di contro, ne criticano il nazionalismo, l'incitamento all'odio, la diffusione di rumor.

Il giornale più controverso
Il 15 gennaio 2013 alle sei del pomeriggio il Global Times ha pubblicato sul suo sito internet un articolo dal titolo Il Giappone per la prima volta precisa che sparerà colpi di avvertimento nel caso in cui aerei cinesi si avvicinino alle isole Diaoyu. In esso si legge: "Durante la conferenza stampa, il ministro della Difesa nipponico Itsunori Onodera, rispondendo alle domande dei giornalisti cinesi e di Hong Kong, ha spiegato espressamente che, qualora velivoli cinesi entrassero nello spazio aereo giapponese in prossimità delle Diaoyu, gli ammonimenti sarebbero infruttuosi, per cui il Giappone sparerà verso verso gli aerei dei 'colpi d'avvertimento'".

Fatto sta che, dopo quattro ore dalla pubblicazione del pezzo, Li Miao, corrispondente da Tokyo per l'emittente televisiva hongkonghese Phoenix, metteva in discussione l'accuratezza di questa notizia. "Il giornalista cinese di Hong Kong sono proprio io. Sono stato io a fare la domanda [in conferenza stampa], solo che il ministro della Difesa giapponese non ha risposto: 'Spareremo dei proiettili come colpi di avvertimento'. Onodera ha parlato solo di 'razzi di segnalazione', i 'colpi di avvertimento' non li ha proprio nominati, per non parlare di 'spiegare espressamente'. Questa è piuttosto un'interpretazione dei media". Presto un gran numero di internauti, scontenti e critici nei confronti del Global Times, hanno cominciato a dire che il giornale "persiste nella diffusione di notizie infondate" e che "è ansioso di seminare disordine".

La contromossa del Global Times non si è fatta attendere. "L'Asahi Shimbun riporta notizie false? Un giornalista di Hong Kong sostiene che il ministro della Difesa giapponese non ha mai detto che verranno sparati colpi d'avvertimento" così rispondeva la testata di Pechino sul suo account Weibo, sottolineando come si fosse attenuta a quanto scritto dal noto giornale giapponese. Questa disputa non ha fatto che animare i sostenitori del Global Times, i quali si sono scagliati contro Li Miao definendolo "ingenuo" e incapace di capire il vero significato nascosto nelle parole dei giapponesi. Chi invece gli si opponeva era ancora più indignato dal fatto che stesse cercando di addossare la responsabilità per la diffusione di notizie false all'Asahi Shimbun -sul quale, peraltro, non compariva quanto insinuato dal tabloid cinese.

Nonostante le molte polemiche, il giorno seguente il Global Times tornava sull'argomento con un editoriale dal titolo eloquente: "Sparare colpi di avvertimento porterà Cina e Giappone sull'orlo di una guerra". Poi però, il 17 del mese, con il pezzo "Giappone, non utilizzare rumor per infondere coraggio!" faceva marcia indietro, correggendo discretamente quanto affermato in precedenza riguardo "i colpi di avvertimento".

Per quale ragione il Global Times ha deciso di soffiare sul fuoco del nazionalismo cinese, reinventando le affermazioni del ministro della Difesa giapponese? Negli ultimi anni dubbi sulla fondatezza e la veridicità delle notizie pubblicate hanno funestato il giornale senza sosta. Sulla base di ricerche condotte sulle fonti, in passato professionisti dei media hanno sostenuto che mentre Reference News (una selezione di articoli presi da agenzie di fama mondiale e tradotti in cinese) al massimo riprende o estrae pezzi dai media d'oltremare, il Global Times, invece, prende gli articoli redatti in caratteri sulla base di fonti straniere e ne stravolge completamente il significato.

D'altra parte, anche chi ne mette in dubbio la professionalità giornalistica, non può fare a meno di riconoscere che il Global Times è molto migliorato nella raccolta e nella gestione delle notizie internazionali. Ed è già riuscito a fornire una copertura giornaliera di tutti gli eventi più importanti, senza lasciarsene sfuggire nemmeno uno. Non importa in quale parte del mondo si stia verificando un fatto, grazie ai suoi corrispondenti e inviati speciali è quasi sempre in grado di ottenere notizie di prima mano. A parte il Global Times, non ci sono altre testate in grado di fare lo stesso. Tanto che oggi chi si occupa di affari internazionali difficilmente può fare a meno di consultarlo quotidianamente.

La schiera di critici ne lamenta la scarsa "genuinità", bollandolo come il megafono del governo cinese. All'interno del governo alcune persone lo hanno elogiato, evidenziando come la sua esperienza nel "corretto orientare l'opinione pubblica e perseguire i migliori effetti della propaganda" sia meritevole di conferme. Tuttavia è improbabile che i redattori del Global Times approvino questo genere di commenti; per orgoglio professionale, chiaramente, non ammetteranno mai di essere uno strumento della propaganda ufficiale, soprattutto perché si ritengono portavoce del popolo, mentre considerano chi ha dei dubbi vittima del lavaggio del cervello ad opera della propaganda occidentale anti-cinese.

La natura controversa del Global Times fa sì che spesso i suoi giornalisti vengano isolati dai colleghi. Questa tendenza è diventata ancora più evidente dopo che, nel 2010, il giornale ha cominciato a partecipare sempre più spesso alla pubblicazione di notizie nazionali, toccando temi scottanti. Il suo staff -composto da nomi noti quali Hu Xijin e Wang Wen, rispettivamente caporedattore ed ex editor- spesso è stato oggetto di attacchi centralizzati, per via di alcune affermazioni fuori dall'ordinario. Tanto che proprio Hu Xijin, anche quando affronta in maniera critica tematiche quali la corruzione o l'inquinamento dell'aria di Pechino, difficilmente trova largo consenso.

Quando intervengono su questioni nazionali, i giornalisti del Global Times -grazie ad uno stile narrativo e a una argomentazione caratteristici- riescono spesso a spingersi ingegnosamente in terreni proibiti, rendendo il giornale l'unica fonte d'informazione per quanto riguarda alcune notizie. "Sappiate che i vostri post su Weibo certamente scompariranno, e in futuro quando le persone analizzeranno la storia improvvisamente si renderanno conto che, tra tutti i media cinesi, soltanto il Global Times ha impresso sulla carta ogni grande evento" una volta affermò con arroganza Wang Wen "Tutte le parole sensibili di inizio Ventunesimo secolo sono custodite nel Global Times. E questo è il nostro miglior contributo alla storia".

Nonostante il Global Times incontri le perplessità dei colleghi di altre testate, tuttavia l'edizione in inglese riscontra una certa ammirazione nell'ambiente quanto a professionalità. Si è persino meritato la soddisfazione di sentir dire che "non soltanto è superiore a China Daily e 21st Century per quanto riguarda la forma linguistica adoperata, ma si avvicina di più ad una vero e proprio giornale inglese anche nei contenuti."

In passato qualcuno ha sintetizzato i titoli di copertina più ricorrenti sul Global Times così: "Ancora nuove cospirazioni di Stati Uniti e Giappone; Taiwan mette in atto manovre meschine per le sue velleità indipendentiste". Ma questa generalizzazione semplicistica è quanto mai inappropriata, almeno a partire dal 2008. La gamma delle tematiche affrontate dal Global Times si è fatta sempre più diversificata, avvicinandosi alla posizione assunta dalla testata che si ritiene "espressione di un mondo plurale e lettrice attenta della complessa realtà cinese".

Se si considera il mercato come unico giudice, allora oggi il Global Times è senza dubbio tra i giornali di maggior successo in Cina. Nello scenario attuale, in cui la grande sfida tra i media tradizionali e i "new media" ha condotto a una contrazione del mercato [editoriale], il Global Times è tra quelle testate che sono riuscite a  mantenere una buona performance, inanellando notevoli successi.

Il vice caporedattore della rivista Caijing He Gang, che per un certo periodo ha anche lavorato alla sezione Esteri del Quotidiano del popolo, ritiene che il Global Times abbia sempre saputo "cogliere il punto giusto" in ogni periodo: nel momento in cui il mercato aveva bisogno di originalità, il Global Times è stato in grado di fornirgliela tempestivamente. Quando il nazionalismo ha cominciato a incontrare il favore popolare, lui ha iniziato a "vendere" nazionalismo, e quando la società ha chiesto opinioni nuove, lui le ha fornito il materiale di cui discutere.

La difficile ascesa di un giornale "scadente"

Secondo il caporedattore Hu Xijin, l'attuale struttura del Global Times si deve al suo predecessore He Chongyuan.

He nacque nel 1953 a Linli, nella provincia dello Hunan. Durante la propria infanzia sperimentò le privazioni della carestia. Dopo il liceo fece ritorno al villaggio d'origine per dedicarsi al lavoro dei campi; entrato nelle brigate di villaggio, divenne segretario della Lega giovanile, poi si occupò della redazioni di documenti per la comune popolare per circa cinque anni, fino a quando nel 1977 entrò nel dipartimento di Arabistica della Shanghai International Studies University. I primi 24 anni di vita li trascorse senza interruzione nel villaggio natio.

Inevitabilmente queste prime esperienze ne hanno plasmato lo stile divenuto poi distintivo del Global Times: il suo linguaggio era il più semplice possibile, in modo da risultare comprensibile anche a contadini e operai. Questo gusto estetico si poneva in netto contrasto con la ricerca del virtuosismo intrapresa da quelle testate che all'epoca si occupavano di affari internazionali, come Overseas Nebula, Elite Reference, Window of the World e World Vision.

Una volta conseguita la laurea, He venne assegnato alla redazione Esteri del Quotidiano del popolo. Qui nel gennaio 1993 fu fondato il Huanqiu Wencui (predecessore il lingua cinese del Global Times), di cui He divenne il caporedattore cinque mesi più tardi. Non è stato un lavoro semplice. Per avviare il nuovo giornale il Quotidiano del popolo dovette cedere uno dei suoi grandi uffici, mentre alcuni dei suoi giornalisti andarono temporaneamente a dare una mano. A fare da spina dorsale al nuovo progetto editoriale furono proprio i giornalisti più giovani o di mezza età del Quotidiano del popolo. Uno che partecipò all'impresa ricorda: "non avevamo mai gestito un giornale, ogni giorno si procedeva a tentoni".

Tutte le settimana usciva un numero di otto pagine, fronte retro. I contenuti vertevano quasi completamente su gossip, notizie originali o aneddoti circa quanto accadeva oltremare. In copertina venivano proposti articoli con titoli del tipo: "Mao Amin perché non sposi l'imprenditore di Singapore?" oppure "I bambini abbandonati, diventati adulti, vogliono conoscere la loro mamma". I primi tempi vennero pubblicate soltanto 20mila copie, tanto che la sopravvivenza del giornale era ancora in discussione.

Agli inizi degli anni '90 del secolo scorso, dopo la disgregazione dell'Unione Sovietica, il nazionalismo cominciò a fare la sua comparsa nella società cinese. Alla fine del 1990 il Quotidiano del popolo pubblicò l'articolo dello studioso conservatore He Xin "La situazione economica globale e i problemi dell'economia cinese", nel quale proponeva un nucleo ideologico basato sull'integrazione di patriottismo e nazionalismo. Nel 1996 "I cinesi possono dire no" divenne il bestseller dell'anno, con un milione di copie pubblicate. Il nazionalismo cominciava a fare breccia tra la popolazione.

In un primo momento questa evoluzione ideologica in corso nel paese non riguardò minimamente il Global Times. A quel tempo le testate urbane iniziavano a diffondersi, e anche il Huanqiu Wencui stava provando a imboccare la stessa strada. Ma qualunque fosse il numero delle copie stampate o il contenuto delle storie raccontate, nulla era in grado di catturare l'attenzione della gente. Molti dello staff venivano sbeffeggiati dai colleghi per i loro report scadenti. Una dipendente donna addirittura pianse per tutto il tragitto fino all'ufficio, dopo essere stata derisa mentre era alla stamperia.

He Chongyuan più di una volta ricordò la confusione e le difficoltà dei primi tempi; non sapeva bene che tipo di giornale fare e a quale pubblico rivolgersi. Lui è sempre stato uno che ha lavorato sodo e ha portato avanti le cose con determinazione, spingendo personalmente la bicicletta lungo la strada in cerca di compratori, incitando il morale [dei colleghi] e cercando di capire le esigenze dei lettori. Al tempo ogni dipendente doveva lasciare la redazione e andare a vendere uno per uno tutte le copie alle varie edicole, annotando chi le aveva acquistate, che età avesse, chi fosse e se avesse dato dei consigli. Quella di scendere in strada per vendere i giornali è una regola non scritta; una pratica che è continuata per più di dieci anni e alla quale tutti i dipendenti di He si sono dovuti sottoporre.

Nel 1997 il Huanqiu Wencui cambiò nome in Global Times e cominciò progressivamente a riportare notizie dal mondo. A quel tempo i media cinesi che si occupavano di questioni internazionali erano ancora molto pochi. Tra i più importanti, il Reference News, fondato nel 1931 dall'agenzia di stampa Xinhua, World News, gestito da China Radio International, ed Elite Reference che fa capo al China Youth Daily.

Questi periodici si basavano principalmente sulla traduzione di agenzie o articoli di giornali esteri, il Global Times invece si avvaleva dei contributi dei corrispondenti del Quotidiano del popolo; quei pezzi che non trovavano posto sul quotidiano finivano sul tabloid. Quanto a posizione e numero di tirature, a far impallidire il Global Times non erano soltanto i milioni di copie del Reference News, ma anche le centinaia di migliaia dell'Elite News e del World News. Eppure la superiorità del Global Times gradualmente cominciò a manifestarsi.

Il Quotidiano del popolo aveva corrispondenti in oltre 300 paesi e regioni del mondo, ma la sua versione internazionale regolare riusciva ad assimilare un numero di pezzi piuttosto limitato, così molti degli articoli che gli inviati mandavano indietro finivano automaticamente sul Global Times. In quel periodo He pagava i propri giornalisti di stanza all'estero un centinaio di yuan ogni mille caratteri; un prezzo quasi stratosferico che gli permise di riunire intorno a sé un gran numero di redattori. Impiegati delle ambasciate cinesi all'estero, studenti sparsi per il mondo, personale di società straniere, persino le mogli dei corrispondenti cominciarono a scrivere per il Global Times.

La rete internet era ancora poco sviluppata, il popolo sapevano che i canali di comunicazione con l'estero erano ancora molto ristretti, così il Global Times permetteva la diffusione immediata di informazioni fresche. Inoltre, grazie ad un linguaggio colloquiale e ironico, queste cronache dal mondo portavano una ventata di novità. Risultato: il numero delle pubblicazioni del giornale cominciò ad aumentare.

He stabilì che fornire informazioni e conoscenza ai lettori cinesi, dovesse essere il punto di partenza nella copertura degli eventi. Su questa base il Global Times iniziò a trattare notizie politiche, a riportare i principali fatti oltremare, come la successione di Kim Jong Il in Corea del Nord e l'abbandono del Sud Africa da parte dell'ambasciatore di Taiwan (in seguito all'instaurazione dei rapporti diplomatici tra Sud Africa e Repubblica popolare cinese nel 1998, ndt). Allo stesso tempo provò a violare alcuni argomenti tabù, spingendosi in acque proibite.

"Al tempo nei resoconti della stampa internazionale non veniva fatta parola della percezione che il mondo aveva della Cina" ricorda un alto funzionario del Global Times "descrivevano le attività all'estero come rapporti di partnership; per esempio quando i leader cinesi andavano in visita all'estero o quando i funzionari di un altro paese venivano in Cina, i media riportavano soltanto dell'amicizia duratura tra le due nazioni. Noi invece abbiamo cominciato a penetrare a fondo nelle cose. Chiedevamo quale fosse lo scopo della [missione diplomatica], quali interessi e quali conflitti vi fossero tra i due paesi". Nella sua lotta per la sopravvivenza nel mercato editoriale, il Global Times, quasi per caso, ha cambiato il concetto stesso di giornalismo internazionale.

Nel 1998 il Global Times ha descritto in prima pagina le pressioni esercitate da Clinton durante la sua visita in Cina, ed è stato il primo a riportare della carestia in Corea del Nord, raccontando come l'erba fuori dall'ambasciata cinese fosse stata estirpata dal popolo ridotto alla fame. Ha persino inaugurato una colonna speciale dedicata alla libera discussione, in cui si incitavano i lettori a rispondere a domande del tipo "Come può la Cina vincere la sua partita col Giappone?"; "Perché la Cina ha fatto visita al Vietnam?" Responsabile di questa sezione era Hu Xijin.

Rompere le convenzioni voleva dire accedere ad una più ampia fetta di mercato, ma anche attirarsi le antipatie di molti. Così, oltre a scatenare le proteste delle ambasciate straniere, in un'occasione il Global Times si vide anche bloccare la piattaforma di libero dialogo.

Dal "nazionalismo" allo "sviluppo del paese"

Che si trattasse di report o di editoriali, il Global Times conservava un suo un tipico afflato nazionalista. Senza mezzi termini He Chongyuan dichiarò che il giornale doveva perseguire il patriottismo, e in questo processo di trasformazione il Global Times imbroccò un periodo storico particolarmente propizio.

Nel maggio 1999 l'ambasciata cinese in Yugoslavia venne bombardata. Il Global Times grazie ai suoi corrispondenti potè servirsi di informazioni dirette e uscì con un numero speciale, rompendo la routine delle pubblicazioni settimanali. In un giorno le copie stampate passarono da circa 40mila a 78mila. Molti tra gli studenti riuniti in protesta (fuori dall'ambasciata americana in Cina, ndt) stringevano nella mano proprio l'edizione speciale del Global Times. Grazie al giornale di He il nazionalismo che covava sotto le ceneri della società cinese trovò una valvola di sfogo.

Due mesi dopo, le pubblicazioni schizzarono nuovamente grazie ad un pezzo su Lee Teng-hui e la teoria di "Una Cina due sistemi". Nel 2001, con i report sulla collisione aerea tra Cina e Stati Uniti e sull'attentato dell'11 settembre, il Global Times pare abbia raggiunto quasi 2 milioni di copie.

Smbrava proprio che riportasse "la cosa giusta al momento giusto"; una bella fortuna, si potrebbe pensare. In realtà dietro al suo successo vi sono delle precondizioni imprescindibili. "L'incidente aereo" e la teoria di "Una Cina due sistemi" hanno aiutato l'ascesa del Global Times, ma -come ha fatto notare He- questi episodi erano a disposizione di tutto il mondo, non solo del Global Times.

Secondo He, è stato il "sentimento nazionalista" a permettere alla testata da lui diretta di distinguersi nella competizione tra vari contendenti del settore. L'incarcerazione dell'ex presidente di Taiwan Chen Shui-bian, il governo del primo ministro giapponese Junichiro Koizumi, gli attacchi americani in Afghanistan e Iraq hanno continuamente fornito al Global Times delle tematiche calde sulle quali dibattere.

Nella seconda metà del 2005, dopo dodici anni ai vertici del giornale, He Chongyuan, lui che ne è il padre, fu nominato vice presidente del People's Daily, mentre il suo incarico venne assunto dal vice caporedattore Hu Xijin. La più grande difficoltà alla quale dovette far fronte Hu è stata proprio quella di trasformare la testata in un quotidiano. Al tempo il Global Times usciva tre volte a settimana, con 1,2 milioni di copie per numero. Si era calcolato che una volta divenuto un quotidiano avrebbe ridotto il numero delle pubblicazione a 800mila copie. In occasione del banchetto di commiato in onore di He, un alto funzionario del Global Times si dice abbia giurato: "Se il giornale non riuscirà a raggiungere le 800mila pubblicazioni, ci tufferemo tutti insieme nel Fiume Giallo".

Era come se Hu stesse camminando su una lastra sottilissima di ghiaccio. Nella prima metà del 2005 il real estate, così come altri settori stavano attraversando un periodo di profonda crisi. In Cina il mercato della carta stampata cominciava a raffreddarsi: i media tradizionali avvertivano l'enorme pressione esercitata dai nuovi canali informativi. Un dipendente del Global Times ricorda come Hu Xijin fosse certo che in futuro lo spazio per l'innovazione tecnica dei giornali metropolitani si sarebbe ridotto progressivamente, e che solo grazie ad un'agguerrita concorrenza sarebbe stato possibile attrarre l'attenzione dei lettori.

Nel 2006 la testata di Hu pubblicò in successione prima un articolo in cui criticava la visita del premier giapponese Junichiro Koizumi al controverso tempio Yasukuni, poi uno contro l'ex presidente taiwanese Chen Shui-bian. Infine sfruttò le Olimpiadi di Pechino per "tirare fuori le emozioni del popolo cinese". In quel periodo i titoli e i contenuti degli articoli del Global Times evidenziavano una propensione verso il nazionalismo ancora maggiore rispetto al passato.

All'interno del giornale si discuteva su quale via intraprendere e quali strategie di marketing adottare. Alla fine si giunse alla conclusione che il Nanfang Daily Press Group avesse già acquisito troppa importanza, e che per il Global Times sarebbe stato meglio perseguire un altro cammino. Hu riteneva che, da un punto di vista strategico, il Global Times avrebbe dovuto allontanarsi dal modello del gruppo editoriale di Canton, diventando a suo modo un altro punto di riferimento.

"Cercava, così, nella crudele competizione del mercato un modo per 'vendere bene' ", ha commentato un redattore del Global Times. Una volta diventato un quotidiano, come ci si attendeva fin dall'inizio, il giornale registrò un drastico calo nella tiratura, assestandosi sulle 1,5 milioni di copie. "Non smettevamo mai di cambiare modello per adattarci alle esigenze di mercato, e alla fine ce l'abbiamo fatta" ha spiegato l'uomo.

Questo [taglio patriottico] indusse il mondo esterno a credere che i lettori del Global Times fossero per lo più nazionalisti incalliti dal basso reddito e studenti. E sembrava comprovarlo la ridondante presenza di messaggi pubblicitari di medicinali per la prostata e unguenti specifici per l'iperplasia che hanno occupato la testata per molto tempo (benché, in teoria, il fatto che il giornale venisse distribuito sugli aerei sarebbe dovuto essere segno di buona qualità). Questa nomea del Global Times è sopravvissuta fino a oggi, e tuttora alcuni media stranieri lo etichettano come il tabloid del Quotidiano del popolo, organo del Partito comunista cinese.

Dopo che cominciò ad uscire giornalmente, il Global Times riuscì quasi a spazzare via quelle testate di notizie internazionali a scadenza settimanale quali World News, International Herald Tribune ed Elite Reference. A contendersi il mercato, in pratica rimasero soltanto Reference News e Global Times. Sebbene Reference News fosse ancora leader nel settore, la sua superiorità cominciava a vacillare, minacciata dall'avanzata del giornale di Hu. La sua struttura, basata su una miscellanea di notizie, era incapace di tenere testa alla nuova versione del Global Times.

Dopo il 2010, il Global Times iniziò a focalizzarsi sulla situazione nazionale. "Il Global Times divenne una voce importante nel dibattito su quale strada dovesse percorrere la Cina". Un membro dell'editorial board ritiene che in passato il giornale si sia occupato di Esteri mantenendosi su posizioni tutte cinesi, ovvero assumendo come punto di partenza la difesa degli interessi della patria. "E la sua attitudine non è mutata nel riportare le notizie nazionali, dando l'idea che sia a servizio del governo cinese" ha commentato.

In occasione di un discorso pubblico, Hu Xijin dichiarò che "il sistema statale cinese e quello occidentale sono molto diversi. L'autorità e la credibilità del Partito sono la base fondamentale per la stabilità e lo sviluppo del paese. Se i media, in Cina, attaccassero la macchina governativa, come sono soliti fare in Occidente, allora tutto il paese risulterebbe indebolito alle sue fondamenta."

Hu esigeva che i report fossero "finalizzati all'ascesa della Cina". All'interno dello staff editoriale si pensava che anche il Global Times si trovasse di fronte a una sfida, proprio come oggi avviene per l'immagine internazionale della Cina. E la sfida è stata vinta: nel panorama mediatico cinese, il Global Times ha registrato una crescita rapida e vigorosa.

Il segreto del suo successo
All'epoca di He Chongyuan, il Global Times adottò il metodo del "racconto", "cercando di adeguarsi alle abitudini di lettura dei cinesi, con lo scopo di spingere i lettori a osservare quelle notizie d'oltreconfine come fossero eventi accaduti vicino a loro". Agli articoli veniva applicato con rigore uno standard "popolare"che prevedeva frasi, nomi di persona e di luoghi piuttosto corti, evitando parole tecniche e, in alcuni casi, utilizzando per i titoli il linguaggio colloquiale tipico dei mercati. Questo stile, che prevedeva una prospettiva popolare e rifuggiva gli intellettualismi, sebbene fosse fonte di derisione da parte degli altri colleghi, allo stesso tempo risultava di facile comprensione alle persone comuni. Fattore, questo, che ha permesso al giornale di guadagnarsi un'ampia audience.

Il Global Times ha creato un particolare stile che prevedeva un titolo di apertura riportato in grassetto in non più di 7-9 caratteri. A seguire un sottotitolo colorato più piccolo, e più ancora in basso un'immagine a colori di grandi dimensioni. Il titolo di apertura veniva stampato in rosso, blu, verde e altre tonalità. In prima pagina c'era un unico lungo articolo, caratteristica che lo distingueva da Reference News, che come minimo riportava tre notizie brevi. Questo layout serviva a dare maggior risalto al giornale una volta esposto nelle edicole.

Nel suo "business process", il Global Times ha mantenuto una certa originalità. Aveva infatti istituito un sistema di controllo delle notizie molto particolare. Tutti i paesi del mondo venivano divisi in aree e ogni editor era responsabile per un'area precisa della quale doveva riportare quotidianamente le notizie principali. Inoltre veniva stesa una lista dettagliata dei principali media nazionali e internazionali da tenere sott'occhio giornalmente, secondo un sistema di turni che coinvolgeva tutti i dipendenti. Nel caso in cui fosse accaduto qualcosa di importante, in qualsiasi momento, bisognava prenderne nota. E anche nelle giornate relativamente tranquille, prima di staccare da lavoro, occorreva comunque proporre una scelta di titoli. Questo sistema faceva sì che al Global Times non potesse sfuggire praticamente nessuna notizia di rilievo, dandogli il modo di reagire opportunamente.

Il caso dell'11 settembre evidenzia in maniera esemplare la rapidità con la quale il Global Times è riuscito a reagire davanti ai grandi eventi. Al tempo i redattori erano divisi in due gruppi A e B, in modo da distribuire al meglio i tempi di riposo. Al momento dell'attentato il gruppo A era in vacanza a Zhangjiajie, mentre il B era rimasto nella capitale per ogni evenienza. Due ore dopo la telefonata del corrispondente dagli Stati Uniti, tutti i giornalisti di servizio si precipitarono in ufficio. Passarono tutta la notte in redazione per terminare un numero speciale che vide la luce la mattina seguente. A quel punto, quelli del gruppo A, tornati in fretta e furia a Pechino col primo aereo, diedero il cambio ai colleghi del B per continuare ad approfondire la notizia.

Il Global Times è stato sostenuto da una forte rete di distribuzione: 46 stamperie e nove stazioni di distribuzione sparse per tutto il paese. Ogni volta che una prima pagina riceve l'approvazione, immediatamente vengono avvisate le varie stazioni di distribuzione, in modo da garantire la vendita del giornale nelle edicole alle otto di mattina. In questo modo il giornale è riuscito a vendere ogni giorno quasi tutte le copie distribuite, con conseguente notevole flusso di denaro.

I dipendenti del Global Times hanno in media un po' più di 30 anni e vantano una formazione molto varia. La maggior parte di loro si è specializzata in relazione internazionali, diplomazia, giornalismo e lingue straniere. Nonostante la giovane età, questi giornalisti non soltanto svolgono un lavoro molto pesante, ma sono anche sottoposti a regole particolarmente rigide, nonché a una disciplina ferrea. Occasionalmente, il Global Times tiene delle prove d'esame su vari argomenti, dalla politica alla scrittura; i punteggi sono poi inclusi nelle valutazioni finali di ogni redattore. Non solo: chi sbaglia paga. Ogni settimana degli esperti vengono incaricati di scegliere alcuni articoli per commentarne gli errori, con relativa multa per gli autori dei pezzi incriminati.

Al Global Times vige poi una regola non scritta: quando si parla con qualcuno bisogna alzarsi in piedi. E' capitato che una volta in redazione fosse entrata una persona per cercare un amico. Come il visitatore mise piede nell'ufficio, tutti i presenti si alzarono in piedi lasciandolo sgomento. Una volta il direttore del Quotidiano del Popolo, recatosi al Global Times per un'ispezione, rimase stupito nel vedere tutti i dipendenti mettersi sull'attenti. Questa scena gli diede molto da pensare circa la gestione del giornale sotto la direzione di He Chongyuan.

In redazione la disciplina è a dir poco ferrea. Si comincia a lavorare alle 9 di mattina, e tutte le volte che un qualcuno arriva in ritardo viene segnato su un registro. Se durante l'anno si fanno più di dieci ritardi, si viene retrocessi a un periodo di prova. Come se non bastasse, i cellulari vanno tenuti accesi 24 ore su 24, e chi risulta irraggiungibile rischia pesanti sanzioni, compresa l'espulsione.

Eppure, nonostante le forti pressioni sul personale, il Global Times continua a conservare un grande potere attrattivo. Già intorno al 2000, un dipendente di medio livello o particolarmente capace prendeva tra i 150mila e i 200mila yuan; al tempo, uno stipendio molto ghiotto per un giornalista. Tale sistema di incentivi ha permesso alla testata di accaparrarsi un gran numero di talenti. Molti di questi, una volta lasciato il Global Times, sono diventati pezzi grossi del panorama mediatico cinese.

Oggi in Cina non esiste un altro giornale in grado di rivaleggiare con il Global Times quanto ad appariscenza: in copertina, in alto sulla sinistra, il nome della testata è stampato in caratteri bianchi su sfondo rosso, mentre sulla destra sono riportati, in file verticali, i titoli di due notizie in caratteri bianchi su sfondo blu o verde. A destra della testata color rosso un piccolo quadrato marrone chiaro è riservato alla pubblicità di medicinali, in un abbinamento di colori che risulta decisamente discordante. Oggi che tutti i giornali metropolitani cinesi studiano il layout design della stampa occidentale, è rimasto soltanto il Global Times a preservare lo stile estetico irregolare, caratteristico dei giornali del secolo scorso.

Se da una parte questo suo aspetto poco attraente è stato bersagliato dalle critiche dei colleghi, dall'altra continua ancora a esercitare un certo fascino, tanto che Reference News non ha potuto fare a meno di prenderlo come fonte d'ispirazione. Così, per quanto riguarda l'impostazione della prima pagina, anche Reference News ha ampliato lo spazio per il titolo delle notizie d'apertura, mettendo sulla destra i titoli di due notizie in bianco su sfondo nero. Persino la lingua utilizzata, da solenne che era in passato, si è fatta più esplosiva.

La ragione di questa scelta di stile? Secondo He Chongyuan, chi adocchia per strada un giornale ha solo una manciata di secondi per decidere se comprarlo o no. Ecco perché il titolo di apertura deve essere il più coinciso possibile, 7-9 caratteri, meglio 8.

"Tutto quello che scrivono loro, lo possiamo scrivere anche noi"

Una volta assunte le redini del giornale, Hu Xijin cominciò a rimodellarne l'aspetto, lavorando sulla sua base originaria. Piano piano lo stile del "racconto" ha ceduto il posto alla ricerca della notizia in sé. Nel corso degli anni, grazie al crescente potere economico, il Global Times ha avuto la possibilità di sganciarsi dalla dipendenza dei contributi altrui, riuscendo a inviare i propri corrispondenti per fare ricerche sul posto. Pur rimanendo di base una testata di notizie internazionali, ha cominciato anche ad ampliare la parte riguardante la Cina, anche se è soltanto con la pubblicazione degli editoriali che la sua influenza sull'opinione pubblica cinese è diventata pervasiva.

La sezione dedicata agli editoriali fu aperta nel 1998. Principalmente ospitava opinioni riguardo la diplomazia cinese, spesso ponendosi su posizioni divergenti rispetto a quelle assunte dal ministero degli Esteri. Costretta a chiudere per un breve periodo, la nuova rubrica colpì molto Wang Daohan (ex presidente dell'Associazione per le relazioni attraverso lo Stretto, e politico vicino all'ex presidente Jiang Zemin, ndt), il quale -secondo i racconti- avrebbe invitato Hu a casa sua proprio per incitarlo a riprendere il progetto.

Il Global Times è sempre proposto come "la voce della Cina", senza mai valicare i limiti imposti dall'alto. La sua influenza è aumentata di anno in anno, così che lo stesso ministero degli Esteri ha finito per aprirgli le porte chiedendo di poter pubblicare dei dispacci, comparsi sul giornale a firma di "Zhou Ning", nome fittizio traducibile come "confini pacifici".

Ma il ministero degli Esteri non è stato l'unico organo governativo a scrivere per il Global Times. Molti altri enti statali hanno fornito il proprio contribuito. Persino il Dipartimento centrale della Propaganda ha spesso elogiato il giornale per le sue posizioni in politica estera.

Nel settembre 2011, in occasione del decimo anniversario dell'attentato alle Torri Gemelle, Obama ha inviato una lettera al Global Times, sottolineando come "gli Stati Uniti necessitano il sostegno di rapporti collaborativi per affrontare le attuali sfide e minacce a opera delle organizzazioni terroristiche". Secondo le stime approssimative di uno dei redattori, sarebbero già una dozzina i capi di stato ad aver scritto articoli per il Global Times. E non è certo una cosa di cui tutti i media cinesi possono vantarsi. Addirittura una rivista accademica ha pubblicato uno studio volto a fare luce sul modo in cui il giornale traduce e riporta le dichiarazioni dei leader [stranieri].

Ma è grazie ai suoi editoriali riguardo questioni sensibili che il Global Times ha definitivamente superato i giornali concorrenti: 13 gli editoriali pubblicati poco dopo l'inizio del caso Bo Xilai, cinque invece quelli sul premio Nobel per la pace a Liu Xiaobo. In seguito i dipartimenti competenti hanno utilizzato i pezzi del Global Times per attaccare i paesi stranieri, e questo ha indotto il mondo a chiedersi se al giornale fosse stato conferito qualche potere speciale, o se stesse beneficiando di una particolare vicinanza al governo di Pechino.

Sebbene diverse persone abbiano accusato Hu Xijin di "speculare [sulle notizie]", tuttavia quelli che speravano di vederlo finire in autogol sull'affaire Bo Xilai certamente debbono essere rimasti delusi. Osservando le opinioni di Hu e del Global Times sulla storia dell'ex astro nascente della politica cinese, non si riesce a trovare nemmeno una parola buona verso Bo o la città di Chongqing. In questo la capacità di giudizio dimostrata da Hu e dal suo giornale è stato motivo di stupore tra i lettori.

Ma a far parlare è stata sopratutto l'edizione in lingua inglese. Inaugurata nell'aprile 2009, dopo soli due mesi la versione anglofona è uscita con un pezzo sul Ventesimo anniversario del massacro di Tian'anmen. L'articolo, rimasto a lungo top secret per volere di Hu, anche una volta dato alle stampe è stato oggetto di molti interrogativi. Stranamente, infatti, non sembra essere costato al Global Times alcuna sanzione, e non per semplice fortuna. Secondo Hu [quanto avvenuto] è "coerente con gli interessi dello stato e della società": tutte le riforme cominciano con un'infrazione, ma occorre che queste infrazioni promuovano lo sviluppo del paese. Se le infrazioni da parte del popolo continuano, poi a distanza di tempo il governo a volte le approva anche. In Cina funziona così".

L'obiettivo della versione inglese è quello di promuovere la diffusione del Global Times, e sopratutto di allinearsi alla esigenze strategiche del governo: "La Cina necessita di comunicare con l'esterno in modo più efficacie, questo è nell'interesse del paese." Sono serviti soltanto quattro mesi per lanciare la nuova edizione; molti dipendenti hanno cominciato a lavorare appena due giorni dopo l'assunzione.

In tutto ci lavorano 100 persone, di cui oltre 20 sono stranieri. Il compito di questi ultimi consiste principalmente nel visionare i pezzi e renderli più scorrevoli da un punto di vista linguistico. Ma spesso intervengono anche nella scelta dei temi da discutere, contribuendo non poco quando si tratta di "questioni spinose". Nell'edizione inglese, infatti, sono anche passate notizie come La polizia interviene durante il Gay Pride di Pechino e Wuhan protesta contro le visite ginecologiche per lavorare nell'amministrazione pubblica.

Oggi la versione anglofona del Global Times è coordinata da un caporedattore di soli 35 anni e con un preciso obiettivo: riuscire a eguagliare i media occidentali. "Tutto quello che scrivono loro (i media stranieri, ndt), lo possiamo scrivere anche noi", ha dichiarato.

Dati i notevoli incassi, il giornale è riuscito ad accumulare sufficienti fondi per poter investire sulla rete. La nascita del sito è stata interamente diretta da Hu Xijin. All'inizio Hu desiderava "un sito che non fosse né grande né piccolo", ma quando nel 2007 il Global Times è comparso su internet, l'immediato successo lo ha spinto a cercare ulteriori finanziamenti per spostare la redazione della versione online in un ufficio più spazioso.

Quando alla fine del 2011 il Quotidiano del popolo digitale ha fatto il suo ingresso in borsa, Hu ha scambiato il 60% delle azioni del Global Times Online con il 14,5% delle azioni del People's Daily digitale, rendendo così il Global Times il secondo maggior azionista del Quotidiano del popolo. Considerando il valore di mercato corrente del Quotidiano del popolo Online, il Global Times detiene azioni per oltre 2 miliardi di yuan. Nel 2012 il Global Times (in caratteri) ha continuato ad accumulare profitti per decine di milioni, mentre le testate metropolitane -che in passato fatturavano facilmente centinaia di milioni- sono incorse in gravissime perdite, rimanendo impantanate in quello che viene comunemente definito l"inverno" della carta stampata. Nella competizione spietata di oggi, il Global Times è riuscito ad affermarsi come uno dei giornali di maggior successo nella Cina continentale.





















venerdì 13 dicembre 2013

Doris & Hong


Doris & Hong è la storia di due donne, due culture, due generazioni a confronto. Hong, 23 anni, è una ragazza di Dalian appassionata d'arte, figlia del boom economico cinese. Doris una signora settantenne nata in Eritrea sotto il fascismo, brillante, vorace esploratrice di culture.Le loro strade si intrecciano per caso nel momento in cui la giovane decide di iscriversi all'Accademia di Belle Arti di Roma. Hong cercava casa; Doris, vivendo sola, desiderava una compagnia. Quella che doveva essere la convivenza di pochi mesi si trasforma in una profonda amicizia. Trascorrono quasi due anni sotto lo stesso tetto, insegnando l'un l'altra a colmare le differenze che separano due culture millenarie. Alla fine Doris andrà a Dalian, conoscerà la famiglia di Hong e imparerà a comunicare con il popolo cinese, entrando in sintonia con un'umanità che non ha confini geografici, ma è universale.

La loro storia ha attratto la cinepresa di Leonardo Cinieri Lombroso, regista indipendente romano approdato in Asia nel 2010 con il documentario Through Korean Cinema. Per completare la sua ultima fatica Cinieri è ricorso al crowdfunding, metodo di finanziamento dal basso che gli ha dato la possibilità di portare Doris e Hong in Cina.

Doris & Hong si discosta dai tuoi precedenti lavori realizzati in estremo oriente. Perché questa volta la scelta di riportare una storia a metà tra Italia e Cina? Una storia vera peraltro...

Leonardo: I miei precedenti progetti erano al cento per cento asiatici, come lo sono quello realizzato in Corea e quello che sto portando avanti nel Sud-Est asiatico. Doris & Hong è differente perché nasce da una mia voglia di viaggiatore in Asia, ma pur sempre occidentale. A lavorare al cento per cento asiatico ad un certo punto ti rendi conto che hai delle mancanze; ti manca la tua cultura che non puoi mettere in quei progetti (nel mio caso, perché parlavo del cinema di quei paesi). E ho sempre avuto in mente un progetto che fosse un ponte tra le due culture. Non sapevo in che forma; avevo l'idea di farlo, l'idea di due persone. Non sapevo se fare un film o un documentario, avevo però già scritto alcuni pensieri.

Tutte queste idee si avvicinavano a un rapporto tra due persone, che potevano essere due anziani così come i protagonisti di una storia d'amore. E poi invece la trama è arrivata a me come per caso. Mi sono trovato la storia già pronta. Doris la conoscevo perché è la madre di una mia amica. Una sera ci siamo incontrati a cena e c'era anche Hong. Per la prima volta le ho viste insieme, e ho visto qualcosa di veramente speciale. La cosa strana è che anche loro due si vedevano speciali.

Quando sono andato a chiedere singolarmente a ognuna di loro se voleva fare il documentario Doris mi ha rivelato che stava tenendo un diario in cui annotava tutto quello che avveniva tra lei e Hong perché lo trovava straordinario. Anche Hong era entusiasta all'idea di girare un documentario sulla loro vita insieme. In fondo è come se fossero state loro a suggerirmi la storia e io mi sono limitato a coglierla. Ci siamo trovati tutti e tre curiosi l'uno dell'altro. E' nato tutto in maniera molto naturale dalla semplice curiosità.

E dal punto di vista tecnico quanto è finzione e quanto invece è realtà?

Leonardo: E' tutto realtà, soltanto abbiamo pensato di ricreare alcune cose particolarmente interessanti che mi ero perso, o che loro avevano fatto in mia assenza. Me le hanno raccontate e le abbiamo simulate utilizzando le stesse parole che si erano dette. Come ad esempio la scena in cui Doris insegna a Hong come fare un uovo al tegamino, presente anche nel trailer. L'uovo, che poi è simbolico nella nostra cultura per la sua semplicità, a Hong sembrava una cosa incomprensibile perché in Cina non sono più abituati a cucinare a casa nel senso tradizionale. Ormai comprano quasi tutto fuori. Ecco che allora quella scena abbiamo deciso di rifarla e inserirla nel documentario perché aveva un suo significato.

Perché hai deciso di ricorrere al crowdfunding? Avevi già usato questo sistema?

Leonardo: No era la prima volta che lo usavo. Ho sempre pensato che per il crowdfunding fosse necessario un progetto giusto per il web. Avevamo deciso di girare la seconda parte della documentario in Cina per far conoscere a Doris la famiglia di Hong, ma non c'erano i soldi per poterlo fare. Il crowfunding era l'unica soluzione. Siamo andati on line e abbiamo fatto due campagne di due mesi ciascuna. La prima era focalizzata soltanto sul web; siamo stati seguiti da piccoli giornali, mentre alcuni blog hanno segnalato il nostro progetto. Abbiamo coinvolto amici e parenti. Però con internet, in Italia, il crowdfunding funziona male. La gente ha ancora paura di fare pagamenti on line, e questo tipo di mentalità è molto penalizzante.

Dopo i primi due mesi in cui abbiamo tentato la via on line, mi sono accorto che la cosa però non andava molto bene. Eravamo riusciti a raccogliere soltanto circa 1000 euro, mentre avevo calcolato che per andare in Cina ce ne servivano sui 5000. Così abbiamo avviato una seconda campagna con un crowdfunding live; ovvero non più web, ma eventi dal vivo. Un ritorno alla tradizione: scatola ed evento. Si dice quello che si fa e la gente mette i soldi dentro. Quello che si faceva una volta lo abbiamo adattato al modello crowdfunding. Abbiamo organizzato eventi dove io e Hong ci improvvisavamo attori, leggevamo poesie dal vivo accompagnati da un suonatore di erhu, proiettavamo il trailer del documentario e poi tutti e tre raccontavamo la storia al pubblico. Abbiamo tenuto due spettacoli, una performance e una piccola mostra in una galleria d'arte. E con questo sistema siamo riusciti a raggiungere la somma necessaria.

Da dove sono arrivati i contributi più sostanziosi?

Leonardo: Perlopiù da amici, parenti e amici degli amici. Agli eventi però ha preso parte anche gente sconosciuta. Mentre su internet sono stati pochissimi gli estranei a contribuire, al crowdfunding live la partecipazione è stata maggiore.

Avete dovuto utilizzare il crowdfunding per problemi di fondi. Qual'è stata la risposta da parte delle istituzioni (italiane e non)?

Leonardo: Abbiamo provato con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali (MIBAC), ma non siamo passati. La Roma & Lazio Film Commission, invece, non ha soldi per via dei problemi che la regione ha affrontato negli ultimi tempi. La mia casa produttrice, la Blue Film, si occupa della parte tecnica: gira e cura sopratutto la post-produzione, ovvero il montaggio. Questo, in sostanza, è quello che ci offre.

Per il documentario coreano ho avuto come sponsor la Film Commission coreana di Seul, mentre la compagnia aerea mi ha dato tutti i biglietti gratis, quindi non ho avuto problemi di soldi. L'attuale progetto nel Sud-Est asiatico è finanziato dal governo di Singapore, trattandosi di una coproduzione tra Italia e Singapore. Doris & Hong invece è nato in Italia, solo che qui non abbiamo trovato fondi e in Cina non avevamo contatti. Alla fine ci siamo dovuti muovere da soli.

Quali prospettive può avere il documentario a livello di distribuzione?

Leonardo: Quando siamo stati a Dalian la madre di Hong ha organizzato degli appuntamenti con i giornalisti e ci ha presentato una persona della televisione locale. Questa persona ha fatto un servizio di tre minuti su di noi e ha detto di essere interessata all'acquisto del nostro progetto e a mandarlo in onda. A Pechino invece l'Istituto di Cultura italiano ha dato la sua disponibilità ad organizzare un evento per sponsorizzare il documentario all'interno della sua struttura, e vorrebbe invitare dei distributori e delle televisioni cinesi per vedere come poter promuoverlo in Cina.

Personalmente, il primo canale che mi interessa come trampolino di lancio è un festival internazionale di qualità. Il primo festival è quello che segna il tuo prodotto, partecipare a uno mediocre vorrebbe dire bruciarsi sul mercato. Per esempio, Sacro GRA è andato bene nelle sale solo perché era stato presentato a Venezia. Il secondo step consiste nel trovare un distributore internazionale, perché è importante che il documentario circoli almeno in Italia e Cina, trattandosi di un progetto che promuove uno scambio tra le due culture. Intanto Rai 4 e Doc3 pare lo vogliano vedere....vedere però...

Come sarà il dopo Doris & Hong?

Leonardo: Doris & Hong è stato un esperimento; il primo ponte tra due culture, e va a interrompere questa via che ho intrapreso dei documentari, entrando un po' nel mondo della fiction. Anche per il modo in cui è stato girato; abbiamo voluto che sembrasse tutto molto reale, cercando di far parlare Doris e Hong, seguendo la loro vita nel quotidiano. Sono situazioni ricostruite, ma in realtà sono reali. Questo ormai è il genere che va per la maggiore, che è poi quello di Tir, il vincitore del Festival di Roma. La mia intenzione futura è sempre quella di continuare a costruire dei ponti.

Sull'idea di Doris & Hong avevo già dietro una sceneggiatura tra Italia e Cina. Ce l'ho pronta e ora sto cercando di produrla. Ancora una volta si tratta della storia tra due personaggi, un italiano e un cinese. Un altro progetto che ho in mente è quello di raccontare la comunità filippina a Roma. Pensavo alla storia di una famiglia emigrata in Italia, perché tutte le famiglie filippine -come, d'altraparte, quelle cinesi- sono divise a metà tra chi rimane in patria e chi viene da noi a lavorare. Potrebbe essere interessante studiare questa dualità.

Il Cinema indipendente in Asia è giovane ma cresce a vista d'occhio. Hai avuto modo di conoscerlo direttamente durante i tuoi viaggi?

Leonardo: In Asia ho avuto rapporti con i grandi registi che sono stati a Berlino, Cannes e Venezia e che poi hanno vinto, come quelli della Corea e del Sud-Est asiatico. Sono stato da loro perché rappresentano i maestri del cinema non solo per la nuova generazione asiatica, ma anche per gli occidentali che li prendono come fonte d'ispirazione. Osservando loro posso capire anche i piccoli, perché i piccoli si ispirano a loro volta ai grandi. Sono loro che cambiano il linguaggio, ed essendo grandi registi, creano un linguaggio che è universale, che rompe lo schema asiatico e occidentale arrivando a tutti.

Mi interessano perché fanno un cinema che non è domestico, che non si chiude nel paese di provenienza, ma che supera le barriere geografiche. Tant'è che ai festival riescono a vincere persino nella competizione con gli occidentali. Sono loro che cambiano il cinema mondiale, anche se poi a livello di distribuzione è un disastro...

Ora che sto lavorando nel Sud-Est asiatico noto le profonde differenze con la Corea che ha invece un tipo di distribuzione sullo stile americano, enorme e potente. La Corea copia molto l'entertainment Usa, avendone subito la dominazione. I paesi del Sud-Est asiatico invece sono i paesi sottosviluppati, vengono considerati ancora terzo mondo, anche se in realtà sono in rapido sviluppo, ed è per questo che sono interessantissimi. E' lì che nascono i nuovi filmmaker.

Questi non hanno alle spalle una struttura cinematografica di produzione come la nostra, gigantesca, con costi altissimi e leggi che bloccano il produttore e il modo di fare film. Senza il peso di una tradizione di cinema alle spalle sono molto più liberi. Loro nascono sopratutto con l'era digitale, quindi con telecamere molto leggere e con queste riescono a girare film straordinari semplicemente perché hanno grandi idee. Sono le idee che contano.

I film americani di oggi sono tutti effetti speciali, non hanno più idee, sono lontani dalla realtà, tanto che non riesci più a entrare in contatto con i personaggi. Invece il neorealismo -che tutti ci insegnano ha cambiato il cinema mondiale- adesso è in Asia. Oggi il Sud-Est asiatico è paragonabile al nostro dopoguerra, quando c'era fermento, energia e voglia di ricostruire. Quando erano tutti poveri, eppure tutti cercavano di mettere un mattone per costruire il futuro economico del paese. Il cinema indipendente di oggi è in Asia.

Possibilità di far arrivare tutto questo da noi?

Da noi il problema è culturale. Basta vedere le news; già soltanto il telegiornale potrebbe aiutare ad aprire la mente alle persone, invece che focalizzarsi sui nostri politici. Il cinema d'altra parte è una finestra sul mondo, ma se la gente non è abituata a vedere oltre i confini nazionali...Sicuramente il mezzo di internet può aiutare il processo di apertura.

Ormai è possibile contattare i nuovi registi [asiatici] direttamente su Facebook, tutta la loro produzione è sul web, non come i nostri che sono inavvicinabili. A livello di distribuzione, poi, la rete è utilissima perché qui non sono più i governi a decidere cosa far passare, ma è il singolo cittadino a scegliere. Oggi il mondo sta cambiando: ci troviamo nel pieno di una crisi generazionale, una crisi d'identità dell'uomo, delle varie culture, dei governi. E il web è l'unico mezzo che dà al cittadino la libertà di scegliere.

Passiamo a Hong. Qual'è stato l'impatto con l'Italia e con una cultura completamente diversa?

Hong: Mi sono resa conto che ci sono profonde differenze. In Cina si dà molta importanza al denaro, alla situazione economica di una persona, mentre la cultura viene messa in secondo piano. Qui, invece, a prescindere dallo status sociale di un individuo, la cultura viene tenuta in grande considerazione perché è qualcosa che tutti dovrebbero avere. Ho apprezzato il ritmo di vita italiano più rilassato, molto meno frenetico rispetto a quello delle città cinesi. Penso che gli italiani siano più felici di noi per questo; perché hanno più tempo da dedicare a sé stessi.

Hai intenzione di rimanere a vivere in Italia o pensi di tornare in Cina?

Hong:  In un immediato futuro non credo di tornare in Cina, vorrei vivere all'estero, non necessariamente in Italia, ma comunque in un altro paese. Perché vivere lontano da casa ti dà maggiore libertà di scelta. Nel paese di nascita siamo tutti influenzati dalle regole che ci impone la società, dalle aspettative che le nostre famiglie proiettano sul nostro futuro. Andando via si può scegliere quello che veramente si desidera fare della propria vita.

Doris, sicuramente il fatto di essere nata in un altro paese la rende una persona "speciale", più portata allo scambio culturale con un paese così diverso come la Cina. Mi parli dei suoi anni in Eritrea. So che avete contattato l'Istituto Luce per inserire nel documentario dei video d'epoca sugli italiani espatriati in Africa nel 1936, sotto il regime fascista...

Doris: Al tempo mio padre e mia madre erano giovani sposi. I loro genitori e nonni avevano dei piccoli alberghi vicino Bergamo, e loro s'erano conosciuti così. Il loro futuro sarebbe stato quello di rimanere a lavorare nelle attività di famiglia, ma decisero di approfittare della campagna di incentivi lanciata da Mussolini per spingere gli italiani ad andare a popolare le colonie africane. Così i miei genitori andarono in Eritrea con i loro due figli piccoli per aprire un albergo. L'idea era quella di restare due-tre anni. Ve ne rimasero ventidue. Nel frattempo nacquero altri figli, tra cui io.

Abitavamo ad Asmara, la capitale; una città che ricorda l'architettura razionalista di Sabaudia, a 2200 metri di altitudine, con una temperatura meravigliosa in mezzo ad una natura rigogliosa. Gli eritrei sono una popolazione molto mite e amabile. Nonostante, alla fine dell'800, la precedente campagna italiana fosse sfociata in un massacro, gli anni avevano fatto dimenticare tutto e gli italiani, come colonizzatori, non erano così razzisti come lo sono oggi verso gli extracomunitari.

Poi mio padre ebbe un presagio: temeva una guerra tra l'Eritrea e l'Etiopia per ragioni etniche e di confini, così decidemmo di tornare in Italia. Il conflitto scoppiò due anni dopo la nostra partenza, nel 1958. Il trasferimento è stato un grandissimo trauma perché fino a quel momento avevamo vissuto in una torre d'avorio, in una terra senza conflitti, con una natura bellissima.

Quando sbarcammo a Napoli avevo 15 anni ed era la mia prima volta in Italia. Proseguimmo verso nord; mio padre cercò un albergo prima a Bergamo, poi in Piemonte, ma non ci piaceva molto...la verità è che non ci piaceva più stare in Italia.

Come le è venuto in mente di prendere una ragazza cinese in casa?

Doris:  Dopo che mia figlia se ne è andata di casa ho avuto con me una ragazza turca per due-tre mesi. Sono una persona molto curiosa, ed essendo nata all'estero alla fine mi trovo meglio con gli stranieri che con gli italiani. L'incontro con Hong è stato come dettato dal destino. Il giorno in cui ci dovevamo accordare perché venisse a vedere la casa mi chiamò sul cellulare l'amico che la stava ospitando per chiedermi indicazioni. Alla fine della telefonata scoprii di essere casualmente proprio sotto il suo portone. Così Hong è scesa dopo nemmeno mezzora e lì ci siamo incontrate per la prima volta. Penso esista una rete di messaggi extrasensoriali e subliminali che a noi sfugge. Doveva restare pochi mesi, ma alla fine Hong è rimasta con me un anno e mezzo.

La sua prima volta in Cina. Il contatto con un altro paese ci dà la possibilità di conoscere un'altra cultura ma anche di conoscere meglio noi stessi. Cosa le ha svelato di lei la Cina?

Doris: E' stata un'esperienza positiva, anche se, a dire il vero, la Cina non rientrava tra i miei obiettivi futuri di viaggio. Il mio interesse per quel paese si limitava alla filosofia, alla cucina e al taiqi, che pratico da oltre dieci anni. Il soggiorno a Dalian è stato tutto filtrato dalla famiglia di Hong che ci ha permesso di avere contatti con la popolazione cinese "vera".

Sicuramente questo viaggio, così come la convivenza con Hong, mi hanno fatto scoprire una tenerezza verso i cinesi, un'accoglienza dell'anima che non avevo. O meglio, che avevo verso gli africani -perché ci avevo vissuto insieme per anni- ma che non provavo per gli asiatici. Ti rendi conto che il mondo è uno, e che siamo veramente tutti uguali. Ricordo in Cina le vecchiette sedute sulle panchine nei parchi, magari di altre estrazioni sociali, ma lo stesso curiosissime di comunicare con te in qualche modo. E alla fine con un tocco, una carezza ci capivamo pur parlando due lingue diverse.

(Pubblicato su China Files)

giovedì 12 dicembre 2013

Commemorare Mao. Aspettando il 26 dicembre

(Aggiornamento del 16 dicembre: L'Ufficio d'Informazione del Consiglio di Stato ha intimato a tutti i siti di non dare risonanza all'articolo pubblicato il 13 dicembre dal Southern Metropolis Daily dal titolo "E' stato richiesto di cambiare il nome della commemorazione del compleanno di Mao Zedong presso la Grande Sala del Popolo", e di tutte le notizie correlate. Ha stato, inoltre, ordinato di "eliminare tutto il materiale già pubblicato, di terminare ogni conversazione sull'argomento avviata sui segmenti interattivi e controllare rigorosamente i commenti online." Il nome della commemorazione -trasformato in New Year Gala- è stato modificato al fine di mantenere un profilo più basso in vista del concerto sinfonico dedicato al 120esimo dalla nascita di Mao. Recentemente l'Ufficio d'Informazione del Consiglio di Stato ha fatto abbassare la scure su un articolo di Phoenix Net in cui si accennava ai poteri soprannaturali di alcune foto del padre della Patria.)

A Zhengzhou il countdown ai festeggiamenti per il 120esimo dalla nascita del Grande Timoniere prosegue non senza intoppi. Recentemente un seminario organizzato dalla sinistra maoista della capitale provinciale dello Henan è incappato nell'ostruzionismo dei funzionari locali. Lo stesso giorno il rappresentante del movimento Ai Yuejin è stato trattenuto due ore dalla polizia aeroportuale, la quale gli ha intimato di cancellare la conferenza. Sebbene divieti simili fossero stati estesi all'hotel che doveva ospitare l'evento, gli esponenti della sinistra hanno ugualmente portato avanti le attività previste. Eppure i partecipanti non hanno potuto fare altro che assistere tutto il tempo in piedi.

Il 6 dicembre Ai Yuejin, professore dell'Università Nankai nonché esponente della sinistra maoista, è stato fermato e tenuto in custodia per due ore dalla polizia mentre si trovava all'aeroporto di Zhengzhou. Non doveva assolutamente prendere parte al seminario. L'albergo prescelto per l'evento ricevette l'ordine di non permettere il corretto svolgimento. In risposta i membri del movimento maoista hanno issato striscioni e, in barba ai divieti, hanno portato avanti la conferenza. Lo staff dell'hotel si è rifiutato di procurare le sedie, anche se le forze dell'ordine non sono intervenute. Secondo il sito di sinistra "Red Songs", la commemorazione era stata organizzata da "Utopia", un'altra nota piattaforma rossa.
In serata, l'ira degli esponenti di estrema sinistra (fazione politica strettamente collegata all'ex segretario di Chongqing Bo Xilai, ndt) è rimbalzata sulla rete, ma buona parte dei commenti pubblicati è stata rimossa. L'evento di Zhengzhou era stato promosso mantenendo un basso profilo: l'annuncio del seminario, visibile su un sito internet, non riporta l'indirizzo preciso della sala conferenze, che può essere visualizzato soltanto previa registrazione. E, d'altra parte, di basso profilo è stata anche la risposta delle forze di sicurezza.

(Fonte: Epoch Times)

知要求取消,但毛左坚持在酒店大堂举行原定活动,所有参加的人只能全程站立。  12月6日毛左一位代表性人物南开教授艾跃进,在郑州举行的有关演讲遭到官方阻扰。当天艾跃进在郑州机场派出所被当地公安局国保大队滞留两小时,国保人员劝说其取消讲座。毛左原定的酒店会议厅也被酒店要求取消。毛左们干脆耍无赖直接在酒店大堂拉出横幅,站着进行有关活动。期间酒店方拒绝提供任何椅子,但警方也没有继续进行干预。根据毛左新开办的网站《红歌网》介绍,此次纪念活动的举办单位是乌有之乡大讲堂。
 当晚一些毛左在网上生气,不过毛左在网上披露的相关内容,不少都直接遭到删除。,   毛左这次在郑州举行的纪念活动,事先相当低调进行宣传,从一个网站上看他们发出的活动通知看,都没有写具体的地址,称需要报名通过后告知活动具体地址。而从官方的反应来看,也一样低调对他们活动进行限制。




martedì 10 dicembre 2013

L'altro nome del laojiao


Alla fine di novembre le amministrazioni di Shanghai e Changsha, capitale provinciale dello Hunan, hanno reso noto di aver messo in libertà tutti i detenuti dei campi di lavoro locali. L'annuncio è giunto a stretto giro dalla conclusione del Terzo Plenum del Comitato centrale del Partito, evento in occasione del quale Pechino ha introdotto riforme epocali come non se ne vedevano dai tempi di Deng Xiaoping. L'abolizione del laojiao, il sistema di rieducazione attraverso il lavoro introdotto da Mao per punire i controrivoluzionari e, in seguito, destinato a piccoli criminali e dissidenti, è una di queste.

Ma l'entusiasmo generale per la svolta rivoluzionaria è stato presto smorzato da quanti hanno messo in dubbio le buone intenzioni dell'establishment. E se il laojiao continuasse a vivere sotto un altro nome? Mentre -stando a Wang Gongyi dell'istituto di ricerca del Ministero della Giustizia cinese- molti campi di lavoro verranno utilizzati come centri di riabilitazione per tossicodipendenti, il sistema di "custodia ed educazione" (C&E system o shourong jiaoyu in cinese) è una delle forme meno appariscenti attraverso le quali il laojiao potrebbe continuare a sopravvivere. Qui le prostitute e i loro clienti vengono trattenuti senza processo per un periodo che va dai sei mesi ai di due anni (contro i 4 della rieducazione attraverso il lavoro), e come, nel laojiao, i detenuti sono sottoposti a una custodia carceraria che li priva della libertà personale. L'obiettivo conclamato è quello di impartire loro "un'educazione morale e legale", renderli partecipi al "lavoro produttivo" e sottoporli a "controlli e trattamenti sulle malattie sessualmente trasmissibili".

All'articolo 7 delle Misure per la custodia e l'educazione delle prostitute e dei clienti, il sistema viene trattato come un provvedimento transitorio che si pone in posizione intermedia tra la Public Security Administration Penalty Law (che prevede tra i 10 e i 15 giorni di detenzione più una multa) e la rieducazione attraverso il lavoro.

Stando ai dati dell'organizzazione no-profit Asia Catalyst, ripresi da Quartz, nel 2002, i centri di "custodia ed educazione" erano circa 200, mentre sarebbero oltre 300mila le persone trattenute tra il 1987 e il 2000. Nel maxi pacchetto di riforme varato da Pechino non è stata fatta parola sulla sospensione del sistema.

Trenta ex detenute, intervistate da Asia Catalyst tra la fine del 2012 e il luglio 2013, hanno fatto luce su una violazione sistematica dei diritti umani durante il periodo di rieducazione: confessioni estorte dalla polizia con la violenza e condizioni di detenzione disumane. Alle prigioniere veniva vietato l'utilizzo dei bagni durante la notte e di comunicare nel loro dialetto nativo durante le conversazioni telefoniche con i parenti. Una volta rilasciate, le 30 donne sono tutte tornate alla vecchia "vita di strada".

A partire dal 1982, in Cina, la prostituzione ha visto un netto aumento e, nonostante sia illegale, continua a rappresentare un business molto redditizio (ne avevamo parlato qui). La connivenza delle autorità -che dalle multe comminate ai venditori e agli acquirenti di sesso ricavano lauti guadagni- è la principale causa del fallimento della battaglia contro il mestiere più vecchio del mondo, in atto fin dai tempi di Mao. Imparare a gestire il fenomeno ai governi locali conviene più che estirparlo alla radice.

Ad essere finite nei campi di "custodia ed educazione" sono sopratutto donne provenienti dalle aree rurali più povere, costrette a pagarsi persino le spese durante il periodo di detenzione. Nonostante la legge cinese stabilisca che i prigionieri debbano ricevere un compenso per il lavoro prestato, nessuna delle 30 intervistate ha ottenuto alcuna remunerazione. Ad alcune di loro è stato persino estorto del denaro in cambio della promessa di non venire prese in custodia.

"Penso che venga fatto tutto per i soldi" ha commentato una delle donne interpellate da Asia Catalyst "Qualsiasi discorso sulla rieducazione ideologica è falso. Si tratta soltanto di un modo per estorcere denaro in nome del governo e delle istituzioni preposte all'applicazione della legge".


sabato 7 dicembre 2013

Nessun divorzio tra Cina e Usa per l'ADIZ


(Aggiornamento dell'8 dicembre: la Corea del Sud ha annunciato di aver espanso la propria zona di difesa aerea, che così si va sovrapporre a quella precedentemente stabilita dalla Cina. Ora le ADIZ di entrambi i paesi abbracciano le isole Ieodo/Suyan. Il Giappone ha fatto sapere di non avere "problemi immediati" con la manovra di aggiustamento di Seul, la prima dal 1951, anno in cui fu istituita dalle forze armate americane al tempo della guerra di Corea. Ancora dura invece la linea tenuta da Tokyo nei confronti dell'ADIZ cinese, con il ministro della Difesa Onudera che ha richiesto l'intervento della comunità internazionale.

Non sono mancate certo le belle parole. Nella sua due giorni pechinese il vice presidente americano Joe Biden ha parlato di "nuove relazioni" tra due grandi potenze, rimarcando l'esigenza di "fiducia" e "franchezza" tra le parti. Ma non ha neppure mancato di condannare come "atto provocatorio" l'istituzione della zona di identificazione e di difesa aerea cinese, annunciata al mondo (senza preavviso) dal ministero della Difesa il 23 novembre scorso.

L'ultima manovra militare è valsa a Pechino le critiche dei vicini asiatici, impensieriti da quella che è stata letta da più parti come il campanello d'allarme di una crescente assertività nella regione. E non sono servite a molto le spiegazioni ufficiali del dicastero cinese: a partire dagli anni 50 del secolo scorso, più di 20 paesi -tra i quali Stati Uniti e Giappone- si sono dotati di una loro ADIZ in cui viene richiesto la localizzazione, l'identificazione e il controllo dei velivoli nell'interesse della sicurezza nazionale, ha immediatamente chiarito l'agenzia di stampa Xinhua. Il concetto è stato poi ripreso e amplificato in un editoriale dell'oltranzista Global Times dal titolo eloquente "L'ADIZ ridurrà la tensione nel Mar Cinese Orientale", ad affermare come l'Air Defense Identification Zone non ha lo scopo di innescare una crisi nell'area, quanto piuttosto quello di evitarla attraverso un meccanismo di controllo preventivo.

Parole rimbalzate contro un muro di gomma. Fin da subito Washington ha annunciato che non si sarebbe attenuta alle procedure di identificazione richieste, ribadendo il concetto dopo alcune ore inviando nell'ADIZ (senza comunicarlo a chi di dovere) due B-52 per un'esercitazione già in programma, salvo poi ordinare a tutti gli arerei di linea a stelle e strisce di consegnare i piani di volo al governo cinese per ragioni di sicurezza. In barba agli ordini cinesi, anche diversi aerei giapponesi, sudcoreani e taiwanesi hanno attraversato la ADIZ senza rispettare le richieste di Pechino.

Come rammenta il quotidiano nazionalista, nel secondo trimestre di quest'anno i jet giapponesi hanno interferito con le normali operazioni dei velivoli cinesi 69 volte. Nello stesso periodo dello scorso anno incidenti simili si erano verificati solo 15 volte.

"Lo spazio di identificazione aerea non è una no-fly zone. La Cina ha sempre rispettato la libertà di volo di tutti i paesi purché osservino il diritto internazionale e siano identificabili dalla direzione della ADIZ" spiega il Global Times. D'altra parte, come messo in risalto da Bonnie Glaser su Asia Times, la Repubblica popolare starebbe cercando di far rispettare delle regole che differiscono da quelle standard, chiedendo ad ogni aeromobile che attraversi la zona di fare rapporto indipendentemente dalla destinazione finale. Giappone e Stati Uniti hanno sì le loro ADIZ, ma esigono i piani di volo soltanto da quei velivoli che hanno intenzione di passare per lo spazio aereo nazionale. Inoltre l'Air Self Defense Force nipponica non riceve mai direttamente informazioni sui piani di volo degli aerei civili, ma bensì attraverso il Ministero della Terra delle Infrastrutture, dei Trasporti e del Turismo.

Ma c'è dell'altro a rendere le richieste di Pechino particolarmente indigeste: la nuova Air Defense Identification Zone va a sovrapporsi a quelle di Giappone e Corea del Sud, finendo per includere le famigerate isole Diaoyu/Senkaku, da diverse decadi oggetto del contendere tra Dragone, Sol Levante e Taiwan, e tornate sotto la lente d'ingrandimento dopo la nazionalizzazione da parte del governo nipponico nel settembre 2012. Poco più di pugno di scogli finito nelle mire dei giganti asiatici negli anni 60 per via delle risorse naturali nascoste nei fondali limitrofi e coperte da un trattato di sicurezza tra Tokyo e Washington, ai sensi del quale una eventuale difesa delle isole da parte dei giapponesi può obbligare gli Stati Uniti a fornire loro sostegno militare.

I timori che le periodiche schermagli si trasformino in un conflitto tra Cina e Giappone non fanno dormire sonni tranquilli all'Aquila, gendarme del Pacifico dalla seconda guerra mondiale e,-dopo la fitta agenda mediorientale- nuovamente tutta proiettata verso l'Estremo Oriente, come richiesto dal "pivot" di Obama: oggi le truppe Usa contano 52mila unità in Giappone e 28mila in Corea del Sud.
Un articolo del New York Times, datato 3 marzo 1972, rivela come già allora il governo di Tokyo facesse pressione perché Washington assumesse una posizioni (militarmente) più decisa sulle Diaoyu/Senkaku, inviando imbarcazioni armate della guardia costiera.

Eppure le frizioni tra i cugini asiatici, come d'altra parte le provocazioni belliciste nordcoreane, danno il pretesto agli Usa per una presenza più massiccia nella regione, motivo di allarme per Pechino che si vede principale destinatario dell'abbraccio soffocante di Washington. Allora ecco che qualche dubbio è più che lecito: "Perché gli Stati Uniti non hanno definito 'azioni unilaterali' quelle dell'establishment giapponese, che nel 1969 ha stabilito la sua ADIZ, includendo le Diaoyu cinesi, e ha poi proceduto alla loro nazionalizzazione?" si chiede il Global Times.

Il commento di Alessandro Lattanzio, gestore del sito di geopolitica Aurora, redattore di Eurasia e presidente dell'Istituto Mediterraneo per la democrazia Diretta: Il "Pivot", o "riequilibrio" dell'amministrazione Obama, cerca di consolidare una rete di alleanze, partnership strategiche e basi militari in tutta l'Asia, dalla Corea del Sud  e Giappone al Sud-Est asiatico, all'Australia, all'Asia meridionale e centrale. Lungi dal porre un cuneo tra Giappone e Stati uniti, Washington ha colto l'ADIZ cinese per rafforzare i legami militari con il Giappone e fare pressione su Pechino. La Corea del Sud, che la Cina corteggiava, s'è agitata fortemente cotro Pechino e si oppone all'ADIZ cinese, che comprende uno scoglio sommerso (noto come Ieodo in Corea e Sunyan in Cina) rivendicato da Seul.

Sarebbe dunque un errore valutare la disputa per gli atolli del Mar Cinese Orientale come una semplice questione energetica. Il controllo delle isole e delle zone marittime di influenza esclusiva è stato definito da Pechino di interesse fondamentale (core interest), un concetto, fino a qualche tempo fa, utilizzato soltanto per il Tibet e lo Xinjiang, le due province polveriera all'estremo Ovest della Repubblica popolare. Ogni ingerenza straniera sui core interest viene considerata dal Dragone un'intrusione negli affari propri.

Questo è il pesante fardello che Biden ha portato con sé nella capitale cinese, tappa intermedia di una trasferta asiatica che lo ha visto prima in Giappone e poi in Corea del Sud. Così se nei piani iniziali le tematiche chiave dovevano essere il nucleare di Pyongyang e gli scambi commerciali tra i vari attori dello scacchiere Asia-Pacifico, alla fine a tenere banco pare sia stata proprio la zona di identificazione aerea cinese. Accolte le proteste di Tokyo ("Parlerò ai leader cinesi della questione con estrema specificità", aveva promesso"), giunto al cospetto di Xi Jinping -il presidente cinese ritratto dall'Economist negli abiti imperiali di un novello Qianlong per via delle sue ambizioni nazionalistiche- Biden ha assunto una posizione molto più conciliante. In quell'incontro durato ben due ore, rispetto ai 45 minuti inizialmente previsti, Biden ha rinnovato le preoccupazioni di Washington circa la ADIZ senza tuttavia riuscire a strappare alcuna concessione da Xi. Da questo "fallimento" traspare tutta la difficoltà americana nel mediare tra l'alleato, guidato dalla destra di Shinzo Abe, e una Cina al cui timone siede una leadership che soffia sempre più spesso sul fuoco del nazionalismo per distogliere il popolo dalle numerose distorsioni sociali, spina nel fianco del Paese. Con il rischio che le fiamme si propaghino in un incendio, data la facilità con la quale i sentimenti nazionalistici attecchiscono tra i giovani cinesi, sopratutto attraverso il web. E ne è prova la reazione accorata degli internauti, indignati per la risposta troppo tiepida di Pechino alle intrusioni aeree di questi giorni.

In conferenza stampa, come sottolineato dalla Reutersné Biden né Xi Jinping fanno menzione della ADIZ cinese. Si parla invece molto di "sincerità" e "fiducia", fattori imprescindibili nel rapporto tra la prima e la seconda potenza mondiale, in un contesto di crescenti sfide internazionali sulle quali oggi Pechino e Washington si trovano a discutere da pari a pari. La partecipazione più che attiva del Dragone all'accordo sul nucleare iraniano e ad un riavvicinamento tra Israele e Palestina mostrano chiaramente la volontà della Cina di assurgere a player globale. Quanto al valore dell'asse Pechino-Washington basti pensare che nel 1985 il commercio tra i due paesi valeva solo 7,7 miliardi di dollari. Nel 2000, la cifra è salita a 116 miliardi, nel 2012 ha raggiunto i 536 miliardi di dollari, il che mette gli Usa e la Cina nella posizione di creare il più grande rapporto commerciale della storia. La cautela adottata nell'ultima visita dal vicepresidente Usa è una conferma di quel "matrimonio", coronato all'inizio dell'estate dal meeting di Sunnylands tra Obama e Xi, che non ammette divorzio. Sopratutto se a causare lo strappo è un "alterazione unilaterale dello status quo" che gli Usa hanno messo in atto per primi nel 1950.









Hukou e controllo sociale

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