sabato 27 agosto 2011

Go-out policy, l'arma a doppio taglio del Dragone


La Cina rafforza le sue mire espansionistiche sul mercato estero, facendo della "Go-global strategy" il suo cavallo di battaglia. Secondo l’Asia Society, organizzazione non-profit sul mondo asiatico, entro il 2020 gli investimenti oltremare del Dragone potrebbero raggiungere i 2 miliardi di dollari, un chiaro segno di come il governo cinese aspiri ad incrementare il processo di internazionalizzazione delle proprie imprese. Ma che convogliare il flusso monetario oltre i confini del Paese possa essere una garanzia di successo per le multinazionali cinesi è un’ipotesi che non sembra convincere Shujie Yao, professore di economia presso l’Università di Nottingham. A dare forza ai suoi dubbi, l’incontestabile evidenza che la Cina, pur avendo sottratto al Giappone il primato di seconda economia mondiale, tuttavia non è ancora riuscita ad eguagliare i “cugini asiatici” nella produzione di marchi di fama internazionale quali la Toyota o la Samsung; una situazione che riflette la debolezza di base insita nel metodo di “fare business” adottato nel Regno di Mezzo. Ed è proprio dal business che, secondo Shujie, dipende la crescita economica del Paese: “se le compagnie nazionali non riusciranno a rendersi competitive sul mercato occidentale, difficilmente la Cina sarà in grado di mantenere costante l’attuale ritmo di crescita per altri 20 o 30 anni”, scrive il professore in un articolo pubblicato sul Financial Times lo scorso giugno. Una riflessione, o forse più una critica, quella del’accademico dell’Università di Nottigham che va a colpire la startegia economica assunta dal Partito Comunista nel 1999, anno in cui la leadership di Pechino diede ufficialmente il via alla “go-out policy”, una politica volta a incoraggiare le imprese nazionali ad investire oltremare, affidando, nel contempo, alle società governative (SOEs) il monopolio del mercato nazionale attraverso sussidi e crediti bancari, così da dar loro un netto vantaggio economico sui rivali stranieri.


Ma sullo scenario controverso del mercato internazionale, le riserve monetarie da sole non bastano a garantire alle compagnie cinesi uno sviluppo sul lungo periodo, mettendo il Dragone davanti al rischio di dover cedere il suo posto sul podio delle grandi potenze economiche mondiali. Cosa non funziona nella strategia di Pechino? Sicuramente una vita troppo facile sul mercato nazionale ha infiacchito le SOEs, privandole di qualsiasi spirito competitivo: lo scorso anno, la somma dei profitti ricavati da due società governative è stata pari a quella delle 500 compagnie private più importanti del Paese. A differenza di altri Stati asiatici come Giappone e Corea, i facili guadagni ottenuti in patria distolgono le compagnie cinesi dalla ricerca di uno sviluppo tecnologico che possa renderle in grado di rivaleggiare con i colossi occidentali. 


Alti rischi, una tecnologia povera e la scarsa qualità dei prodotti (spesso non a norma secondo gli standard occidentali) sono i principali impedimenti che trattengono molti imprenditori privati dal varcare i confini nazionali. Ma non solo. Le società private oltre a non beneficiare del supporto statale, di fatto vedono loro negato anche l’accesso ai crediti bancari, ben due terzi dei quali è destinato proprio alle SOEs, mentre la maggior parte dei neolaureati, abbagliati dai cospiqui guadagni e dal prestigio assicurato dalle compagnie governative, relegano il settore privato ad ultima spiaggia.


Dal canto suo, Pechino sembra aver incentrato la sua politica espansionistica sulla “strategia degli accordi energetici”, ancorando il suo successo mondiale alla fusione e all’acquisizione di società straniere, nonché ad una serie di accordi internazionali (primi tra tutti quelli stipulati con Sud America e Africa) volti a saziare la sua incontenibile fame di risorse naturali. Il risultato? Secondo Shujie, oltre ai costi eccessivi, una mancata attenzione per la creazione di importanti marchi indigeni in grado di ridare credibilità al made in China, riscattando la fama del Regno di Mezzo ormai infangata da numerosi scandali: “ La rapida crescita economica della Cina è stata resa possibile da una parte, grazie alla politica di esportazione e alla produzione di beni di consumo di bassa manifattura, dall’altra, grazie alla manodopera a basso costo e all’imitazione o all’importazione di tecnologie occidentali. Attualmente il governo cinese sta tentando di cambiare questa situazione canalizzando ingenti investimenti nell’innovazione del settore scientifico-tecnologico; il “progetto 985” che stabilisce l’impiego di fondi per la ricerca universitaria ne è un segnale. Benchè nell’ultimo decennio gli investimenti statali nella ricerca abbiano visto un aumento annuale del 20%, fintanto che le università continueranno ad essere trattate alla stregua di organizzazioni governative, è assai difficile che si possa avere qualche giovamento.”


Insomma, la strada verso l’innovazione tecnologica è ancora lunga e il Dragone sembra arrancare nella sua scalata: a dimostrarlo, le ampie riserve di lavoro a basso costo che al momento continuano ad essere impiegate massicciamente nel processo produttivo. Ma una soluzione ai mali del mercato cinese Shujie sembra averla trovata: più “creatività” e meno “contraffazioni”. La chiave di volta di questo processo risiede nella capacità dell’ex-Impero Celeste di dar vita a marchi nazionali di alta qualità. “Il suo successo è direttamente proporzionale alla fioritura oltremare delle sue multinazionali. Incentivando la sfida interna, eliminando il monopolio statale e permettendo una sana competitività tra le società private e le SOEs, soltanto così la Cina potrà diventare una nazione realmente ricca e potente.”


di Alessandra Colarizi 

2 commenti:

  1. Concordo molto con quello che dice questo professor Shujie in particolare su due punti: 1) scarsa qualità' dei prodotti cinesi; 2) la mancanza di marchi famosi.

    Si potrebbe secondo me aggiungere alcuni elementi quali la scarsa gestione manageriale (almeno per quanto riguarda i clienti esteri) e la propensione a non instaurare rapporti consolidati e di lunga durata bensì a preferire rapporti "occasionali" cioè i cosiddetti 一锤子买卖


    Complimenti per l'articolo

    RispondiElimina
  2. Sicuramente gli elementi di debolezza del sistema cinese sono molti, alcuni dei quali ritengo derivino anche da concezioni culturali e comportamentali molto differenti dalle nostre. Però non dimentichiamo che la Cina è riuscita a diventare la Seconda economia al mondo in brevissimo tempo ed è solo all'inizio!
    Fa piacere vedere che ci sono persone che condividono i tuoi interessi, grazie mille per il commento!

    RispondiElimina

Hukou e controllo sociale

Quando nel 2012 mi trasferii a Pechino per lavoro, il più apprezzabile tra i tanti privilegi di expat non era quello di avere l’ufficio ad...