sabato 15 novembre 2014

Think tank 'con caratteristiche cinesi'


(Pubblicato su Left)

Il modello di governance che ha reso la Cina la seconda potenza mondiale non funziona più.Problemi strutturali, occultati fino ad oggi dietro tassi di crescita da capogiro, emergono minacciosi ora che lo stato di salute dell'economia cinese appare quantomai incerto. Davanti al moltiplicarsi dei nodi da sciogliere (corruzione rampante, aumento delle proteste popolari e un quadro normativo tanto fumoso da mettere a rischio l'arrivo di nuovi investimenti dall'estero) la dirigenza cinese ha lanciato un aut aut: o riforme o morte. 

La ricetta per la sopravvivenza impone di acquisire una "governance moderna" senza indebolire il ruolo egemonico del Partito comunista più longevo della storia. Prendere spunto dall'estero senza compromettere le proprie “caratteristiche cinesi”. Come?

Non solo "stato di diritto con caratteristiche cinesi". La Cina vuole acquisire una "governance moderna" avvalendosi dell'aiuto di think tank cuciti su misura. E' quanto è emerso dal sesto meeting del Gruppo per le Riforme presieduto dal leader cinese Xi Jinping il 27 ottobre, appena pochi giorni dopo la chiusura della Quarta sessione plenaria del Partito incentrata sul sistema giudiziario e il rule of law.

Riportando stralci dell'incontro, l'agenzia di stampa statale Xinhua ha riassunto l'intervento di Xi Jinping così: davanti alla complessità delle riforme - che stando al giudizio della comunità internazionale procedono troppo lentamente - "le risorse intellettuali sono le più importanti per la nazione, in quanto giocano un ruolo cruciale nel governare un paese con successo. Più sono difficili le riforme e più c'è bisogno di un supporto intellettuale." Nonostante l'appello sia indirizzato ai think tank "di tutti i dipartimenti...anche quelli non governativi", le direttive richiedono di "aderire alla guida del Partito e seguire la giusta rotta, con caratteristiche e stile cinese."

Chiariamo: non è la prima volta che il Presidente si pronuncia a riguardo. In occasione del Terzo plenum del novembre 2013, a un anno dal ricambio al vertice, tra le tante riforme incoraggiate si era parlato della necessità di "creare think tank con caratteristiche cinesi, che aiutino il miglioramento delle capacità decisionali e dei meccanismi di supporto alle decisioni nella formulazione delle politiche pubbliche."

Analizzando il comunicato, alcuni mesi fa, Nicoletta Ferro esperta di Cina e sostenibilità, commentava sul suo blog: "E' la prima volta che si fa esplicito riferimento ai due termini "country’s governing system" e "governing capabilities" che corrispondono rispettivamente al nostro concetto di governo della singola entità paese e di governance delle relazioni tra una pluralità di attori sociali ed economici." La Cina si trova ad affrontare interrogative nuove: "Si parla di indipendenza dei think tank dal governo come una prospettiva necessaria (forse per liberarsi dall'abbraccio mortale con i vested interests che tradizionalmente legano policy making e implementazione) e della possibilità che questi imparino da quelli esistenti in altri paesi."

Da sempre, nella Repubblica popolare, i think tank svolgono un ruolo significativo per quanto riguarda le analisi e le elaborazioni del Partito comunista cinese e più in generale delle istituzioni statali. Modellati sugli istituti di ricerca sovietici, negli anni '50 esistevano nella forma ingessata di network indissolubilmente legati a ministeri specifici. Trent'anni dopo, la necessità di stare al passo con la rapida ascesa cinese ha facilitato la nascita di una "nuova generazione" di think tank. C'era bisogno di pareri e opzioni meno empirici e ideologici; più innovativi e al passo con le crescenti tendenze globali. Ma se, da una parte, il riconoscimento di una certa autonomia era indispensabile per garantire prodotti effettivamente innovativi, dall'altra la dirigenza non nascondeva la propria contrarietà a creare istituti eccessivamente indipendenti con il rischio di perderne il controllo.

"I maggiori think tank nacquero e crebbero, in molti casi, come emanazioni di gruppi informali d'opinione imperniati su di un leader importante e formati da una serie di intellettuali ad esso legati, scontando una forte dose di personalizzazione della struttura" (G. Samarani, Cina, Ventunesimo secolo, Einaudi, 2010).

Con la repressione del movimento di Piazza Tian'anmen, nel 1989, parecchi dei network esistenti furono sciolti e ridotti al silenzio per essere sostituiti, una volta superata la crisi, da una "terza generazione" meno legata alle strutture ministeriali e alle dinamiche clientelari. Si sentiva l'esigenza di rafforzare settori chiave quali la politica economica e finanziaria internazionale. Il tutto mentre gruppi d'interesse legati al mondo del business cominciavano a percepire nel maggior pluralismo economico e socio-politico la possibilità di influenzare l'opinione pubblica e la linea politica ufficiale.

Spiegando lo scarto tra Est e Ovest, un rapporto del Centro di Ricerca per lo Sviluppo del Consiglio di Stato rimarca le differenze presenti nel sistema di governance, nella tradizione culturale e nello stadio di sviluppo dei paesi dell'Asia Orientale. In questi ultimi, la fine del Ventesimo secolo è stata caratterizzata dalla nascita di istituti sponsorizzati dai rispettivi governi e pertanto meno autonomi rispetto ai think tank fioriti alle nostre latitudini. "Ma non importa da dove provengono i finanziamenti, tutti i think tank rivestono un ruolo importante nello sviluppo e nella governance di uno stato moderno", chiosa Li Wei, direttore dell'agenzia di ricerca.

Secondo un recente studio dell'Università della Pennsylvania, la Cina è il paese con il maggior numero di think tank al mondo dopo gli Stati Uniti, ma rispetto a istituti occidentali del calibro di Rand Corporation o del Brookings Institute i network cinesi esercitano una scarsa influenza a livello globale. Soltanto sei rientrano nella lista dei 100 migliori, con la rinomata Accademia Cinese delle Scienze Sociali (CASS) appena al 20esimo posto.

Da qui l'esigenza di creare un nuovo tipo di think tank al fine di migliorare la capacità comunicativa del gigante asiatico con il mondo esterno; quello che in gergo viene chiamato soft power. Il braccio di ferro tra le due maggiori economie mondiali è ormai da anni sconfinato nella 'sfera culturale', con la Cina determinata a scrollarsi di dosso la nomea di 'fabbrica del mondo' puntando ad esportare valori ed entertainment “con caratteristiche cinesi”. Pare che Pechino ora senta la necessità di incentivare la metamorfosi promuovendo un upgrade dei propri istituti nella speranza di renderli competitivi anche per gli standard statunitensi. Considerata l'enfasi attribuita da Xi Jinping a una "rinascita" cinese sullo scacchiere internazionale, gli esperti si aspettano un ritocco all'insù del budget destinato alla ricerca in un'ottica spiccatamente nazionalista. Nell'attesa, stando ad uno studio dell'Hoover Insititute, la Cina starebbe già traendo giovamento dal ritorno di giovani formatisi all'estero i quali, una volta rimpatriati, individuano nei think tank "un trampolino di lancio per reintegrarsi nell'establishment cinese e influenzare il dibattito pubblico". Le cosiddette "tartarughe di mare", dal mandarino hai gui, termine che scritto diversamente ma pronunciato allo stesso modo vuol dire anche "tornare da oltremare". La loro esperienza lontano da casa - nella maggior parte dei casi proprio negli Stati Uniti - è quanto serve al Dragone per rendere il proprio soft power più attraente anche per un'audience straniera.

Allo stesso tempo, sul versante interno, la volontà di irrobustire i think tank si coniuga con il processo di "modernizzazione della governance". Un concetto che non ha ancora ricevuto una definizione ufficiale, ma che - stando al South China Morning Post - parrebbe alludere alle pratiche normalmente in uso nei paesi occidentali: trasparenza, responsabilità e un'efficace formulazione delle politiche abbinata a un'implementazione efficiente. Requisiti divenuti necessari di fronte alla crescente complessità del quadro economico, politico e sociale cinese. E' in questo contesto che la nazione necessita del contributo pratico, non più solo teorico, delle sue menti migliori.

Non è ben chiaro come tutto questo si possa conciliare con le pretese dirigiste del Partito. Sopratutto considerando la stretta repressiva sperimentata dal mondo accademico negli ultimi mesi. Lo scorso giugno, l'Accademia Cinese delle Scienze Sociali, ideologicamente votata al marxismo-leninismo, è stata accusata di ospitare "forze straniere" e bersagliata dalle critiche del capo della commissione per l'ispezione della disciplina a causa della sua presunta scarsa fedeltà al Partito. All'inizio di settembre, tre delle principali Università del Paese si sono dette pronte a rafforzare il monitoraggio su docenti e studenti, mentre dal Guangdong, provincia che per prima si è aperta all'Occidente, arrivano voci di un nuovo giro di vite ai danni delle organizzazioni non governative. Il paradosso delle "caratteristiche cinesi".

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