(Scritto per il numero speciale di Uno sguardo al femminile per la giornata mondiale contro la violenza sulle donne)
Un'ondata di violenza sta travolgendo la regione Asia-Pacifico a ritmi impressionanti, e le prime a pagarne le spese sono le donne. Lo confermano i risultati di una ricerca pubblicata lo scorso settembre dalle Nazioni Unite che ha coperto Bangladesh, Cambogia, Cina, Indonesia, Papua Nuova Guinea e Sri Lanka: quasi la metà degli oltre 10.000 uomini intervistati ha riconosciuto di aver usato violenza fisica o sessuale contro una donna, un quarto ha ammesso lo stupro, il 4% di aver preso parte ad abusi di gruppo.
Nella maggior parte delle aree prese in esame la violenza femminile si attesta tra il 30 e il 57%, oscillando dal 26% dell'Indonesia rurale all'80% di Bougainville, nella Papua Nuova Guinea. Eccetto Bougainville, tutti i paesi coperti dal sondaggio hanno rivelato una netta prevalenza di stupri e violenze all'interno di una relazione. Tra il 72% e il 97% degli uomini macchiatisi di crimini contro le donne è rimasto impunito.
Tra i risultati più scioccanti dell'indagine balza agli occhi l'età giovanissima alla quale gli intervistati sono stati coinvolti in episodi di violenza. La metà di quanti si sono dichiarati colpevoli ha rivelato di aver messo in atto maltrattamenti fin dall'adolescenza; il 23% di Bougainville e il 16% della Cambogia ha affermato di aver avuto 14 anni o anche meno al momento del primo stupro.
Lo studio -condotto da Partners for Prevention, sforzo congiunto a livello regionale tra il programma delle Nazioni unite per lo Sviluppo (UNDP), il fondo delle Nazioni unite per la popolazione (UNFPA), UN Women e i Volontari delle Nazioni Unite (UNV) nell'Asia e nel Pacifico- sottolinea, altresì, la scarsezza dei finanziamenti destinati alla ricerca demografica e sociale da parte di chi detiene il potere decisionale. I sostenitori dei diritti delle donne hanno tentato in vari modi di trascinare il problema degli abusi davanti agli alti scranni della politica, mettendone in luce gli enormi costi economici. Come riporta CARE, nel Bangladesh, per esempio, il costo totale delle violenze domestiche, nel 2010, ha superato gli 1,8 miliardi di dollari, pari al 12,7 % della spesa pubblica di quell'anno e molto vicino a quanto sborsato complessivamente per salute e nutrizione.
I numeri snocciolati dalle Nazioni Unite rivelano la necessità di prevenire prima ancora che curare, mettendo in discussione i principi su cui poggia la "mascolinità" in molte aree del globo. Tra le motivazioni più ricorrenti addotte dagli intervistati colpevoli di stupro, infatti, svetta la convinzione maschile di avere "diritto al sesso" anche senza il consenso della donna (questa la risposta data da oltre l'80% nel Bangladesh e nella Cina rurale). Molti dei violenti, d'altra parte -come si legge nello studio-, hanno alle spalle a loro volta un passato di maltrattamenti e abusi sessuali in età infantile. Alta anche la percentuali di quanti soffrono, o hanno sofferto, di stress e depressione con tendenze al suicidio.
Numerosi sforzi sono stati diretti a inquadrare la cosiddetta violenza "privata" nella debacle femminile nella ricostruzione pacifica dei paesi frequentemente soggetti a conflitti (nei principali processi di pace condotti tra il 1992 e il 2011, erano donne soltanto il 9% dei negoziatori, il 4% dei firmatari e il 2,4% dei mediatori). Le prove concrete della sconfitta sono ravvisabili nello stanziamento di fondi inadeguati per implementare le politiche consigliate da alcune agenzie esterne, come l'Agenzia australiana per lo sviluppo internazionale, che già nel 2009 aveva cercato di sensibilizzare l'opinione pubblica riguardo le violenze femminili nella Melanesia e a Timor Est. Proprio il governo di Canberra ha tentato di tingere di rosa la diplomazia regionale con la nomina di un'Ambasciatrice Globale per le Donne e le Ragazze, Penny Williams, entrata in carica nel settembre 2011 sotto la premiership di Julia Gillard. Obiettivo primario: sostenere la partecipazione paritaria delle donne nelle questioni economiche, politiche e sociali.
Ma nell'ultimo studio di Partners for Prevention a rimetterci la faccia è sopratutto la Cina, il gigante asiatico definito dai più un paese a due velocità; dove il repentino sviluppo economico degli ultimi anni stride con la lenta sensibilizzazione verso i diritti umani. La condizione delle donne cinesi è ancora tutt'altro che da seconda potenza mondiale, con una lunga tradizione confuciana che per secoli ha voluto l'"altra metà del Cielo" sottomessa alla figura maschile attraverso l'osservanza dei "tre principi d'obbedienza" (sottomissione al padre prima del matrimonio, quindi al marito e, in caso di vedovanza, al fratello.
Secondo i risultati di un'indagine pubblicata nel 2011 da All China Women's Federation (ACWF), in Cina, circa un quarto delle donne sposate ha subito una qualche forma di abuso durante il matrimonio, e per più del 5% le violenze familiari sono ancora una realtà di tutti i giorni. Il 24,7% è stato sottoposto ad umiliazioni verbali, abusi sessuali e restrizioni della propria libertà, perdendo il controllo delle proprie finanze; il 5,5% è vittima di maltrattamenti fisici, con un tasso del 7,9% nelle zone rurale e del 3,1% nelle aree urbane.
Martedì, in occasione di un seminario congiunto tra Repubblica popolare e Australia -che ha sancito la nascita del primo centro d'intervento sulle violenze domestiche cinese- Tan Lin, segretario di ACWF ha dichiarato che le associazioni per la tutela delle donne ricevono all'anno 50 mila casi di abusi in famiglia.
Diversi sondaggi effettuati tra le detenute delle prigioni cinesi hanno rivelato un significativo collegamento tra i crimini commessi e le violenze subite in casa. Per esempio, un'indagine effettuata nel 2005 dietro le sbarre, nella provincia nord-orientale del Liaoning, mostra che il 50% delle donne arrestate per reati gravi aveva subito maltrattamenti in famiglia.
Nonostante, nell'ultima decade, il governo di Pechino abbia progressivamente migliorato il quadro legislativo per proteggere chi ha subito violenze tra le mura domestiche, tuttavia i nodi da sciogliere sono ancora molti. Il termine "violenza domestica" ha fatto la sua prima comparsa nel corpo normativo cinese soltanto nel 2001, quando la Legge sul Matrimonio è stata emendata comprendendo alcune misure volte a prevenire i maltrattamenti in famiglia. Nella stessa occasione veniva fatta chiarezza sulle responsabilità in materia dei comitati di villaggio e di quartiere.
Oggi la Cina manca ancora di una legge contro le violenze domestiche che dia indicazioni specifiche su come portare avanti i casi nelle corti di giustizia. La mancanza di procedure concrete per la raccolta di prove che attestino "frequenti e costanti abusi" rappresenta uno degli ostacoli maggiori.
Nel luglio 2011, per la prima volta, All China Women's Federation ha presentato all'Assemblea nazionale del popolo, il parlamento cinese, una bozza di legge contro le violenze domestiche che è stata inclusa nell'agenda di quest'anno per essere discussa, al fine di valutarne la necessità e fattibilità.
Nel frattempo, il governo ha lanciato una serie di progetti di riforma ed esperimenti politici per rafforzare la capacità delle istituzioni giuridiche e responsabilizzare gli attori del sistema della giustizia verso la questione. E' questo il caso degli "ordini di protezione" per i sopravvissuti alle violenze emessi da oltre 200 tribunali a livello locale attraverso tutto il paese.
D'altra parte, i dati rilasciati lo scorso ottobre da un tribunale di Pechino mostrano che meno del 20% delle richieste di tutela contro le violenze domestiche vengono accolte dalle corti di giustizia, sopratutto per via della difficoltà nelle verifiche e nella raccolta delle prove. Le cifre rilasciate da altre provincie, come il Guangdong e lo Shandong, indicano tassi ancora più bassi che vanno dal 2 al 15%.
A ciò si aggiunga la scarsa reattività da parte delle istituzione competenti a livello comunitario. Gli episodi di violenza domestica rientrano nell'ambito di pertinenza della polizia dal 2008, ma è lunga la lista dei casi in cui le forze dell'ordine non sono state in grado di prevenire vere e proprie tragedie. Qualcuno, forse, ricorderà la storia di Dong Shanshan, picchiata a morte dal marito, nel 2009, dopo aver chiesto aiuto alla polizia ben otto volte.
E se i maltrattamenti tra le mura di casa rappresentano una delle piaghe più dolenti per le donne cinesi, gli abusi al femminile, nel Regno di Mezzo, hanno assunto anche forme pressocchè istituzionalizzate. Negli ultimi 30 anni la politica sul controllo delle nascite, avviata negli anni '70 per mettere un freno all'iperbolica crescita demografica del paese, -secondo le stime del ministero della Sanità- ha portato alla realizzazioni di 400 milioni di aborti, 196 milioni di sterilizzazioni, mentre sarebbero 403 milioni le donne sottoposte all'introduzione di dispositivi anticoncezionali intrauterini. Proprio alcuni giorni fa, in occasione della Terza riunione plenaria del Partito, la leadership di Pechino ha deciso di rimettere mano alla politica del figlio unico, permettendo alle coppie formate da un figlio unico di avere fino a due bambini.
La riforma, che giunge in un momento in cui il Dragone si trova a fare i conti con una popolazione sempre più vecchia e composta prevalentemente da uomini, sembra avere poco a che fare con il raggiungimento di una piena maturità nel campo dei diritti umani. A impensierire l'establishment pare piuttosto essere il trend in discesa della forza lavoro nazionale (entro il 2020, la popolazione tra i 15 e i 59 anni passerà da 944 milioni a 920 milioni di unità, secondo le stime dell'Ufficio nazionale di Statistica). Le nuove disposizioni - avvertono gli esperti- lasceranno immutata la natura sostanziale della politica di pianificazione familiare che include l'utilizzo di misure coercitive per controllare le nascite. Non di rado i funzionari locali, al fine di rispettare le quote stabilite dal governo, forzano le donne ad acconsentire all'inserimento di dispositivi intrauterini, o -nel caso in cui abbiano già avuto "troppi" figli- alla sterilizzazione e all'aborto. E i numeri parlano chiaro.
Secondo i risultati di un'indagine pubblicata nel 2011 da All China Women's Federation (ACWF), in Cina, circa un quarto delle donne sposate ha subito una qualche forma di abuso durante il matrimonio, e per più del 5% le violenze familiari sono ancora una realtà di tutti i giorni. Il 24,7% è stato sottoposto ad umiliazioni verbali, abusi sessuali e restrizioni della propria libertà, perdendo il controllo delle proprie finanze; il 5,5% è vittima di maltrattamenti fisici, con un tasso del 7,9% nelle zone rurale e del 3,1% nelle aree urbane.
Martedì, in occasione di un seminario congiunto tra Repubblica popolare e Australia -che ha sancito la nascita del primo centro d'intervento sulle violenze domestiche cinese- Tan Lin, segretario di ACWF ha dichiarato che le associazioni per la tutela delle donne ricevono all'anno 50 mila casi di abusi in famiglia.
Diversi sondaggi effettuati tra le detenute delle prigioni cinesi hanno rivelato un significativo collegamento tra i crimini commessi e le violenze subite in casa. Per esempio, un'indagine effettuata nel 2005 dietro le sbarre, nella provincia nord-orientale del Liaoning, mostra che il 50% delle donne arrestate per reati gravi aveva subito maltrattamenti in famiglia.
Nonostante, nell'ultima decade, il governo di Pechino abbia progressivamente migliorato il quadro legislativo per proteggere chi ha subito violenze tra le mura domestiche, tuttavia i nodi da sciogliere sono ancora molti. Il termine "violenza domestica" ha fatto la sua prima comparsa nel corpo normativo cinese soltanto nel 2001, quando la Legge sul Matrimonio è stata emendata comprendendo alcune misure volte a prevenire i maltrattamenti in famiglia. Nella stessa occasione veniva fatta chiarezza sulle responsabilità in materia dei comitati di villaggio e di quartiere.
Oggi la Cina manca ancora di una legge contro le violenze domestiche che dia indicazioni specifiche su come portare avanti i casi nelle corti di giustizia. La mancanza di procedure concrete per la raccolta di prove che attestino "frequenti e costanti abusi" rappresenta uno degli ostacoli maggiori.
Nel luglio 2011, per la prima volta, All China Women's Federation ha presentato all'Assemblea nazionale del popolo, il parlamento cinese, una bozza di legge contro le violenze domestiche che è stata inclusa nell'agenda di quest'anno per essere discussa, al fine di valutarne la necessità e fattibilità.
Nel frattempo, il governo ha lanciato una serie di progetti di riforma ed esperimenti politici per rafforzare la capacità delle istituzioni giuridiche e responsabilizzare gli attori del sistema della giustizia verso la questione. E' questo il caso degli "ordini di protezione" per i sopravvissuti alle violenze emessi da oltre 200 tribunali a livello locale attraverso tutto il paese.
D'altra parte, i dati rilasciati lo scorso ottobre da un tribunale di Pechino mostrano che meno del 20% delle richieste di tutela contro le violenze domestiche vengono accolte dalle corti di giustizia, sopratutto per via della difficoltà nelle verifiche e nella raccolta delle prove. Le cifre rilasciate da altre provincie, come il Guangdong e lo Shandong, indicano tassi ancora più bassi che vanno dal 2 al 15%.
A ciò si aggiunga la scarsa reattività da parte delle istituzione competenti a livello comunitario. Gli episodi di violenza domestica rientrano nell'ambito di pertinenza della polizia dal 2008, ma è lunga la lista dei casi in cui le forze dell'ordine non sono state in grado di prevenire vere e proprie tragedie. Qualcuno, forse, ricorderà la storia di Dong Shanshan, picchiata a morte dal marito, nel 2009, dopo aver chiesto aiuto alla polizia ben otto volte.
E se i maltrattamenti tra le mura di casa rappresentano una delle piaghe più dolenti per le donne cinesi, gli abusi al femminile, nel Regno di Mezzo, hanno assunto anche forme pressocchè istituzionalizzate. Negli ultimi 30 anni la politica sul controllo delle nascite, avviata negli anni '70 per mettere un freno all'iperbolica crescita demografica del paese, -secondo le stime del ministero della Sanità- ha portato alla realizzazioni di 400 milioni di aborti, 196 milioni di sterilizzazioni, mentre sarebbero 403 milioni le donne sottoposte all'introduzione di dispositivi anticoncezionali intrauterini. Proprio alcuni giorni fa, in occasione della Terza riunione plenaria del Partito, la leadership di Pechino ha deciso di rimettere mano alla politica del figlio unico, permettendo alle coppie formate da un figlio unico di avere fino a due bambini.
La riforma, che giunge in un momento in cui il Dragone si trova a fare i conti con una popolazione sempre più vecchia e composta prevalentemente da uomini, sembra avere poco a che fare con il raggiungimento di una piena maturità nel campo dei diritti umani. A impensierire l'establishment pare piuttosto essere il trend in discesa della forza lavoro nazionale (entro il 2020, la popolazione tra i 15 e i 59 anni passerà da 944 milioni a 920 milioni di unità, secondo le stime dell'Ufficio nazionale di Statistica). Le nuove disposizioni - avvertono gli esperti- lasceranno immutata la natura sostanziale della politica di pianificazione familiare che include l'utilizzo di misure coercitive per controllare le nascite. Non di rado i funzionari locali, al fine di rispettare le quote stabilite dal governo, forzano le donne ad acconsentire all'inserimento di dispositivi intrauterini, o -nel caso in cui abbiano già avuto "troppi" figli- alla sterilizzazione e all'aborto. E i numeri parlano chiaro.
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