martedì 10 dicembre 2013
L'altro nome del laojiao
Alla fine di novembre le amministrazioni di Shanghai e Changsha, capitale provinciale dello Hunan, hanno reso noto di aver messo in libertà tutti i detenuti dei campi di lavoro locali. L'annuncio è giunto a stretto giro dalla conclusione del Terzo Plenum del Comitato centrale del Partito, evento in occasione del quale Pechino ha introdotto riforme epocali come non se ne vedevano dai tempi di Deng Xiaoping. L'abolizione del laojiao, il sistema di rieducazione attraverso il lavoro introdotto da Mao per punire i controrivoluzionari e, in seguito, destinato a piccoli criminali e dissidenti, è una di queste.
Ma l'entusiasmo generale per la svolta rivoluzionaria è stato presto smorzato da quanti hanno messo in dubbio le buone intenzioni dell'establishment. E se il laojiao continuasse a vivere sotto un altro nome? Mentre -stando a Wang Gongyi dell'istituto di ricerca del Ministero della Giustizia cinese- molti campi di lavoro verranno utilizzati come centri di riabilitazione per tossicodipendenti, il sistema di "custodia ed educazione" (C&E system o shourong jiaoyu in cinese) è una delle forme meno appariscenti attraverso le quali il laojiao potrebbe continuare a sopravvivere. Qui le prostitute e i loro clienti vengono trattenuti senza processo per un periodo che va dai sei mesi ai di due anni (contro i 4 della rieducazione attraverso il lavoro), e come, nel laojiao, i detenuti sono sottoposti a una custodia carceraria che li priva della libertà personale. L'obiettivo conclamato è quello di impartire loro "un'educazione morale e legale", renderli partecipi al "lavoro produttivo" e sottoporli a "controlli e trattamenti sulle malattie sessualmente trasmissibili".
All'articolo 7 delle Misure per la custodia e l'educazione delle prostitute e dei clienti, il sistema viene trattato come un provvedimento transitorio che si pone in posizione intermedia tra la Public Security Administration Penalty Law (che prevede tra i 10 e i 15 giorni di detenzione più una multa) e la rieducazione attraverso il lavoro.
Stando ai dati dell'organizzazione no-profit Asia Catalyst, ripresi da Quartz, nel 2002, i centri di "custodia ed educazione" erano circa 200, mentre sarebbero oltre 300mila le persone trattenute tra il 1987 e il 2000. Nel maxi pacchetto di riforme varato da Pechino non è stata fatta parola sulla sospensione del sistema.
Trenta ex detenute, intervistate da Asia Catalyst tra la fine del 2012 e il luglio 2013, hanno fatto luce su una violazione sistematica dei diritti umani durante il periodo di rieducazione: confessioni estorte dalla polizia con la violenza e condizioni di detenzione disumane. Alle prigioniere veniva vietato l'utilizzo dei bagni durante la notte e di comunicare nel loro dialetto nativo durante le conversazioni telefoniche con i parenti. Una volta rilasciate, le 30 donne sono tutte tornate alla vecchia "vita di strada".
A partire dal 1982, in Cina, la prostituzione ha visto un netto aumento e, nonostante sia illegale, continua a rappresentare un business molto redditizio (ne avevamo parlato qui). La connivenza delle autorità -che dalle multe comminate ai venditori e agli acquirenti di sesso ricavano lauti guadagni- è la principale causa del fallimento della battaglia contro il mestiere più vecchio del mondo, in atto fin dai tempi di Mao. Imparare a gestire il fenomeno ai governi locali conviene più che estirparlo alla radice.
Ad essere finite nei campi di "custodia ed educazione" sono sopratutto donne provenienti dalle aree rurali più povere, costrette a pagarsi persino le spese durante il periodo di detenzione. Nonostante la legge cinese stabilisca che i prigionieri debbano ricevere un compenso per il lavoro prestato, nessuna delle 30 intervistate ha ottenuto alcuna remunerazione. Ad alcune di loro è stato persino estorto del denaro in cambio della promessa di non venire prese in custodia.
"Penso che venga fatto tutto per i soldi" ha commentato una delle donne interpellate da Asia Catalyst "Qualsiasi discorso sulla rieducazione ideologica è falso. Si tratta soltanto di un modo per estorcere denaro in nome del governo e delle istituzioni preposte all'applicazione della legge".
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