mercoledì 25 febbraio 2015

I limiti del nazionalismo cinese in Birmania


Mentre scriviamo, gli scontri tra l'esercito birmano (Tatmadaw) e la Myanmar National Democratic Alliance Army (MNDAA) hanno già fatto oltre 130 morti, tra militari e ribelli. Il 9 febbraio le ostilità tra il Governo centrale e le forze separatiste -sopite dal sanguinoso scambio a fuoco del 2009- hanno gettato la regione speciale di Kokang, nello Stato settentrionale di Shan, nuovamente nel caos. Da martedì della settimana scorsa nell'area vige la legge marziale. L'epicentro dei disordini, proprio lungo il confine sino-birmano che separa il Myanmar dalla provincia cinese dello Yunnan, fa sì che la questioni sia motivo di svariati grattacapi anche per Pechino. Già cinque anni fa la deflagrazione delle violenze aveva spinto circa 37mila sfollati a cercare riparo aldilà della frontiera suscitando la risposta piccata delle autorità cinesi (letteralmente: La Birmania «dovrebbe gestire appropriatamente i problemi interni e mantenere la stabilità nella regione di confine»). Stavolta l'emergenza umanitaria sembra aver raggiunto livelli ancora più allarmanti. Se le stime ufficiali delle autorità dello Yunnan (risalenti alla scorsa settimana) stimano il flusso oltreconfine a 30mila rifugiati, fonti della Croce Rossa parlano di almeno 100mila persone.

Stando a quanto riporta China.org, per far fronte all'esodo i residenti della Cina rurale hanno allestito delle organizzazione grassroot incaricate di trovare alloggi temporanei ai nuovi arrivati. Nansan, cittadina subito aldilà della frontiera, ha visto la propria popolazione aumentare paurosamente con ripercussioni nella vita di tutti giorni: traffico impazzito, hotel strapieni e prezzi ritoccati all'insù dai commercianti pronti a lucrare sullo stato emergenziale in cui si trovano i fuggiaschi. Molti i privati ad aver messo a disposizione le proprie case. Come si legge sul sito governativo, la fuga dei kokang dal Myanmar (nome con cui è conosciuta la Birmania dal colpo di Stato del 1988) «ha mosso a compassione i vicini accomunati dall'utilizzo della stessa lingua». Si da il caso, infatti, che i kokang (guogan in mandarino) siano un gruppo etnico di origine cinese compreso nel meltin pot di minoranze che popola il Myanmar orientale. Nell'omonima regione si usa lo yuan, la valuta cinese; i servizi di telecomunicazione, postali e finanziari provengono sostanzialmente da oltre frontiera. Sangue cinese scorre nelle vene del leader dell'MNDAA, Peng Jiasheng (Phone Kya Shin in birmano), 85 anni di cui gli ultimi cinque trascorsi lontano dai riflettori. Di lui si erano perse le tracce dopo l'offensiva lanciata dalle truppe governative del 2009, ma alcune interviste rilasciate alla stampa cinese negli ultimi anni lo collocano tra la Repubblica popolare e il Sudest asiatico.

Chi è Peng?

Senza dubbio una figura controversa. La sua biografia ha il sapore di una caduta degli dei. Appartenente alla minoranza Kokang, Peng nasce nel 1931 a Hong Seu Htoo, nello Stato Shan, da una famiglia originaria della provincia cinese del Sichuan. Nel 1960 serve nella Kokang Revolutionary Force contro il regime del generale-dittatore birmano Ne Win. Dopo aver trascorso qualche tempo a Pechino, rimpatria nel 1968 divenendo comandante della Kokang People’s Liberation Army. Il gruppo confluisce nelle forze comuniste birmane sostenute dal Governo cinese per poi distaccarsene con un ammutinamento nel 1989 e ricompattarsi sotto la sigla dell'MNDAA. Da quel momento, di fatto, Peng diventa il leader della regione autonoma militarmente e finanziariamente, salvo poi perderne il controllo nel 2009 con il rinfocolare delle ostilità tra i ribelli e la giunta. Voci di un suo coinvolgimento nel narcotraffico risalgono agli anni '70, in parte strumentalizzate dal regime militare per giustificare l'intervento nelle regioni-polveriera del Nord. In parte, avvalorate dal ruolo mantenuto nei negoziati tra il Governo centrale e gli ammutinati dal signore della droga, Lo Hsing-han (anch'egli kokang) arrestato in Thailandia, deportato in Birmania, condannato a morte e salvato in extremis dall'amnistia generale del 1980. Diventato in seguito costruttore di successo con la sua Asia World Comapny e precipitato nuovamente dall'Olimpo dopo essere finito sulla blacklist di Washington. E' morto nel luglio del 2013 passando lo scettro alla progenie. Si dice che il figlio Steven Law, oltre ad aver accompagnato la prima missione del neo-eletto Governo 'civile' a Pechino, sia persino coinvolto in una serie di mega progetti portati avanti dalle compagnie statali cinesi nel Paese. Anche Law è sulla lista delle sanzioni americane.

Come spiega Bertil Lintner, tra i massimi esperti di cose birmane, la linea sottile che demarca ciò che è legale da ciò che non lo è ha dato ampio spazio di manovra ai signorotti locali -come Peng e Lo- dediti al riciclaggio di denaro sporco con la benedizione delle autorità. "Burma and Transactional Crime", rapporto pubblicato dal US Congressional Research Service nel 2009, raccoglie le prove di come il regime abbia incoraggiato i trafficanti a investire in una serie di opere pubbliche, dalle infrastrutture ai trasporti, intascandosi commissioni e imposte. D'altronde, scrive Aung Zaw, fondatore dell''Irrawaddy', dal raggiungimento dell'accordo sul cessate il fuoco cinque anni fa, Peng Jiasheng è apparso in più occasioni al fianco della giunta, anche in presenza delle delegazioni Onu che di tanto in tanto visitano il Paese del Pavoni per testare l'andamento delle riforme democratiche. E sebbene le prove accumulate non siano sufficienti a tracciare un coinvolgimento diretto degli alti papaveri nel contrabbando di sostanze illegali, «è tuttavia evidente che i funzionari di rango superiore, così come i militari, hanno beneficiato finanziariamente dai guadagni delle organizzazioni criminali transnazionali».

Nazionalismo vs realdiplomatik

Alcuni giorni fa, al culmine degli scontri, il vecchio leader si è rivolto alla popolazione cinese in una lettera aperta divenuta virale sul web. «Com'è possibile che, a oltre cento anni dalle Guerre dell'Oppio, più di 200mila cinesi subiscano ancora discriminazioni etniche? Ogni volta che Jiasheng si ricorda della situazione scoppia in lacrime e il dolore è insopportabile», scriveva invocando il supporto dei vicini in nome delle radici comuni. La risposta accorata degli internauti è la cartina tornasole di uno spirito patriottico piuttosto diffuso tra i giovani cinesi. «Aiutiamo Kokang!» scrive uno. «Le bestie della Myanmar Army continuano a massacrare i cinesi a Laukkai (la capitale regionale, ndr)», accusa un altro. Qualcuno, ispirato dall'annessione russa della Crimea, si è spinto a suggerire un'occupazione cinese della regione birmana. Per Pechino, principale benefattore della giunta militare fino alla nomina del Governo semi-civile di Thein Sein, si tratta di una questione spinosa. Non a caso il 'Global Times', quotidiano-bulldozer della politica estera cinese normalmente noto per le sue posizioni spiccatamente nazionaliste, in questo caso ha provveduto a placare gli animi con un op-ed dal titolo "North Myanmar peace imperative for China". Qui si invitano «varie parti della società cinese a mantenere un atteggiamento misurato e a evitare qualsiasi posizione affrettata o interferenza negli affari del Myanmar settentrionale in modo da non influenzare la diplomazia governativa». E smontando la teoria 'Kokang uguale Crimea', ricorda che tra Cina e Birmania non vi sono in sospeso contenziosi territoriali. E che nel 1987 la regione speciale era già stata inglobata nell'India britannica di cui al tempo il territorio birmano era parte integrante. Con il trattato sino-birmano del 1960, la Cina ha rinunciato definitivamente ad ogni pretesa sull'area. Riassunto: «La familiarità e simpatia che la società cinese nutre per la popolazione kokang non condizioneranno la politica di Pechino [in Myanmar]».

Poco persuase, le autorità di Naypyidaw hanno invitato Pechino a collaborare nella prevenzione di «attacchi terroristici» lanciati dal territorio cinese. E non serve dire che dietro i giri di parole del 'diplomatichese' si nasconda una mezza critica contro il lassismo con il quale la Cina permette al ribelle Peng di scorazzare indisturbato oltre la Muraglia. Da giovedì scorso, altre tre milizie locali -la Ta'ang National Liberation Army, la Kachin Liberation Army (KIA) e una fazione della Shan State Army- affiancano la MNDAA nella guerriglia contro l'esercito regolare. Nonostante le smentite, secondo il Governo birmano, tra i rinforzi ci sarebbero anche mercenari ed ex soldati cinesi. Le relazioni sino-birmane, già minate dal coinvolgimento cinese nel contrabbando di giada e più di recente dall'arresto di 155 trafficanti di legname nel vicino Stato Kachin, continuano progressivamente a sfilacciarsi. "Il Governo birmano ha una lunga storia di diffidenza della presenza cinese a Kokang che risale alle insurrezioni comuniste all'epoca della Guerra Fredda", spiega a 'L'Indro' Hunter Marston, analista di 'Indo-Pacific Review' ed ex , "Le violenze e la presenza di un numero sempre maggiore di truppe mette in pericolo il commercio con la Cina, mentre lascia spazio per un aumento delle vendite di armi e altri traffici illeciti dai quali trarranno beneficio cattivi attori da entrambe le parti del confine".

Secondo Yun Sun del Brooking Institute, il ritorno di Peng nella regione, proprio alla vigilia delle celebrazioni per il Capodanno cinese (19 febbraio), andrebbe letto come una mossa ben ponderata per spingere Pechino a fare pressione su Naypyidaw per un ritiro delle forze armate da Kokang. Una volta ripreso il controllo dell'area, c'è chi ipotizza addirittura una sua candidatura alle prossime elezioni generali in veste di pacificatore e legittimo rappresentante dei kokang. Ma conquistare le simpatie della pancia del Paese è più facile che convincere l'establishment cinese a prendere una posizione più netta nella questione birmana, rinnegando di fatto il principio cardine della propria politica estera, quello della 'non interferenza' negli affari altrui. Per attirare il Dragone dalla sua, il leader kokang è ricorso ad un vecchio espediente: agitare il fantasma del complotto americano. Dall'avvio delle riforme democratiche, la liaison economico-militare tra i due vicini asiatici ha perso la consueta verve in favore di un progressivo avvicinamento del Paese dei Pavoni a Washington. Avvicinamento che Pechino osserva con sopracciglio alzato. Nei giorni scorsi, al montare delle belligeranze nella regione, il Comandante della KIA Gam Shawng ha rilasciato un'intervista al 'Global Times' asserendo che «[gli attacchi ai danni dei cinesi] sono cominciati grossomodo in concomitanza con l'arrivo a Myitkyina (capoluogo dello Stato Kachin, ndr) del Vice Comandante del PACOM (United States Pacific Command) e di alcuni alti funzionari del U.S. Department of Defense per colloqui segreti. Non può essere una coincidenza. La campagna del Tatmadaw contro i cinesi serve a mostrare agli americani la forza del Tatmadaw e la sua posizione nelle negoziazioni politiche con gli Usa». L'infondatezza della versione complottista (rilanciata da Peng Jiasheng e smontata da Yun Sun qui) è lampante: la delegazione statunitense si trovava nel Paese dei Pavoni per presenziare al Second U.S.- Myanamar Human Rights Dialogue e i suoi contatti con l'esercito sono finalizzati a verificarne il rispetto del diritto internazionale umanitario. Tuttavia, dà bene l'idea di come le relazioni sino-birmane siano ormai tutt'altro che granitiche. Già in passato i media cinesi avevano cavalcato la teoria della cospirazione a stelle e strisce per giustificare alcuni inciampi nei rapporti con Naypyidaw. E' questo il caso dell'interruzione del progetto per la diga di Myitsone sulla scia delle proteste della comunità locale -secondo la Cina- sovvenzionate da Washington. Stando così le cose, ci si potrebbe domandare perché tanta ritrosia davanti ai SOS dei fratelli cinesi-birmani.

La cautela di Pechino ha motivazioni di ordine economico ma non solo. Sul versante interno, prendere le parti dei kokang vorrebbe dire avvallare l'eventualità che analoghe spinte indipendentiste prosperino nel cortile di casa, con chiari rimandi a Tibet, Taiwan e Xinjiang. E se una cerchia ristretta di teorici cinesi vede ancora nelle rivolte etniche birmane una 'leva strategica' con cui tenersi stretto il vicino asiatico, la scuola di pensiero mainstream pone piuttosto l'accento sulle perdite commerciali derivanti da una Birmania squassata dalla guerra civile. La posta in gioco è alta. Nella grande visione cinese di una Nuova Via della Seta terrestre e marittima, il Myanmar, con il suo accesso al Golfo del Bengala, dovrebbe ricoprire un ruolo centrale. Oltre a rientrare in un piano di diversificazione delle rotte energetiche che permetterà al Dragone -primo acquirente al mondo di crudo- di aggirare il volatile stretto di Malacca. Come sottolinea Yun Sun, Pechino non supporta Peng Jiasheng ma nemmeno gli si oppone. Semplicemente continua a mantenere un approccio già evidenziato in altri Paesi afflitti da lacerazioni interne, come nel caso di Pakistan e Afghanistan, dove la diplomazia cinese si cimenta in proficui equilibrismi tra tribù locali e governi legittimi.

(Pubblicato su L'Indro)



domenica 22 febbraio 2015

Una difficile integrazione razziale


Un ulteriore commento sul progetto di affitto delle terre nel Far East russo. Grazie a Gordon G. Chang, noto analista nonché autore di "The Coming Collapse of China", e alla sua, seppur tardiva, risposta. Consideriamolo un approfondimento al pezzo "Emigrazione Siberiana".

Pechino vorrebbe che i coloni cinesi penetrassero nel Far East russo e in genere sostiene le politiche di sviluppo economico di Mosca nella regione. Ma non credo che vedremo Pechino affittare vaste aree della Russia. Per prima cosa, è improbabile che il Cremlino lo consenta. E i politici cinesi, almeno in questo momento, non vogliono irritare Mosca già preoccupata per la "sinizzazione" innescata dall'arrivo dei coloni cinesi. Arrivo che non è tanto il risultato di incentivi quanto la conseguenza di pressioni demografiche sul lato cinese del confine e la scarsa concentrazione sull'altro versante. I russi hanno ciò che la Cina necessita -terra e un mercato di sbocco per prodotti a poco costoso-, pertanto l'imperativo economico farà sì che la migrazione continui ancora per qualche tempo. E mentre ciò avverrà, i russi sono destinati a sentirsi ancora più insicuri nella loro stessa patria.

La migrazione cinese si svolge nel contesto di una competizione per il territorio che va avanti da secoli. Nonostante quello che il Cremlino potrebbe pensare, non vi è alcuna prova che Pechino abbia in mente di utilizzare i coloni per un piano di annessione dell'Estremo Oriente russo.
In realtà, Pechino non ha nemmeno bisogno di un piano. Tutto ciò che deve fare è lasciare che l'attuale migrazione faccia il suo corso, guardare l'assimilazione fallire, e più tardi alimentare il nazionalismo. E Mosca può già vedere l'inizio di questo processo. Come ha dichiarato un ufficiale militare russo dando voce alle paure del Cremlino: "Noi vediamo la sovrappopolazione della nazione confinante. Verranno qui, daranno alla luce una moltitudine di persone con gli occhi a mandorla e poi rivendicheranno l'autonomia politica."

Alcuni di quei coloni, infatti, si considerano i seminatori di eventuali richieste di sovranità da parte della Cina. In ogni caso, i migranti cinesi sono molto chiusi di carattere -come la maggior parte degli immigrati tendono ad essere- e Mosca non ha fatto nulla per cercare di facilitare la loro integrazione nella società russa. Non sarebbe difficile immaginare un intervento di Pechino nell'eventualità di uno scontro razziale. Non aiuta nemmeno il fatto che i leader irredentisti della Repubblica popolare abbiano spesso parlato con rammarico dei "territori perduti", oggi sotto il controllo del Cremlino.
Porzioni di quello che i russi definiscono il loro Estremo Oriente (tra cui il porto di Vladivostok) una volta erano in realtà governate dalle varie dinastie cinesi. La dinastia Qing, l'ultima e allora traballante, fu costretta a cedere l'area alla Russia con la sottoscrizione di due "trattati ineguali", termine che sta per gli accordi firmati tra il 1858 e il 1860. Sia Mosca che Pechino sono consapevoli di questo.

giovedì 19 febbraio 2015

Emigrazione siberiana


«La terra lungo il fiume Amur è stata, è e sempre sarà russa» . L'antico arco di trionfo fatto erigere dallo Zar Nicola II nel 1891 e abbattuto dai comunisti, svetta di nuovo verso l'alto a Blagoveshensk, città di frontiera nella regione dell'Amur. Qui Russia e Cina si guardano dritto negli occhi. 4370 chilometri di confine condiviso, un lascito della Convenzione di Pechino (1860) siglata da una Russia in fase espansiva e un Impero Qing indebolito e umiliato dalle Guerre dell'oppio, separano il Far East russo dalla cosiddetta Manciuria, ovvero il Nordest della Repubblica popolare formato dalle province di Heilongjiang, Jilin e Liaoning. Negli ultimi anni, la frontiera è stata attraversata a doppio senso da merci cinesi a basso costo e materie prime (petrolio, gas e legname) in arrivo dalla Siberia. Al flusso commerciale, come spesso accade, corrisponde un flusso umano che -data 'l'aggressività numerica' della popolazione cinese- suscita non poche preoccupazioni. Da tempo c'è chi dubita che la regione a nord dell'Amur sarà russa per sempre.

La questione è tornata d'attualità alcune settimane fa con l'annuncio di un piano per valorizzare i territori del Far East fortemente voluto dal Vice Premier russo, Yuri Trutnev, e avvallato da Putin. Secondo il 'Moscow Times', Mosca sarebbe intenzionata ad affittare un ettaro di terra (in futuro forse anche di più) «a qualsiasi residente del Far East e a chiunque fosse intenzionato a trasferirsi nella regione per avviare un'attività di business privata nel settore agricolo, della selvicoltura, della caccia e altro». Il programma - che potrebbe vedere la luce fin da quest'anno - dovrebbe coinvolgere una porzione dei 614 milioni di ettari di terreni di proprietà statale e -come spiega Trutnev- punta ad «attrarre la tendenza migratoria verso l'Estremo Oriente» russo a corto di forza lavoro. Sopratutto a convogliarla nelle zone rurali, ricalcando la campagna sovietica per lo sviluppo delle Terre Vergini lanciata negli anni '50 con lo scopo di richiamare giovani nelle steppe incolte della Siberia e del Kazakistan. La regione che copre un'estensione di circa 6,2 milioni di chilometri quadrati ha una popolazione di soli 6,3 milioni di abitanti, di cui il 75% concentrato nei centri urbani. Per ovvie ragioni il progetto non è passato inosservato oltre la Muraglia, sebbene la stampa cinese paia interpretare a proprio piacimento le reali finalità del piano. Stando al 'China Daily', grazie alla nuova iniziativa «il Far East vedrà un netto aumento dell'immigrazione cinese»; addirittura suggerisce che, se tutto andrà come previsto, «la remota regione diventerà il principale esportatore di cibo organico della Cina». L'argomento è ghiotto. Il gigante asiatico si trova a dover nutrire un quinto della popolazione mondiale pur avendo a disposizione grossomodo il 7% della propria superficie coltivabile (dati dell'Organizzazione della Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura), e quasi la metà verte in stato di degrado dopo decenni di sfruttamento incontrollato. Gli analisti stimano che circa il 45% della popolazione cinese, ovvero 630 milioni di persone, campi ancora con l'agricoltura nonostante la produttività sia molto inferiore rispetto alla media dei Paesi sviluppati. Come ammesso recentemente dal Premier Li Keqiang, il Dragone continua a pagare il prezzo per l'implementazione di pratiche agricole intensive a base di un uso eccessivo di fertilizzanti, pesticidi e teli di plastica, che causano gravi danni ambientali e minacciano la sicurezza alimentare. Mentre la leadership continua a rimarcare l'urgenza di una modernizzazione agricola come catalizzatore per la ripresa economica del Paese, il Governo cinese non ha mancato di rivolgersi alle importazioni per tenere il passo con la domanda interna: sulle tavole dei cinesi arrivano sempre più spesso grano statunitense, carne australiana e semi di soia dal Brasile. Un trend confermato nel febbraio dello scorso anno quando la Cina ha rinunciato alla politica di autosufficienza nella produzione di grano e cereali, contravvenendo ad uno dei principi storici del Partito comunista fin dai tempi di Mao. Secondo un nuovo rapporto dallo studio legale Baker & McKenzie citato dal 'Guardian', nel 2014 gli investimenti cinesi diretti esteri in Europa sono raddoppiato rispetto al 2013; ben 4,1 miliardi dollari sono finiti in alimenti e agricoltura, più che in ogni altro settore. E' giunta l'ora della Russia?

"Penso che il nuovo programma sia stato concepito essenzialmente per arginare il deflusso della popolazione dalla regione estremorientale," spiega a 'L'Indro' Harley D. Balzer, Professore della Georgetown University alle prese con uno studio comparato sull'integrazione russa e cinese nell'economia globale, "un ettaro di terra non è sufficiente per incrementare la produzione agricola, senza considerare che consolidare un numero significativo di queste aziende in un'entità imprenditoriale vitale richiederebbe notevoli investimenti in terreni, manodopera e attrezzature. Sono scettico che questo progetto produrrà risultati concreti. Né i cinesi né i russi hanno dimostrato particolare interesse per gli investimenti prima della crisi. Ora la Russia ha poche risorse, mentre i cinesi vengono più facilmente attratti da altre parti del mondo".

D'altronde, la versione del piano riportata dai media russi appare ben più cauta. Come rimarcato da Trutnev, il nuovo programma (che prevede esclusivamente l'affitto e non la cessione definitiva dei lotti), è in realtà finalizzato ad evitare che le terre libere vengano vendute a individui e compagnie straniere. Una precisazione che il 'Moscow Times' definisce «importante» considerato il progressivo avvicendamento di cinesi, giapponesi e sudcoreani nella regione. La scorsa estate Alexander Shaikin, responsabile per i controlli lungo la frontiera sino-russa, tracciava un quadro preoccupante ponendo le cifre dell'immigrazione clandestina cinese nell'Estremo Oriente russo a 1,5 milioni di unità nei precedenti diciotto mesi. Nonostante si tratti probabilmente di proiezioni sovrastimate, il Federal Migration Service ha ripetutamente avanzato la possibilità che nell'arco di 20-30 anni quella cinese possa diventare l'etnia predominante nella regione. La Cina ha una popolazione che sfiora gli 1,4 miliardi di persone, e quella della Manciuria è cresciuta del 13% in poco più di dieci anni. Di contro, tutta la Siberia conta 38 milioni di abitanti, l'equivalente della popolazione della Polonia con la notevole differenza però che la Siberia è quaranta volte più grande. C'è chi ipotizza che il Far East russo stia a poco a poco diventando una valvola di sfogo per l'affollato dirimpettaio così come gli Stati Uniti lo sono stati per il Messico. Ma c'è anche chi invita a ridimensionare il fenomeno.

"Non penso si possa parlare di alcuna reale emigrazione cinese sistematica in queste terre della Siberia russa", spiega a 'L'Indro' Alexey Maslov, Direttore della School of Asian Studies presso la National Research University (Higher School of Economics) di Mosca. "Ci sono diverse questioni che impediscono ai cittadini cinesi di prendere in affitto terreni nella regione. Innanzitutto, il fatto che lo status di queste terre non sia ben chiaro rende i cittadini stranieri (non solo i cinesi) molto cauti quando si tratta di investimenti a lungo termine. Tutt'oggi molti cinesi, coinvolti nel commercio transfrontaliero o nei servizi locali con la Russia, sono molto preoccupati per quanto riguarda i problemi di sicurezza personale, la scarsa trasparenza della situazione economica locale e la mancanza di informazioni. Anche se, allo stesso tempo, spesso sono loro i primi a infrangere le regole e le norme russe. Affinché il progetto degli affitti in Siberia riesca ad attirare più cinesi, la Russia dovrebbe investire molto di più nella pubblicità e il supporto informativo del progetto e non aspettare che una semplice proposta porti effetti positivi. Prendendo in considerazione che la terra in leasing è di solo 1 ettaro, il piano sembra rivolto sopratutto alle piccole imprese e alle famiglie di privati, le quali hanno bisogno di sostegno e investimenti. Pertanto, anche la posizione mantenuta dalle banche cinesi sarà molto importante. Un paio di anni fa, il governo russo ha stabilito nel Far East diverse zone speciali di sviluppo avanzato con un basso livello di tassazione e condizioni di business attraenti. Purtroppo finora queste zone non sono diventate particolarmente richieste dagli investitori e uomo d'affari cinesi. Né si può dire che giochino un ruolo particolare nello sviluppo locale. Già in passato Mosca aveva provato ad invitare contadini cinesi nell'Estremo Oriente russo, sopratutto nella regione di Primorskiy. Alla fine il progetto è stato compromesso dalle molte lamentele sull'utilizzo di fertilizzanti chimici dannosi per la terra e il degrado ambientale del suolo. Nonostante le voci sull'aumento progressivo della popolazione cinese nel Far East, il numero reale degli immigrati cinesi continua ad essere molto basso, oltre a trattarsi sopratutto di una migrazione 'temporanea' che coinvolge perlopiù commercianti ed è concentrata nei centri urbani. Solo pochi di loro (migliaia NON milioni!), hanno deciso di stabilirsi in Russia per un lungo periodo di tempo".

"Guardando a questa situazione da un punto di vista più ampio, nonostante le promesse di Pechino a investire miliardi di dollari per progetti in Russia, la quantità generale degli investimenti cinesi è inferiore al 2% del flusso complessivo degli IDE verso la Russia. Oggi la politica di investimenti cinesi è lontano dall'essere veramente emergente per non dire aggressiva. Oltre ciò, occorre notare che l'intervento delle banche cinesi di solito è limitato alla concessione di credito e prestiti solo per un ristretto numero di progetti comuni, e che alla fine il denaro torna nelle tasche dei partner cinesi coinvolti nei progetti. La verità è che fino a ora la cosiddetta 'espansione' cinese in Russia non è ancora nemmeno cominciata e faremmo meglio a calcolare non quanti cinesi si sono spostati in Russia, ma piuttosto a quanto ammontano gli investimenti diretti e indiretti (a volte non ufficiali) arrivati in territorio russo".

Dove Far East e Nordest si incontrano 

La porosità del confine sino-russo è stata fondamentale per lo sviluppo locale quando all'inizio degli anni '90 l'estremità orientale della Russia si trovò tagliata fuori dalle forniture della parte occidentale. Alimenti e prodotti industriali in arrivo dalla Cina sopperirono a tale mancanza. Alla fine del 1993, il 42 % di tutte le joint venture registrate nel Far East prevedeva il coinvolgimento di partner cinesi, mentre in senso opposto le merci provenienti dall'Estremo Oriente della Federazione russa cominciarono ad aprirsi un varco nel mercato cinese. Nel 1993 le esportazioni russe verso l'ex Impero Celeste riportarono un aumentato del 34%. Fiutato il potenziale inespresso della regione, nel 2006 Mosca ha istituito la State Commission for the Far East con «status di organo di governo», seguita a stretto giro dalla nascita di un Ministero per lo sviluppo dell'Estremo Oriente. Il tutto condito con un piano federale d'investimenti da 567 miliardi di rubli (circa 22 miliardi di dollari di allora) coronato dall'organizzazione dell'Apec 2012 a Vladivostok, in prossimità del confine con Cina e Corea del Nord. Il resto è storia recente. Non è un mistero che la crisi Ucraina e il progressivo irrigidimento dei rapporti con l'Occidente stia spingendo Putin ad adottare un proprio 'pivot to Asia' in cui i territori estremorientali giocheranno un ruolo sempre maggiore.

Mentre permangono diverse incognite per quanto riguarda la posizione di Mosca nei confronti della Nuova via della Seta cinese attraverso l'Asia Centrale, la partnership con Pechino nell'ultimo anno è stata oliata da diversi accordi che coinvolgono i territori nordorientali, primo fra tutti quello lungamente atteso sulle forniture di gas siberiano. A settembre è cominciata la costruzione congiunta di un gasdotto nella Siberia orientale (la China-Russia East Route), mentre pochi giorni fa -di ritorno dalla Cina- il numero uno di Gazprom, Alexey Miller, assicurava il buon andamento delle trattative per la Western Route attraverso gli Altai. Non solo. Ad avvicinare (letteralmente) le due potenze ci penserà una ferrovia ad alta velocità in grado di ridurre il tragitto tra Pechino e Mosca a sole 48 ore. Il progetto, il cui costo stimato è di 230 miliardi di dollari, «sarà completato al più breve in cinque anni» e costituisce il primo mattone di un'opera colossale: una linea Cina-Russia-Canada-Usa con tanto di tunnel sottomarino nel Mare di Bering.

A maggio, in occasione del Forum economico di San Pietroburgo il Vice Presidente cinese, Li Yuanchao, ha proposto di rinvigorire la sinergia tra il Far East russo e il Nordest della Cina con la creazione di una zona economica comune in cui l'agricoltura dovrebbe fare la parte del leone. Secondo quanto riportato dal 'Moscow Times', lo scorso aprile China Development Bank aveva confermato un piano da 5 miliardi di dollari per la realizzazione di progetti infrastrutturali nella regione alla quale Pechino guarda con interesse anche in una prospettiva marittima come via alternativa per le proprie merci verso l'Europa (la Northern Sea Route -che passa lungo la costa della Siberia- oltre ad essere più breve, è anche il 25% più economica della rotta attraverso il canale di Suez). Mentre è di pochi giorni fa la notizia della costruzione di un aeroporto civile a Suifenhe (Heilongjiang), divenuta nel 2013 la prima città cinese a ricevere il via libera per l'utilizzo del rublo (la valuta russa) insieme alla moneta locale, e già impegnata nell'ampliamento di un porto internazionale.

All'indomani dell'annuncio che Mosca avrebbe interrotto per un anno le importazioni di alcuni prodotti agricoli da UE, Stati Uniti, Australia, Canada e Norvegia come forma di ritorsione alle sanzioni, l'ITAR-TASS aveva svelato che la Cina sarebbe stata la prima a giovarne. Secondo l'agenzia di stampa russa, la compagnia cinese Baorong si starebbe apprestando a stabilire un centro logistico speciale a Dongning, proprio al confine con l'Estremo Oriente russo, in una zona doganale transfrontaliera: «Un mercato all'ingrosso di 70 mila metri quadrati e un magazzino di 30 mila, attrezzato con frigoriferi e altre apparecchiature». Un funzionario dello Heilongjiang aveva confermato che «l'esportazione di vegetali e frutta verso la Russia partirà da lì».

(Pubblicato su L'Indro)

mercoledì 18 febbraio 2015

China charmed by Russian Far East



"The earth along the Amur was, is and will always be Russian:" the old triumphal arch erected by Tsar Nikolai II in 1891 and torn down by the communists, has been rebuilt in Blagoveshensk, a frontier city in the Amur region. There, Russia and China look each other straight in the eye. 4370 kilometers of shared border, a legacy of the Convention of Peking (1860) signed by a forceful Russia and a Qing Empire weakened and humiliated by the Opium Wars, separate the Russian Far East from the Manchuria, the Northeast China formed by the provinces of Heilongjiang, Jilin and Liaoning. In recent years, cheap Chinese goods and raw materials (oil, gas and timber) from Siberia have been crossing the border in both directions. The trade flow, as it often happens, bring with it a human flow that - given the Chinese population size - raises many concerns. Some doubt that the region north of the Amur will be Russian forever.

The issue was revived in January after the announcement of a plan to enhance the territories of the Far East. The project came from the Russian Deputy Prime Minister, Yuri Trutnev, and was endorsed by President Vladimir Putin. According to the 'Moscow Times', Moscow would be willing to offer a hectare of free land (in the future maybe even more) "to every resident of the Far East and to anyone who is willing to come and live in the region so that they could start a private business in farming, forestry, game hunting or some other enterprise." The program - which could start as early as this year - would involve a portion of the 614 million acres of State-owned land and, as Trutnev explained, aims to "strengthen the tendendy of people's migration to the Far East". Especially, to lead them to rural areas, along the lines of the Soviet campaign for the development of the Virgin Lands launched in the 1950s with the aim to draw young people into uncultivated steppes of Siberia and Kazakhstan. The region, that covers an area of ​​6.2 million square kilometers, has a population of only 6.3 million inhabitants of which 75% is concentrated in urban areas. For obvious reasons the project has not gone unnoticed beyond the Great Wall. China and Russia had already agreed to cooperate in developing Russia's Far East development zone during a meeting between vice premiers in Beijing on Dec 11, 2014. However, Chinese media seem to give a personal interpretation of the real purpose of Trutnev's plan. According to the 'China Daily', thanks to the new initiative "the Far East will see an increase in the number of Chinese immigrants"; even suggests that, if all goes as planned, "the remote region would be the main exporter of green food to China."

The argument is attractive. The Asian country must feed a fifth of the world’s population with about 7% of its arable land, according to the UN’s food and agriculture organisation, and nearly half of that land has been 'degraded' by decades of unchecked development, writes the 'Guardian'. Analysts estimate that about 45 per cent of China’s population, or 630 million people, still make a living from agriculture, analysts estimate, but their productivity lags far behind that of developed countries. As recently admitted by Premier Li Keqiang, China had paid a huge price for its intensive farming practices with excessive use of fertilisers, pesticides and plastic sheeting causing serious environmental damage and threatening food safety. While the leadership continues to reiterate the need to promote an agricultural modernization as a catalyst for the economic recovery, Beijing did not fail to turn to imports to keep up with domestic demand: grains from the US, meat from Australia, soybeans from Brazil. Deutsche Welle’s Frank Sieren, a China expert, says that China loaned $3 billion to Ukraine in 2013 to advance its agricultural sector. The loan is to be paid back in grain supplies during a 15-year period with about four million tons of grain per year.This trend was confirmed in February last year when Beijing scrapped its grain self-sufficiency policy, doing away with a historical tenet of Communist party thought. According to a new report by the law firm Baker & McKenzie, in 2014 the Chinese foreign direct investment into Europe doubled year on year, with investors spending $4.1 billion on the continent’s food and agriculture, more than any other sector.

"My sense of the hectare of land program is that it is primarily designed to stem the outflow of population from the region," told me Harley D. Balzer, Associate Professor of Government and International Affairs and an Associate Faculty Member of the Department of History at Georgetown University. "One hectare is not enough for significant agricultural production, and consolidating a significant number of these holdings into a commercially viable entity would require significant investment in land, labor and equipment. I'm skeptical that this will produce real results. Neither Chinese nor Russians were evincing much interest in investment before the crisis. Now Russia has few resources, while the Chinese are likely to view other parts of the world as more attractive."

Moreover, the Russian version of the plan seems much more cautious. As remarked by Trutnev, the new program (which only allows to rent out the land and not to sale it), is actually aimed at preventing the free land from being sold to foreign companies and individuals. A clarification that the 'Moscow Times' called "important" given the enduring inroad of Chinese, Japanese and South Koreans into the region. Last summer, Alexander Shaikin, in charge of controlling the Chinese-Russian border, drew a bleak picture of the illegal Chinese immigration to the Far East placing the figures to 1.5 million units over the past 18 months. Although Shaikin's claim is likely exaggerated, the Federal Migration Service has repeatedly warned that Chinese could become the largest ethnic group in the Far East in 20 to 30 years. The People's Republic of China has a population of roughly 1.4 billion people, and that of Manchuria has increased by 13 percent in a little more than a decade. In contrast, Siberia, which covers three-quarters of the landmass of Russia, is home to only a quarter of the country's population: 38 million people. This is the equivalent of the population of Poland, except that Siberia is 40 times the size. There are some people who bet that the Russian Far East will become a relief valve for the crowded neighbor as the United States has been for Mexico. But there are also some who urge to downplay the phenomenon.

"According to our research and my personal understanding of the situation there is no any real rush among Chinese about this lands in Russian Siberia," told me Alexey Maslov, Head of the School of Asian Studies fo the National Research University - Higher School of Economics. "There are several points that prevent Chinese citizens against active lease of land in this region. First of all this is unclear status of this land, which means that Chinese or any other foreign citizens are really wary about long-time investments. Even today many Chinese involved to the cross-border trade or local services with Russia are worry about the personal security issues, non-transparency of local economic situation, lack of information and at the same time themselves often break Russian rules and regulations."

Maslov suggests that, to attract more Chinese tenants for leasehold property in Russia, Russian side should invest a lot to the advertisement and informational support of this project among Chinese and not to wait that a mere proposal will bring a positive effect. "Taking into consideration that the leasing land is just 1 hectare it should attract small companies and private family tenants who need support and investments. So in this case the position of Chinese banks is also very important."

Couple of years ago Russian government established several special zones for advances development in Russian Far East with very low level of taxation and attractive business environment. Unfortunately so far these zones didn’t became popular among Chinese investors and  businessman, and don’t play too much role in the local development. "Russia already had an experience of inviting Chinese farmers to Russian Far East, manly in Primorskiy region. Eventually there were a lot of complains about using of chemical fertilizers harmful for the land and general ecological degradation of the soil. In spite of may rumors about the growing number of Chinese population in Russian Far East the real number of Chinese expats is very low and there is mainly 'shuttle' kind of migration of Chinese traders. Just few of them, thousands but not millions, decided to settle in Russian for long period of time."

In spite of Chinese promises to invest billions of dollar to the projects in Russia, the general amount of Chinese investments is less that 2% from all FDI to Russia and today the Chinese investment policy to Russia is far from to be really emerging not to speak aggressive. Beside it usually Chinese banks provide credits and loans only for joint projects which are not outnumbered and finally this money returns to Chinese participants of the projects. "Speaking about Chinese 'expansion' to Russia it doesn’t started so far and we have to calculate not how many Chinese came to Russia but how much Chinese direct and indirect (sometimes non-official) investments came to Russian territory."

venerdì 13 febbraio 2015

China scraps export quotas on REMs: What's going to change?


In late December, the Chinese Ministry of Commerce announced the lifting of the export quotas for rare earths, those seventeen chemical elements in the periodic table widely used in defence and high-tech industry, considered for years the 'trump card' of Beijing. Under the new guidelines, rare earths will require an export licence but the amount that can be sold abroad will no longer be covered by a quota. On teh other hand, the system will be replaced with resource and environmental taxes. Another major change: while before there were 28 rare earth producers working under the export quotas, now -in theory- any company with export contract is elegible to export. By incrising the number of exporting companies, Beijing hopes to boost competition and raise the price of the metals after prices hit rock bottom last year, said Zhanheng Chen, deputy secretary general of the China Rare Earth Industry Association.

The move -widely expected-, is the final match of an international standoff lasted about five years. In 2012, for the first time, the United States, Japan and the European Union  jointly presented a complaint to the WTO (World Trade Organisation) on alleged irregularities in Beijing's export policies. Last March, the WTO has eventually recognized that “China’s export quotas were designed to achieve industrial policy goals" and “do not comply with WTO rules and China's obligations in the WTO ", of which it is a member since 2001. Beijing tried to appeal without success.

In 2009, China had begun to trickle its exports citing the need to conserve a dwindling and limit environmental damage from mining. Rare earths, despite the name, are  relatively plentiful in Earth's crust , but the techniques used to extract and refine them is labor-intensive, environmentally hazardous and increasingly costly. However, Beijing imposed no restrictions on production and use of rare earths by companies within China failing to convince the rest of the world of its good intentions. Chinese officials have expressed hope foreign manufacturers that use rare earths will shift production to China and give technology to local partners. Beijing also tightened control over its rare earths industry by pushing companies to merge into state-owned groups and forcing smaller producers to close.

Over just a quarter-century, the rare earth industry has been completely upset. Around the middle of the twentieth century, India, Brazil and South Africa still represented the main source of rare earths, closely followed by the United States through the 1980s. Until the late 1990s, the United States were able to meet the domestic needs relying on their national resources. The American production was shut down when low-cost minerals from China begun to flood the global market. A mix of government subsidies, large availability of raw materials and aggressive mining technics allowed China to cut costs and charge prices 5% of those offered by other international manufacturers. The grip on the sector has become particularly alarming when, in the aftermath of the 2008 financial crisis, many of the countries that were planning an economic recover thanks to high-tech exports found themselves short of raw materials. Europe, United States and Japan suffered the biggest looses.

Over the years, enjoying a semi-monopoly position, China has not failed to exploit its own resources as a weapon of retaliation. In 2010, rare earths gained greater visibility even among non-experts. An 'accident' occurred off the Senkaku/Diaoyu islands (whose territoriality is historically disputed between Japan and China) between a Chinese fishing boat and a Japanese patrol boat angered Beijing: the Chinese governament cut its supplies to the Japan, at the time the beneficiary of 66% of the Chinese exports. Then , China's exports declined by 70% spiking prices up to 40%, causing alarm among the economies and industries that rely on rare earths metals. It was the beginning of the so-called 'rare earths crisis'

At that time, in the light of the protectionist turn, illegality began to flourish thanks to an agreement between small mining companies and criminal gangs able to dribble regulations. Underground activities, that are estimated to have produced between 20-30mila tons a year, is complicit (along with the global economic slowdown) of the prices' collapse after a fairly stable 2001-2009 period. However, as suggested by Jon Hykawy, a Bay Street veteran and expert on critical materials, illegal mining will no longer be a problem: "Since 2011, export quotas set by China have not been met by official exports. We can argue what impact unlicensed or pirate production might be having, but the fact of the matter is that prices have fallen and quota was available, so one would expect that pirate production cannot be a huge portion of the market. Why would a major purchaser, say a major automotive company, depend on illegally produced and smuggled material when the quota allows for them to legally buy the same material and remove some degree of supply chain risk?”

The fact is that, in the wake of WTO complaint, the restrictions were gradually relaxed. Indeed, Du Shuaibing, analyst at Baichuan Information, refers to the 'China Daily' that the removal of the quota system might have little impact on the market because in recent years the export volume has stood well below the prescribed ceiling. In the first eleven months of 2014, the world's second-largest economy exported 'only' 24,866 metric tons of rare earths, well below its 30,611-tons quota.

"It seems to me that the quotas and other policies that drive a wedge between the domestic price and the international price of rare earths were pretty clearly not consistent with the WTO agreement, so changing the policy is a good step for the rule of law in international trade. But I think it will have limited substantive effect on market competition or who trades with whom" said  Eugene Gholz, Professor at the 'University of Texas at Austin and consultant of the US Department of Defense.

Gholz is the author of a 'revolutionary' study published last October by the Council on Foreign Relations. According to the US Geological Survey, althought US would have no less than 13 million tons of rare earths stocks, the dependence on Chinese supplies in military  industry would still be almost total. Nevertheless, for Gholz, the embargo against Japan and the rigid restrictions imposed by China have had a limited global impact, and not just because of smuggling activities mentioned above. Various subterfuges have opened new ways, from exporting rare earths combined with small amounts of other alloys to a strategy of self-sufficiency based on continuous innovation. Feeling cornered, the high-tech companies have learned to make use of alternative technologies, sometimes less sophisticated, in order to free themselves from the bondage of the precious metals. Since Beijing has slowed its exports, in 2009, the United States, Japan and Australia have started (or restarted) their mining activities in Canada, South Africa and Kazakhstan. For its part, Tokyo has bypassed the obstacole making partnerships with Mongolia and India, the second largest producer in the world.

In this perspective, the functionality of the Chinese reserves in the so-called 'the geopolitical of the rare earths' is greatly reduced. According to Gholz, China would now account for the 70% of global production, down from over 90%. "The quotas have not been formally binding. The combination of demand destruction due to increased efficiency, innovation, and product substitution; expanded availability of rare earth oxides outside of China; and movement of downstream rare earths business (e.g., magnet-making) to China in recent years reduced demand for Chinese exports of rare earth oxides that were covered by the quota”, he said. “Some of the movement of downstream business to China may well have been caused by anticipation that the quota would otherwise be binding in the future; some of the movement of downstream business to China was also likely caused by other policy levers that made the internal Chinese price of rare earth oxides significantly lower than the export price, meaning that magnet-making would be less expensive in Chinese factories than in Japanese factories (or in other foreign locations).“

Downstream production in China may also have had easier access to cheap, illegally mined feedstock, since after all giving illegal material to a domestic producer would not require the trouble of smuggling it across a border; perhaps it would involve less corruption costs, and as a result some downstream Chinese producers may have expanded at the expense of foreign downstream producers, again meaning that China would not need to export as much material covered by the quotas. “In essence, a number of factors have combined to minimize the relevance of the quotas over the last few years,” he said,

Gholz opinion is widely shared among experts. Nayef Al-Rodhan, honorary fellow of 'the Oxford University and Director of the Geopolitics and Global Futures Programme at the Center for Security Policy in Geneva, said that “the revocation of the quota system will not change much since it is followed by a strict export license system and a consolidation of the rare earth metals industry in China, which will be dominated by six big state-owned conglomerates". According to the Wall Street Jorunal, Baotou, China MinmetalsCorp. , Aluminum Corp. of China, Ganzhou Rare Earth Group Co., Guangdong Rising Nonferrous Metal Co. and Xiamen Tungsten Co. account for about 85% of China's rare earths production.

Obviously, in the longer term, demand will only rebuild if buyers feel confident about being able to obtain rare earths in a reliable fashion in the future. But, “China is making the industry more opaque, not less”, said Hykawy, “The export quota is gone, but the production quota remains, so there is still artificially limited Chinese supply. It is also expected that in the short and medium term, China will proceed to compensate for the demise of the quota system by rolling out other, alternative safeguards: it could impose a resource tax on rare earth metals, possibly new export rules, or environmental taxes. Moreover, the end of the quote system will not reflect equally on all rare earths and some will be subject to very strict export licences, thus giving Chinese enterprises great leverage."

The WTO ruling does bring a momentous change in the rare earths export regime from China in the sense of making it more ‘orderly’ but it does not significantly, in the short term at least, alter China’s immense influence on the market, said Al-Rodhan. “Rather, it can be argued this change is more symbolic than of much impact. It will improve the overall management of the rare earths export and reduces frictions with other trading partners without necessarily weakening China or impacting overall prices”

mercoledì 11 febbraio 2015

Stato di diritto 'con caratteristiche cinesi'


Lo scorso autunno, mentre le proteste democratiche paralizzavano Hong Kong, il 'Quotidiano del popolo', megafono del Partito comunista cinese, bollava il movimento come 'illegale' invocando il rispetto dello 'Stato di diritto' nell'ex colonia britannica. Non molti giorni dopo, il 'rule of law' compariva in cima all'agenda del Quarto Plenum, conquistandosi un posto di primo piano nel corso di una riunione plenaria per la prima volta dalla fondazione del Partito. Il communiqué rilasciato al termine del consesso -16mila caratteri sulla riforma giudiziaria- mette in risalto come «l'obiettivo di governare il Paese secondo la legge sta portando alla realizzazione di un sistema di diritto con caratteristiche cinesi e un Paese socialista basato sul rule of law». Il percorso di riforma ambisce a «garantire l'imparzialità giudiziale, aumentare la credibilità del sistema giudiziario, rafforzare il senso dello Stato di diritto tra il popolo [...] e potenziare la leadership del Partito nel processo di transizione verso un governo del Paese secondo la legge». Addirittura la Costituzione, miccia scatenante di un annoso dibattito, compare come «nucleo centrale del sistema legale socialista» propugnato dall'amministrazione Xi Jinping - Li Keqiang. Nonostante la ricorrenza minacciosa delle famigerate 'caratteristiche cinesi' ci ricordi che Pechino è ben lungi dallo scarica il sistema del Partito unico per abbracciare una democrazia multipartitica di stampo occidentale, in assenza di una riforma politica vera e propria questo è ciò che, in Cina, più le si avvicina. Un riconoscimento a livello internazionale è quanto il gigante asiatico si aspetta di ottenere.

Appena alcuni giorni fa, il Pechino si scagliava a mezzo stampa contro Human Rights Watch ritenuto colpevole di ignorare i successi inanellati dalla Repubblica popolare nella difesa dei diritti umani. Non a caso la ristrutturazione del sistema legale viene citata come il principale canale attraverso cui effettuare la transizione dal 'rule of power' al 'rule of law'. Limitando il potere discrezionale dei giudici si punta a «rafforzare il potere del popolo a sapere, farsi ascoltare, difendersi e rivolgersi alle corti di giustizia». A livello pratico, il processo di restyling ha già portato all'abolizione di 400 leggi, politiche e regolamenti del Partito. Secondo quanto ribadito giorni fa dal Comitato centrale politico e legislativo, la Cina si ripromette di archiviare il meccanismo delle quote «per gli arresti, i rinvii a giudizio, i verdetti di colpevolezza e la conclusione dei casi», all'origine di sentenze spesso affrettate. L'esigenza di rientrare all'interno di obiettivi prefissati ha fatto sì che fino a oggi oltre il 90% dei casi penali in Cina si sia concluso con una condanna. Come la cronaca recente dimostra, per Pechino è giunto il momento di fare un coraggioso passo indietro e riaprire fascicoli costati la pena capitale a persone innocenti.

Per evitare di incappare nei vecchi errori, il reclutamento di giudici e pubblici ministeri verrà sottoposto alla vigilanza della Corte Suprema del Popolo, massimo tribunale della Repubblica popolare, e delle corti provinciali. I tribunali locali passeranno sotto l'amministrazione delle autorità provinciali per prevenire che il regolare lavoro subisca le interferenze dei Governi a livello di città e contea. Grande novità: hanno già cominciato ad operare (venendo presi d'assalto) i primi tribunali circondariali con lo scopo di sottrarre i casi legali all'arbitrio e agli interessi dei funzionari locali. Limitare l'influenza delle cosiddette 'mosche' -i quadri corrotti di rango inferiore ai quali Xi Jinping ha dichiarato guerra- rientra tra i propositi delle nuove direttive percepite dal Partito come condizione necessaria affinché possano andare in porto le riforme economiche lanciate nel novembre 2013. Migliorare il sistema giudiziario vuol dire legare le mani alle mele marce di cui la leadership si sta progressivamente liberando (oltre 53mila i funzionari indagati per corruzione nei primi undici mesi del 2014), e fornire ai cittadini un mezzo pacifico con cui far ascoltare le proprie lamentele. Se è vero che l''armonia sociale' continua a rimanere uno dei principali crucci dell'establishment cinese, è anche vero che «chiudere il potere in una gabbia» è pur sempre meglio che perderlo. E a Zhongnanhai parrebbero aver capito che per mantenerlo non basta più soltanto assicurare benessere economico o reprimere le voci del dissenso. Da qui la necessità di una completa ristrutturazione del sistema che, tuttavia, per il momento continua a convivere con il vecchio metodo del 'bavaglio', suscitando lo sdegno della comunità internazionale.

Il mondo esterno osserva la metamorfosi cinese con occhio critico. Paul Gewirtz, docente di legge presso il China Center della Yale Law School, è uno dei pochi a riconoscere sulle colonne del 'New York Times' i progressi fatti sinora dalla Cina: negli ultimi vent'anni il numero degli avvocati è quasi raddoppiato, l'utilizzo della pena di morte drasticamente ridotto, il sistema dei campi di lavoro abolito e vietata la tortura come mezzo di estorsione nelle confessioni, pratica pubblicamente condannata dai media ufficiali. D'altro canto, riconoscere ai tribunali maggior autorità non significa assicurare l'indipendenza giudiziaria di cui godono le democrazie occidentali attraverso la separazione dei tre poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Significa piuttosto ridurre la capacità d'ingerenza dei governi periferici per rafforzare quella del Governo centrale. Mentre si tenta di aumentare il coinvolgimento dei cittadini implementando una 'democrazia consultiva', definita eloquentemente dall'agenzia di stampa Xinhua «un modello democratico, guidato dal Partito comunista, che prevede la consultazione di tutti i settori sociali riguardo alle principali questioni, prima e durante il processo di policy-making».

Rimproveri in tal senso non arrivano soltanto da oltre Muraglia. Un paio di settimane fa, Xie Guoming, editor del 'People's Tribune', rivista affiliata al 'Quotidiano del Popolo', ha puntato il dito contro la «tradizione feudale in base alla quale il potere politico può sostituire la legge». Prima c'era l'imperatore oggi c'è il Partito-Stato ma in sostanza poco cambia, lascia intendere l'autore. «Le istruzioni orali dei leader sono superiori alle loro istruzioni scritte, e le istruzioni da loro scritte sono superiori ai documenti del Partito e del Governo, e i documenti del Partito e del Governo sono superiori alla legge e ai regolamenti».

Per Xie l'origine dell'anomalia cinese risale niente meno che al III secolo a. C., quando il Regno di Mezzo fu scosso da un'ondata di fervore intellettuale e lotte intestine. Una scuola di pensiero, il Legismo, si affermò come metodo di governo autocratico basato su un sistema legale e su stratagemmi politici volti a ottenere l'obbedienza dei sudditi. Durante la dinastia Han (206 a. C. - 220 d. C.) fu realizzata una sintesi di elementi confuciani e legisti poi cristallizzata in una forma di governo che sarebbe rimasta in gran parte immutata fino alla fine del XIX secolo. Ancora negli anni '30 del secolo scorso, lo scrittore Lin Yutang magnificava i vantaggi del Legismo come panacea per i mali della Cina in contrapposizione al moralismo effimero del Confucianesimo, l'altro pilastro ideologico su cui poggia tutt'oggi la società cinese. Al Legismo -secondo Lin- si deve la concezione del governo attraverso le leggi (法制 fazhi) anziché attraverso l'operato di persone di valore (君子 junzi, gentiluomo) come voleva Confucio. In quest'ottica tutti diventano uguali davanti alla legge a prescindere dalla loro collocazione sociale. Tant'è che, in virtù della sua rigorosità e imparzialità, Lin vedeva nel Legismo ciò che più si avvicina alla nostra concezione di uguaglianza davanti alla legge, riducendo il divario tra un sistema (quello occidentale) incentrato sui diritti dell'individuo e uno (quello cinese) focalizzato sul benessere della collettività. Ma la Cina di Lin Yutang non è la Cina di Xie Guoming. Il sapere degli antichi, utilizzato come riempitivo durante il passaggio dall'Impero alla Repubblica, non solo non può più bastare alla seconda economia del mondo tenuta a vista dalla comunità internazionale e a caccia di investimenti esteri (nei piani di Pechino un apparato giuridico efficiente dovrebbe, tra le altre cose, invogliare l'arrivo di capitali d'oltremare), ma rischia anche di frenare le riforme.

Per capire quanto il Confucianesimo ancora conti in cima alla piramide del potere basta sfogliare 'The Governance of China', una summa di 79 discorsi tenuti dal Presidente Xi tra il novembre 2012 e il giugno 2014 pubblicata in nove lingue, che prende dichiaratamente in prestito una terminologia tutta confuciana («Quando vediamo uomini di virtù dobbiamo pensare ad eguagliarli; quando vediamo uomini di carattere contrario, dobbiamo esaminare noi stessi»). Come ci spiegava tempo fa il Professor Maurizio Scarpari, nell'attesa che il laborioso processo di riforma varato dalla leadership cominci a dare i primi frutti "si fa ricorso anche al rilancio delle virtù confuciane dell’amore filiale e della solidarietà per il prossimo; virtù confuciane che cercano di riproporre alcuni valori etici che hanno tenuto coesa la Cina per oltre 2000 anni." Quando, però, si parla di eredità legista il discorso assume subito tinte fosche. Secondo Xie Guoming «il Legismo implica l'utilizzo della legge per governare il popolo, ma non per contenere il potere»; «enfatizza punizione severe per mantenere il controllo dei funzionari e dominare i cittadini». E' l'insoluta tenzone tra 'rule of law' (Stato di diritto) e 'rule by law' (governare attraverso la legge). All'indomani del Quarto Plenum gli esperti di cose cinesi si erano domandati quale delle due traduzioni fosse preferibile per meglio descrivere il corso intrapreso dalle riforme. "In realtà, i due termini anche in mandarino hanno significati diversi," ci dice Zou Keyuan, professore di Diritto internazionale presso la University of Central Lancashire e autore di 'China's Legal Reform: towards the Rule of Law'. "Il primo è fazhi (法治 'Stato di diritto' o 'rule of law' in inglese), l'altro è fazhi (法制 governare attraverso la legge ovvero 'rule by law'). Poiché i due termini, pur essendo ben distinti e scritti in maniera diversa si pronunciano allo stesso modo, per chi non conosce la lingua cinese è facile confondersi. Non credo che nella storia cinese ci sia mai stato 'rule of law' ma solo 'rule by law'. In questo senso sono d'accordo con Xie. Anche se il governo cinese sostiene la costruzione di un Paese basato sullo Stato di diritto credo che la strada sia ancora molto lunga".

"Nel Legismo classico c'è un elemento di 'Stato di diritto', ma il 'rule by law' è predominante", spiega a 'L'Indro' Sam Crane, Professore di Politica e Filosofia antica presso il Williams Collage, "E 'abbastanza chiaro che Han Feizi (il più grande degli scrittori legisti) sia stato consulente del sovrano per costruire e mantenere un sistema giuridico rigoroso al fine di preservare il potere del reggente, un po' come Machiavelli (anche se penso che sarebbe più corretto chiamare Machiavelli 'l'Han Feizi italiano' e non il contrario). In questo contesto il sovrano (che anticamente era una sola persona) è al di sopra della legge, e lo scopo della legge è quello di mantenere il sovrano al potere. Per questo si parla di 'rule by law'. Curiosamente però Han Feizi era fermamente convinto che i ministri - cioè quelli con un certo potere politico in grado di sfidare il Principe - dovessero essere pienamente sottoposti alla legge. Per loro, c'era effettivamente uno 'Stato di diritto', nel senso che il loro potere politico era circoscritto dal diritto pubblico valido per tutti gli altri".

"Pensando alla situazione attuale, abbiamo davvero bisogno di prendere in considerazione il fatto che la Repubblica popolare cinese è governato dal Partito comunista, il quale intende il potere e la politica in termini leninisti. All'interno di questo tipo di struttura politica, il 'Principe' è, in sostanza, il Partito, non semplicemente il Presidente Xi. E il Partito è soggetto ad una disciplina interna che può prevalere sul diritto pubblico. Inoltre, è abbastanza ovvio che il Partito è esonerato da una piena applicazione del diritto pubblico. Quindi, l'espressione contemporanea di Legismo nella Cina continentale è più una questione di 'rule by law'. La campagna contro la corruzione è ancora in corso ma se è vero che alcune 'tigri' [i funzionari di alto grado] sono state catturate, si noterà tuttavia che nessuno tra 'principini' [i membri dell'aristocrazia rossa di cui Xi Jinping fa parte] è ancora stato fatto politicamente fuori. Questi, troppo vicini alla base del potere di Xi, sono protetti da una piena implementazione della disciplina interna. Per loro, e ancora per buona parte dell'élite del Partito, il sistema è ancora basato sul 'rule by law' dal quale sono immuni. Tutto questo potrebbe cambiare nel corso della guerra contro la corruzione; vedremo se ci sarà una sterzata più significativa verso il 'rule of law'. Va detto, tuttavia, che in ambiti della vita sociale non influenzati così centralmente dalla politica si può riscontrare un graduale sviluppo delle pratiche basate sullo 'Stato di diritto'. Anche se esiste un limite politico sull'estensione che lo 'Stato di diritto' può raggiungere".

Sullo stesso spartito Zhang Qianfan, professore presso la Law School della Peking University. "E' vero che lo Stato di diritto richiede che non siano solo le persone a osservare la legge ma anche il Governo", ci dice. "Tuttavia il punto centrale non è la legge, ma il sistema politico. Né la Cina contemporanea né quella imperiale sono riuscite a raggiungere lo Stato di diritto -in particolare a contenere il potere pubblico-, sopratutto perché il governo non è eletto dal popolo; la gente non governa, piuttosto è stata in passato ed è tutt'oggi controllata prima dall'imperatore e poi dal Governo. Quindi la differenza concettuale è molto meno significativo di quanto non lo sia la differenza politica".

(Pubblicato su L'Indro)

mercoledì 4 febbraio 2015

Il controverso ritorno di Pechino all'atomo


A quasi quattro anni dal disastro di Fukushima, la Cina scommette di nuovo sull'atomo, spinta dal desiderio di ridurre la propria dipendenza dai combustibili fossili e di affermarsi in un settore in cerca di nuove eccellenze. Il nucleare compare nel rapporto sul lavoro del governo per il 2014 tra le fonti energetiche su cui puntare maggiormente per ridurre l'inquinamento ambientale che affligge il Paese. Il settore tira: lo scorso dicembre, CGN (China General Nuclear Power), punta di diamante dell'industria atomica cinese, si è quotata alla borsa di Hong Kong con un'offerta pubblica iniziale di 24,5 miliardi di HKD (2,7 miliardi di euro), divenendo il primo gruppo nucleare a fare il suo debutto sul mercato azionario dai tempi della British Energy (1996).

All'indomani della crisi giapponese, Pechino aveva cancellato circa metà dei progetti al tempo in corso (un centinaio) al sopraggiungere di preoccupazioni sulla progettazione e collocazione di alcuni impianti nelle regioni interne del Paese, quelle più colpite da terremoti. La moratoria era poi stata annullata nell'ottobre 2012, quando l'allora Premier Wen Jiabao annunciò che la Cina sarebbe tornata alla «normale costruzione di nuove centrali nucleari sulla base di uno sviluppo ordinato». Lo scorso settembre, la National Development and Reform Commission, massimo pianificatore economico del Paese, ha approvato la ripresa di quattro progetti con una capacità combinata di 10 milioni di chilowatt, situati lungo le coste.

Nel 2014, l'energia atomica ha costituito solo il 2,1% di tutta l'elettricità prodotta nell'ex Celeste Impero, contro una percentuale a livello globale dell'11,3%. Secondo l'Energy Development Strategy Action Plan del 19 novembre scorso, entro il 2020, la Cina dovrà passare dagli attuali 19,1 gigawatt di capacità nucleare installata a 58 gigawatt, diventando il terzo Paese per capacità generata dopo Stati Uniti e Francia. Se tutto andrà come sperato, nel 2050 il Dragone dovrebbe raggiungere i 400-500 gigawatt. Il Piano prevede il 'lancio in tempi opportuni' di nuovi progetti lungo le coste del Paese e l'attuazione di studi di fattibilità per la realizzazione di impianti nelle province occidentali, insistendo sulla promozione dell'uso di grandi reattori ad acqua pressurizzata (come AP1000 e la versione cinese CAP1400), reattori raffreddati a gas ad alta temperatura (HTR) e reattori veloci. Dopo il disastro di Fukushima le ambizioni nucleari del Dragone si sono ridimensionate (secondo il Long-term development plan for nuclear power industry del 2006, l'obiettivo da raggiungere sarebbe dovuto essere di 80 gigawatt entro il 2020), ma per Moody's, quella cinese è ancora «un'espansione atomica aggressiva». Dei 71 reattori in costruzione in giro per il mondo, 26 sono in Cina cui vanno ad aggiungersi i 24 già in funzione e i 180 ancora sulla carta.

Il Dodicesimo Piano quinquennale (2011-2015) prevede l'approvazione di un piccolo numero di progetti nucleari «dopo discussione approfondita», ma molte sono le attese sul ruolo che le 'energie pulite' ricopriranno nel prossimo Piano 2016-2020. Sopratutto alla luce degli impegni presi con la controparte americana a margine del summit Apec (Asia-Pacific Economic Cooperation) sui cambiamenti climatici. Secondo l'accordo stretto con Barack Obama, il gigante asiatico dovrà raggiungere il picco massimo di emissioni di gas serra entro il 2030. Per quella data, la produzione energetica cinese dovrebbe arrivare a dipendere per il 20% da fonti alternative; vale a dire che nei prossimi 15 anni la Cina è tenuta ad assicurarsi 800-1000 gigawatt di capacità energetica pulita contro gli attuali complessivi 1250 gigawatt, ottenuti perlopiù attraverso la combustione del carbone, sino ad oggi nutriente principale dell'economia energivora cinese. Si tratta di un obiettivo per niente facile, nonostante -secondo dati di BNEF (Bloomberg New Energy Finance)- la Cina sia al momento il Paese più attivo nelle rinnovabili con 90 miliardi di dollari investiti. Ricorrere all'atomo, pertanto, rappresenta un'opzione allettante per raggiungere il traguardo prefissato. Ma c'è dell'altro. A livello internazionale il settore langue un po' per l'onda d'urto di Fukushima, un po' per l'improvviso entusiasmo suscitato dallo shale gas nell'America del Nord. Scenario, questo, che lascia al Dragone ampio spazio di manovra per effettuare il salto da 'follower' a 'leader' dell'industria portando avanti «miglioramenti tecnologici di rilievo». Come? Secondo il Premier Li Keqiang, «per diventare una potenza dell'energia nucleare, la Cina deve aumentare i propri vantaggi competitivi del settore, promuovere apparecchiature nucleari all'estero, e garantire che l'industria sia assolutamente sicura».

Pechino spera che il proprio programma nucleare possa proiettare nuove opportunità di business oltremare, come suggerito da un primo accordo per l'acquisto del 30-40% delle quote della centrale britannica Hinkley Point da parte dei due colossi di Stato CNNC (China National Nuclear Corporation) e CGN (China General Nuclear Corporation). Intesa particolarmente ghiotta che permette alle società cinesi di mantenere proprietà e gestione di centrali nucleari 'Chinese-designed' nel Regno Unito. Non solo. Stando a quanto affermato dal Capo ingegnere di SNPTC (State Nuclear Power Technology Corp), il gigante asiatico sarebbe in procinto di estendere le proprie attività in Turchia e Sudafrica. Nel 2013, Pechino ha fornito al Pakistan un prestito da 6,5 miliardi di dollari per finanziare due reattori da 1100 megawatt di capacità ciascuno, a Karachi; più recentemente il Presidente Xi Jinping ha avanzato l'ipotesi di un coinvolgimento cinese nel nucleare civile indiano, in occasione della sua ultima visita nel subcontinente, mentre avevamo già avuto modo di rivelare le mire energetiche di Pechino nell'Europa centro-orientale. Il tutto da leggersi alla luce degli sforzi messi in campo dalla leadership per dotarsi di una squadra di campioni nazionali in grado di dare nuovo smalto all'immagine della Cina non più fabbrica del mondo, ma bensì promotrice di uno sviluppo votato alla qualità. Di poche ore fa la notizia che il Governo cinese starebbe pensando di razionalizzare e potenziare il settore promuovendo una fusione tra SNPTC e China Power Investment Corp., uno dei principali produttori di energia elettrica del Paese. Ma questo non vuol dire necessariamente ancorare l'industria ai colossi di proprietà statale. Liu Baohua, Segretario del National Energy Board, ha reso noto che il settore sarà progressivamente aperto agli investimenti privati sdoganando uno dei vecchi monopoli di Stato. Una mossa accolta con entusiasmo da parte dei governi periferici che intravedono in un settore nucleare più dinamico potenziali nuovi posti di lavoro a livello locale.

Sebbene la cooperazione internazionale sia benvenuta, Pechino non ha mai nascosto la volontà di raggiungere una sorta di auto-sussistenza tecnologica. Allo stato attuale, il programma nucleare cinese dipende principalmente dalla tecnologia di terza generazione AP1000 progettata dalla statunitense Westinghouse. Sulla base di un accordo di trasferimento di tecnologia siglato nel 2007, SNPTC sta ora lavorando alla progettazione e costruzione dei propri reattori (CAP 1400) sulla base del modello americano. Il primo reattore di questo tipo dovrebbe vedere la luce nel Zhejiang, ma continui ritardi hanno costretto ad una posticipazione del taglio del nastro al 2016 - se non più tardi. Nel frattempo, il Paese sta vagliando altre strade nello sviluppo di un modello di terza generazione tutto cinese qualificato per l'export. E' questo il caso di Hualong I, reattore sviluppato congiuntamente da CNNC e CGN sulla base di know how francese e che -secondo quanto dichiarato dal Capo ingegnere di CGN- il gigante asiatico spera di esportare in Gran Bretagna nell'ambito dell'intesa su Hinkley Point di cui accennavamo.

Davanti all'evoluzione del nucleare 'made in China', per il momento i competitor internazionali si dicono tranquilli ridimensionando le sfide poste da un'industria considerata ancora acerba. Gli invitanti prezzi della tecnologia cinese non bastano a dirottare l'attenzione dalla lunga serie di ritardi registrati dai progetti autoctoni (oltre al caso del Zhejiang, problemi tecnici sono stati riscontrati anche in un reattore di terza generazione a Taishan, nella provincia del Guangdong). Alle difficoltà tecniche si aggiungono complicanze di ordine pratico. La formazione del personale impiegato nelle centrali, di solito richiede dai quattro agli otto anni e il gigante asiatico è a corto di talenti. «La Cina oggi ha circa mille esperti nucleari, ma avrà bisogno di averne 4mila entro il 2020», spiegava tempo fa al 'China Daily' Donald Hoffman, Presidente di Excel Services Corp, un fornitore di servizi di regolamentazione e di ingegneria nucleare statunitense. Mentre un tempo Pechino si è dimostrato pronto a foraggiare le imprese statali nei settori ritenuti 'strategici', oggi, alla luce del rallentamento economico, priorità assoluta è far fronte alle montagne di debiti accumulati dalle amministrazioni locali nella corsa agli investimenti sfrenati degli ultimi anni. Ergo niente più credito facile e spese pazze. Stando così le cose, c'è da chiedersi se, in tempi di ristrettezze, il nucleare -i cui costi tecnici sono nettamente lievitati dopo Fukushima- meriti tanta attenzione. Sopratutto considerando che, secondo BNEF, nel 2030 l'eolico on-shore costituirà il mezzo più conveniente per generare energia in Cina. Stando agli analisti di Bloomberg, per quello stesso anno le rinnovabili potrebbero arrivare a produrre tre volte l'energia generata con il nucleare.

Una volta reciso il nodo gordiano dei costi e del know how resta da convincere la pancia del Paese che la Cina è in grado di gestire l'industria senza rischi. Il fatto è che Pechino non può più permettersi di avviare progetti invisi alla popolazione con la leggerezza ostentata in passato. Nel 2013, oltre 2000 persone sono scese in strada a Jiangmen (Guangdong) per protestare contro la costruzione di un impianto per la lavorazione dell'uranio da 6 miliardi di dollari. Le pressioni di piazza hanno portato all'abbandono del progetto, primo pesante dietrofront nel programma nucleare cinese. Con la speranza di avvicinare i cittadini all'atomo, il Governo ha cominciato ad adottare un approccio più trasparente organizzando tour degli impianti, sulla falsariga dei 'public days' lanciati dal gruppo petrolifero Sinopec dopo le dimostrazioni contro la costruzione di un impianto petrolchimico a Maoming.

A metà gennaio, in occasione del Sessantesimo anniversario del programma nucleare civile, il Vice Direttore della National Energy Administration ha ricordato che «la Cina non ha mai incontrato problemi di sicurezza da quando la sua prima centrale nucleare è stata costruita nel 1985». Una legge sulla sicurezza nucleare è attesa per il 2016, anno in cui la Cina interromperà del tutto la costruzione di reattori di seconda generazione per dedicarsi interamente a quelli di terza. Ma la sostanziale immaturità del settore richiede cautela e i leader lo sanno bene. Parlando al summit sulla sicurezza nucleare tenutosi all'Aja lo scorso marzo, il Presidente cinese aveva paragonato 'l'atomo' al dono del fuoco rubato da Prometeo agli dei per il bene dell'umanità. Può portare grandi benefici, ma senza le dovute precauzioni «un futuro radioso rischia di essere offuscato da nubi nere e persino da catastrofi».

(Pubblicato su L'Indro)

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