venerdì 17 novembre 2017

In Cina e Asia



Commissione Usa: i giornalisti cinesi come spie

Portano avanti attività di spionaggio e propaganda e pertanto vanno trattati come agenti stranieri. Nel presentare il suo rapporto annuale al Congresso, la U.S. China Economic and Security Review Commission si è scagliata contro i reporter d’oltre Muraglia. A finire nel mirino è sopratutto l’agenzia ufficiale Xinhua, definita “un’agenzia di intelligence incaricata di raccogliere informazioni e produrre rapporti classificati per la leadership cinese su eventi sia nazionali che internazionali”. Secondo le raccomandazioni della Commissione, le attività dei giornalisti andrebbero gestite sulla base del Foreign Agents Registration Act, legge del 1938 che richiede a partiti politici, governi e lobbisti stranieri di registrasi presso il Dipartimento di Giustizia. In fase di riforma bipartisan, una volta emendato l’Act — che ha già colpito i media russi — potrebbe venire incontro alle richieste della Commissione, che tuttavia non hanno forza di legge. Da tempo gli Stati Uniti lamentano la mancanza di reciprocità nel settore dell’informazione: mentre Pechino continua a moltiplicare gli araldi del proprio soft power all’estero, i corrispondenti americani in Cina si vedono sempre più spesso negare il rinnovo del visto o l’accesso a importanti eventi politici.

Nello stesso rapporto, la USCC ha invitato il Congresso a bloccare l’acquisto di assets da parte delle aziende statali (SOEs) e dei fondi sovrani cinesi, sopratutto quando in gioco ci sono “tecnologie o infrastrutture critiche” L’avvertimento è in linea con un progetto di legge al vaglio del Congresso che punta a inasprire il processo di revisione e approvazione degli investimenti esteri da parte del US Committee on Foreign Investment in the United States (CFIUS). Camera e senato voteranno la legge a gennaio.

Trattenuti 30 parenti della leader uigura Rebya Kadeer

Pechino ha preso in custodia una trentina di parenti di Rebiya Kadeer, la leader della resistenza uigura contro la sommersione etnica guidata da Pechino. A riferirlo è Amnesty International, secondo cui fratelli, sorelle, figli e nipoti della Kadeer sarebbero stati presumibilmente spediti nei centri di “rieducazione” spuntati negli ultimi tempi nello Xinjiang, la regione autonoma della Cina occidentale. Sebbene la versione di Amnesty non sia ancora stata verificata indipendentemente, voci sul proliferare di cosiddette “scuole di educazione professionale” circolano da tempo. O meglio da quando Chen Quanguo è diventato il nuovo autoritario segretario del Xinjiang. Sarebbero circa 2000 i detenuti perlopiù appartenenti ai gruppi minoritari degli uiguri, kazaki e kirghisi, “colpevoli” di avere trasgredito le norme sulla registrazione degli smartphone, di avere parenti all’estero o di essere troppo religiosi.

Ex membro della Conferenza consultiva del popolo, Rebiya Kadeer è stata imprigionata nel 1999 con l’accusa di aver rivelato segreti di stato e rilasciata nel 2005, anno in cui si è trasferita negli Usa da dove continua a portare avanti la sua lotta contro la repressione cinese.

Taiwan destinata a fallire come la Catalogna

Taiwan impari dal fallimento delle pretese indipendentiste della Catalogna. Il monito è giunto ieri per bocca di Ma Xiaoguang, portavoce del Taiwan Affairs Office, l’agenzia responsabile per la fissazione e l’attuazione delle linee guida e delle politiche relative all’ex Formosa. Letteralmente: “Il fallimento del referendum della Catalogna dimostra che la tutela del sovranità nazionale e dell’integrità territoriale è un interesse nazionale di primaria importanza per est o ovest. Per questo anche Taiwan è destinata a fallire”. Nei giorni scorsi Pechino ha espresso a più riprese piena solidarietà nei confronti di Madrid, a cui la leadership cinese si sente vicina per via delle similitudini con le questioni tibetana, xinjianese e taiwanese. Ma mentre le prime due sono più facilmente gestibili in casa propria, le velleità indipendentiste di Taipei hanno implicazioni più ampie. Secondo quanto affermato da Xi Jinping durante la visita di Trump oltre la Muraglia, Taiwan continua ad essere la spina nel fianco delle relazioni sino-americane. Da quando la filoindipendentista Tsai Ing-wen ha assunto la guida dell’isola, Pechino ha sfoderato tutte le sue armi diplomatiche per isolare Taipei dalla comunità internazionale. Proprio pochi giorni fa, la Repubblica di Cina si è vista chiudere le porte di un meeting sui cambiamenti climatici tenutosi in Germania.

Il colpo di stato in Zimbabwe non rallenterà l’avanzata cinese in Africa


I rapporti tra Pechino e lo Zimbabwe rimarranno solidi nonostante il golpe “pacifico” con cui i militari hanno sovvertito il governo del 93enne Robert Mugabe. E’ quanto previsto dagli analisti consultati dal Scmp. La Cina è la prima fonte di valuta estera nonché principale partner commerciale di Harare. Oltre ad addestra e rifornire lo Zimbabwe di armi, ha investito nella costruzione di scuole, ospedali, centrali elettriche e uffici governativi. Tant’è che durante una visita di stato nel 2015, Xi Jinping ha definito il paese africano “un amico per tutti i tempi”. Appena pochi giorni fa il generale Constantino Chiwenga, capo dell’esercito, era stato a Pechino per un “normale scambio militare come accordato tra i due paesi”. Mentre è improbabile che la leadership cinese sia stata informata sulle macchinazioni delle forze armate, la fine di un governo percorso da continue tensioni politiche è sicuramente di conforto per il business d’oltre Muraglia.

Human Rights Watch condanna la terapia di “conversione sessuale”

In un rapporto, realizzato sulla base di 17 testimonianze, HRW descrive la pratica di “conversione sessuale” a cui sono sottoposti omosessuali e bisessuali — spesso per volere delle famiglie — in ospedali pubblici e cliniche private cinesi. La terapia, che comprende la somministrazione di farmaci e in almeno cinque casi accertati l’imposizione di elettroschock, viola la Mental Health Law del 2013, in base alla quale le strutture mediche non possono ammettere il ricovero di persone a cui non sia stato diagnosticato un qualche disturbo mentale. Oltre la Muraglia, l’omosessualità è stata declassificata come malattia mentale nel 2001, ma tutt’oggi la comunità LGBT cinese — che vanta 70 milioni di membri — non ha vita facile. Un sondaggio condotto lo scorso anno dal United Nations Development Programme su 300mila soggetti attesta che circa la metà dei rispondenti è stata vittima di discriminazioni legate all’orientamento sessuale.

Crisi rohingya: Tillerson chiede chiarezza

Al momento “non è consigliabile” sottoporre il Myanmar al peso di nuove sanzioni economiche. Tuttavia, è necessario effettuare investigazioni “credibili” sulle “atrocità commesse dalle forze di sicurezza e dai vigilantes durante le recenti violenze nello stato Rakhine”; i responsabili potrebbero essere sottoposti a pene mirate. E’ quanto dichiarato dal segretario di Stato americano Rex Tillerson durante i colloqui avuti mercoledì con il generale Min Aung Hlaing e Aung San Suu Kyi, la leader di fatto costretta dalla costituzione a governare in tandem con i militari. La visita di Tillerson in Birmania arriva a stretto giro dalla pubblicazione di un controverso report interno, in cui il Tatmadw (l’esercito) viene assolto da qualsiasi responsabilità nella crisi umanitaria dei rohingya in corso nello stato nord-occidentale del paese. Negli ultimi anni solo raramente i militari hanno ammesso la colpevolezza di alcune “mele marce” in casi di stupro e land grabbing. A maggior ragione la sospensione del capo del Comando occidentale — che opera nello stato Rakhine — annunciata a inizio settimana è una notizia potenzialmente esplosiva. Nessuna spiegazione è stata fornita sulla ragione del “prepensionamento” del generale maggiore Maung Maung Soe, finito tra le riserve. Ma ci sono evidenti possibilità che sia da collegare alle violenze dell’ultimo anno.

Intanto, la testimonianza di un militante fuggito in Bangladesh fa luce sull’Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa), il gruppo armato dietro gli ultimi assalti contro le forze dell’ordine. Secondo il 28enne — che smentisce qualsiasi legame con il terrorismo internazionale — 5mila guerriglieri dell’Arsa il 25 agosto hanno preso parte a quella che egli definisce “un’insurrezione organizzata”: “ogni compagnia comprendeva tra i 500 ed i 1000 Rohingya armati di bastoni e coltelli, insieme ad una manciata di squadre addestrate che avevano pistole e bombe a mano”. Almeno 150 di loro avrebbero trovato rifugio nei 15 campi profughi di Cox’s Bazar, in Bangladesh.

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