giovedì 4 ottobre 2018

I costi ambientali della carne di maiale



Il lago Dianchi, nella provincia cinese sud-occidentale dello Yunnan, è famoso per almeno tre motivi: la sua estensione (quasi 40 km), la caratteristica forma a mezzaluna e il colore verde brillante assunto dalla superficie nel periodo estivo a causa della formazione massiccia di alghe. Un fenomeno noto come eutrofizzazione, causato da nutrienti in eccesso nell’acqua, quali l’azoto e il fosforo, che oggi colpisce le zone interessate da un rapido processo di urbanizzazione o da forme di coltivazione e allevamento intensivo, con tutte le conseguenze annesse: dal rilascio di sostanze chimiche e fertilizzanti nel suolo e nell’acqua fino allo smaltimento illegale di rifiuti animali non trattati.

Nel caso dello Yunnan, il dito punta contro l’alta concentrazione di allevamenti di suini, che forniscono il 77% della carne assunta dalla popolazione locale. Nel solo 2017, nella provincia, il consumo pro capite di maiale ha raggiunto i 127 chili, circa due volte la media nazionale.

Con il miglioramento della qualità della vita, nelle ultime quattro decadi il consumo di carne oltre la Muraglia è aumentato in maniera esponenziale dai 10 chili l’anno per persona del 1980 ai 54 chili registrati nel 2013, dei quali circa il 73% costituito proprio da carne suina, quella più a buon mercato. Tanto che oggi nel paese asiatico si contano circa 700 milioni di suini, pari al 50% del totale mondiale. Le ripercussioni ambientali, sebbene non immediatamente intuibili, sono ben documentate in una ricerca pubblicata nel 2016 sul trimestrale scientifico Environmental Research Letters. Qui si mette in evidenza come il processo di accorpamento delle piccole realtà in fattorie e allevamenti di più grandi dimensioni, avviato nel 2000, ha visto schizzare fino al 70% l’utilizzo di pratiche di smaltimento occulte – quali lo scarico dei liquami nei corsi d’acqua -, fino agli anni ’70 attestato solo nel 5% dei casi.

Questo perché mentre il passaggio è stato accompagnato dalla diffusione di informazioni su razze, tecnologie e prevenzione delle malattie, tutt’oggi manca una regolamentazione del processo di trattamento dei rifiuti. Con il risultato che, secondo statistiche ufficiali del governo cinese, ormai l’80% delle falde acquifere del paese sono troppo inquinate per il consumo umano. Nel 2013, 16mila carcasse di maiali furono viste galleggiare sul fiume Huangpu in direzione di Shanghai dopo che gli allevatori avevano deciso di disfarsi degli animali morti per uno sbalzo climatico e ormai non più vendibili.

Come spiega al Guardian Wang Jing di Greenpeace East Asia la ristrutturazione del settore “ha stravolto il ciclo agricolo preesistente in Cina, basato sul riciclo dei rifiuti animali in fertilizzanti con metodi tradizionali. Alcune delle più grandi aziende agricole hanno convertitori industriali sul posto, ma sono disincentivati a utilizzarli perché non sono legalmente obbligati. Perdipiù il costo di gestione della macchina è più alto del valore del fertilizzante prodotto.”

Secondo Rachel Stern, esperto di leggi ambientali presso la UC Berkeley, il problema è proprio di natura economica: “i governi locali non hanno il coraggio di imporre dispendiosi requisiti di riduzione dell’inquinamento alle aziende agricole che non possono permetterseli.”

A questo punto non resta che sperare in un miglioramento delle abitudini alimentari dei cinesi. D’altronde, stando ai dati di Euromonitor, grazie a una maggiore attenzione per le pratiche salutari, nel 2017 il consumo di carne oltre la Muraglia è sceso a 40, 85 milioni di tonnellate, il livello più basso in tre anni.

[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]

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