mercoledì 30 gennaio 2013
In lotta da secoli
Sembra che per troppo tempo l'attenzione internazionale sia stata polarizzata sulla condizione femminile nel Medio Oriente, perdendo di vista cosa da secoli avviene nella "più grande democrazia del mondo": l'India. Forse se non fosse stato per lo stupro di gruppo che lo scorso 16 dicembre è costato la vita ad una ragazza di 23 anni, le proteste di New Delhi non avrebbero raggiunto con tanta "violenza" la stampa occidentale. Nell'ultimo mese e mezzo casi di soprusi ai danni di donne indiane si sono susseguiti senza interruzione; almeno quattro i più eclatanti avvenuti tra il 4 e il 28 dicembre. Secondo un sondaggio condotto da Thomson Reuters, l'India "è il quarto Paese più pericoloso" al mondo per le donne e il peggiore in cui vivere tra gli Stati membri del G20.
Ma è stato sempre così?
Pare che all'inizio dell'Era Vedica (1500-500 a.C.) fosse riconosciuta una certa parità dei sessi, quando -come riportano gli antichi grammatici Patanjali e Katayana- alle donne veniva concessa la possibilità di scegliersi un marito e di accedere agli studi.
Ma è già intorno al 500 a.C., con l'inizio del periodo medievale, che pratiche quali la sati, il matrimonio in tenera età e il divieto di risposarsi per le vedove divenne parte integrante della vita quotidiani di molte comunità. Nel V sec. a.C. l'inferiorità femminile venne codificata nella raccolta di leggi nota come "Il codice di Manu", che legava la donna dal momento della nascita a quello della morte prima al padre, poi al marito o ai figli maschi.
La conquista musulmana del subcontinente (durata dal XIII sec. al XVI sec.) portò nuovi valori di matrice islamica, creò sistemi giuridici e amministrativi differenti, andando a sostituire i codici comportamentali e culturali indigeni. La purdah -pratica che vieta agli uomini di vedere le donne attraverso la segregazione fisica di queste ultime o con l'obbligo di coprire i propri corpi al punto da nascondere la loro pelle e le loro forme- è un retaggio dell'età di mezzo, mentre la poligamia e l'usanza delle Devadasi (le "spose" delle divinità di un tempio, spesso sfruttate sessualmente) erano già piuttosto diffuse in diverse aree del Paese. Ma nonostante il regno della dinastia islamica Moghul (1526-1857) venga considerato tra i periodi più bui per le donne indiane, alcuni nomi femminili sono riusciti ad emergere nel panorama letterario, politico e religioso del tempo. Come nel caso delle principesse Jahanara e Zebunnissa, poetesse e consigliere sotto la regina e reggente Jijabai, madre del maharaja Shivaji (1627-1680).
Una prima rivalutazione della figura femminile è riscontrabile nel movimento Bhakti (traducibile come "devozione verso la divinità") che, pur rimanendo nel solco della tradizione induista, promosse in maniera aperta la giustizia sociale e la parità dei sessi, grazie al sostegno di alcune figure di spicco, tra le quali Mirabai, letterata e devota dell'epoca. Un impegno in tal senso fu assunto anche da alcuni guru nell'ambito del sikhismo, religione nata in India nel XV sec. Ma è soltanto con la colonizzazione inglese, nel XIX sec., che si ebbero i primi cambiamenti formali, con l'abolizione dell'infanticidio femminile e della sati, pratica che prevedeva l'immolazione delle vedove sulla pira del marito defunto. Contemporaneamente il riconoscimento legale dei diritti di successione e delle secondo nozze diede il via a quello che viene comunemente considerata la prima fase del femminismo indiano.
Durante l'Impero Anglo-Indiano, alcuni riformisti si batterono per migliorare le condizioni delle donne. Nel 1847 a Barasat, sobborgo di Calcutta, fu istituita la prima scuola femminile, conosciuta più tardi con il nome di Kalikrishna Girls' School. L'istruzione e la formazione delle ragazze nel sud dell'India fu migliorata grazie all'intervento delle mogli dei missionari; Marta Mault néè Mead e sua figlia Eliza Caldwell née Mault vengono ricordate per essere state tra le prime ad aver sfidato le resistenze locale al fine di diffondere la scolarizzazione tra le donne. Ben presto però questi istituti, che pur garantendo una buona formazione di base finivano per inculcare precetti cristiani, si rivelarono una minaccia per l'integrità culturale della popolazione indiana. Inoltre la visione vittoriana della pubblica morale non fece altro che esacerbare il sistema delle caste, colpevolizzando alcune categorie della popolazione. Ragione per la quale proprio in questi anni nacquero movimenti di riforma sociale, in risposta all'esigenza di ostacolare la penetrazione devastante dell'imperialismo britannico nella spiritualità e nelle tradizioni locali.
Lo scopo di tali movimenti era principalmente quello di provare la compatibilità tra l'idea di progresso e la cultura indiana, non necessariamente sinonimo di arretratezza come volevano far credere i missionari europei. In questo fermento generale si inserisce il movimento per il diritto all'istruzione femminile che rese possibile una sempre più massiccia partecipazione delle donne alle questioni nazionali. Il ruolo della donna divenne luogo di negoziazione politica all'interno del dibattito tra autorità coloniali e intellettuali indiani. E se per alcuni riformisti l'avanzata del modello imperialista andava combattuta attraverso il ritorno alla tradizione -che implicava la riconsiderazione del ruolo della donna rimanendo, tuttavia, all'interno di una struttura rigidamente patriarcale- per altri era necessario un cambiamento più radicale, affinché la figura femminile venisse proiettata anche in ambito pubblico e istituzionale.
Una sensibilità tutta locale finì per caratterizzare il femminismo indiano, influenzato eppur ben distinto dal suo equivalente occidentale. Una prima differenza da sottolineare è come in India siano stati inizialmente gli uomini a portare alla luce le problematiche di genere. Soltanto all'inizio del XX secolo le donne indiane della classe media cominciarono a riunirsi in associazioni femminili lottando per il diritto di voto, ottenuto nel 1931, ancora in assenza di una costituzione laica, entrata in vigore poi nel 1949. All Indian Women's Conference e National Federation of Indian Women sono due tra le più note organizzazioni che hanno preso forma da questo nascente attivismo. La prima, strettamente collegata al Congresso Nazionale Indiano, continua ad operare tutt'oggi e conta oltre 100mila membri.
Nella resistenza al dominio britannico la donna fu investita di un nuovo ruolo politico, legittimato con la partecipazione nel movimenti gandhiano di disobbedienza civile. Tuttavia occorre ricordare come, nel pensiero di Gandhi, l'uguaglianza delle donne venisse inquadrata ancora in una visione sostanzialmente conservatrice. Per il Mahatma, la figura femminile doveva contribuire alla contestazione del colonialismo britannico attraverso il suo esempio di vita, facendo delle proprie virtù di "sofferenza" e "sacrificio" un modello di comportamento per tutti i nazionalisti. Ragione per la quale si è arrivati a parlare di "uguaglianza-nella-differenza", in quanto finalizzata piuttosto a rimarcare i ruoli specifici di ambo i sessi all'interno della società patriarcale e tradizionale locale. Tutt'altro che una riconfigurazione delle strutture sociali, insomma. Diverse le posizioni di Nehru (Primo Ministro dal 1947 al 1964) più sensibile al dibattito femminile europeo. Dopo un suo viaggio nel Vecchio Continente, durante il quale entrò in contatto con le suffragette inglesi, egli pose l'accento sulla necessità di riconoscere il diritto delle donne a godere di una certa indipendenza economica, mettendo in discussione il concetto di matrimonio come "professione".
Nonostante nel 1954 anche il Partito Comunista dell'India fondò una propria ala rosa, conosciuta come National Federation of Indian Women, dall'indipendenza dell'India (1947) in poi l'agenda femminista sembrò divenire sempre meno intensa. Nel 1955 fu proibita la poligamia e alcuni anni dopo toccò alla pratica della dote richiesta alla famiglia della sposa, sottoposta a maltrattamenti qualora inadempiente. Tuttavia, nel 1975 un rapporto commissionato dal governo indiano evidenziò come la condizione delle donne non fosse affatto migliorata dall'anno della liberazione dal dominio britannico. Tutt'oggi Amnesty International denuncia il persistere di discriminazione all'interno della mura di casa: concepire una figlia femmina spesso è ancora vista come una disgrazia da evitare ad ogni costo. Per questo motivo, nonostante la legge vieti di rivelare il sesso del nascituro durante le ecografie, il 99% degli aborti continua ad essere di feti femmina. Secondo la cultura del sud, dove una popolazione prevalentemente rurale necessita di braccia forti per il lavoro, tradizionalmente era la nonna paterna a prendersi l'incarico di avvelenare la neonata. Così che oggi in molti stati del subcontinente indiano vi è una netta sproporzione tra le nascite di maschi e femmine, a discapito delle ultime.
Come in Occidente, anche in India il femminismo non fu immune alle critiche. Nella sua forma per così dire più "mainstream", il movimento andava infatti a supportare le donne di religione induista e già privilegiate per nascita, mentre i ceti sociali inferiori rimanevano fondamentalmente esclusi dal dibattito dell'epoca. Ciò portò alla formazione di organizzazioni femministe per caste specifiche, come All India Dalit Women's Forum, l'associazione delle intoccabili, e per credo differenti come Awaaz-e-Niswaan (The Voice of Women), fondata nell'area a maggioranza musulmana di Mombai nel 1987.
La differente regolamentazione della comunità islamica e di quella induista per mezzo di codici civili indipendenti -al fine di non intralciarne le rispettive norme religiose- ha dato origine nel corso della storia a proteste e incomprensioni. Mentre l'induismo, che vanta un ricco pantheon di dei e dee, riconosce alla figura femminile un ruolo complementare a quella maschile, l'Islam è notoriamente meno permissivo nei confronti delle donne. Il polverone sollevato nel 1985 dal controverso caso di divorzio di Shah Bano, conclusosi con l'annullamento -per volere di Rajiv Gandhi (ex primo ministro ucciso nel '91)- della sentenza in suo favore emessa dalla Corte Suprema, portò alla luce del sole l'insofferenza della popolazione indù nei confronti della minoranza musulmana. La decisione di Rajiv, motivata da ragioni esclusivamente politiche, andava ad avvallare quanto stabilito dalla Sharia, il codice di prescrizioni etico-religiose e giuridiche dell'Islam: alla donna non fu concesso il mantenimento mensile da parte dell'ex marito, mentre la levata di scudi degli indù riaccese il dibattito sulla necessità di un "codice civile unificato".
Spesso le leggi delle specifiche religioni entrano in conflitto con quanto scritto nella Costituzione indiana, che in teoria considera la donna "la parte debole" della società, bisognosa di assistenza e protezione. Dal 1999 una commissione parlamentare si incarica di investigare e imporre alla magistratura maggior rigore, soprattutto a fronte del frequente coinvolgimento delle stesse forze dell'ordine in casi di stupri, estorsioni coniugali e uxoricidi. Ma nonostante tutto, come dimostra la cronaca recente, l'India continua a non essere un Paese per donne.
(Scritto per Uno sguardo al femminile)
venerdì 25 gennaio 2013
Querelle mediatica tra Pechino e Pyongyang
Alle provocazioni si aggiungono nuove provocazioni. "Se la Corea del Nord si impegnerà a portare avanti ulteriori test nucleari, la Cina non esiterà a ridurre la propria assistenza" ha tuonato così il Global Times, spin-off del Quotidiano del Popolo, in risposta alle rinnovate minacce di Pyongyang. Il governo nordcoreano, furioso per la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu - che nei giorni scorsi aveva condannato il lancio del razzo a lunga gittata del 12 dicembre estendendo le sanzioni nei confronti dello stato eremita- giovedì ha promesso di rafforzare il suo arsenale nucleare, di effettuare un terzo test e di procedere con altri esperimenti balistici, in un'azione a tutto campo mirata a colpire il suo "nemico giurato: gli Stati Uniti".
Pechino è il principale partner commerciale nonché indispensabile fornitore di energia di Pyongyang. Da sempre il suo ascendente sulla Nord Corea viene tenuto in gran conto dalla comunità internazionale, essendo la Cina una delle poche nazioni (se non l'unica) in grado di influenzare il comportamento del riottoso alleato. Tuttavia, il beneplacito di Pechino alla risoluzione approvata dal Palazzo di Vetro deve essere apparso alla Corea del Nord come un alto tradimento. E non importa che Pechino abbia cercato di proteggere Pyongyang da sanzioni più pesanti, fortemente volute da Washington e Seul. "Dopo essersi adoperata tanto per l'emendamento della risoluzione, la Cina l'ha anche votato. Ma sembra che la Corea del Nord non abbia apprezzato il nostro impegno" si legge nell'editoriale del Global Times, la cui versione in cinese coincide con quella in lingua inglese.
"La Cina si trova davanti ad un dilemma: non c'è possibilità per noi di trovare un equilibrio diplomatico tra Corea del Nord, Corea del Sud, Giappone e Usa," continua il quotidiano cinese noto per le sue posizioni fortemente nazionaliste, "dovremmo cercare di mantenere un atteggiamento pragmatico per affrontare i problemi, portando avanti un rapporto ottimale tra investimento di risorse e guadagni strategici". E ancora: "La Cina spera nella stabilità della penisola, ma non è la fine del mondo se lì ci sono dei problemi".
Il Dragone si è espresso più volte in favore di una ripresa dei "colloqui a sei", che coinvolgono Cina, le due Coree, Giappone, Stati Uniti e Russia con lo scopo di fermare la corsa all'atomica dello stato eremita, in cambio aiuti e garanzie di sicurezza. La situazione verte in uno stato di stallo da quando nel 2009 Pyongyang ha abbandonato il tavolo delle trattative, dichiarando "la fine permanete" dei colloqui.
Dopo le affermazioni incendiarie del tabloid costola del People's Daily, megafono del Pcc, il ministero degli Esteri cinese ha cercato di minimizzare: trattasi "solo dell'opinione dei media", ha puntualizzato Hong Lei, portavoce del dicastero, "speriamo che le parti interessate possano agire con calma, migliorando il dialogo e astenendosi da azioni che potrebbero portare ad un'escalation della tensione.
A vanificare gli sforzi della diplomazia ufficiale, le schermaglie dei rispettivi organi d'informazione, impegnati in una querelle al limite del grottesco. Il 23 gennaio l'agenzia di stampa statale nordcoreana KCNA ha pubblicato una lunga invettiva in risposta ad un servizio trasmesso dalla televisione di Shenzhen, colpevole di aver diffuso pettegolezzi diffamanti su Kim Jong-un, l'erede del "caro leader" defunto nel gennaio 2011. Secondo il report dell'emittente, basato sulla testimonianza di un anonimo funzionario nordcoreano, il giovane Kim avrebbe fatto ricorso a sei interventi di chirurgia plastica per poter assomigliare il più possibile al nonno defunto, "il Presidente eterno" Kim Il-sung. Il che gli avrebbe permesso di diventare così "terribilmente attraente", scherza Shanghaiist riferendosi alla notizia/sfottò -ma incredibilmente presa per buona dal Quotidiano del Popolo- di The Onion, che a novembre nominò ironicamente Kim Jong-Un l'uomo più sexy del mondo.
A stretto giro la risposta dell'agenzia statale: "KCNA Commentary Refutes Paid Media's False Story", un editoriale puntuto che critica senza mezzi termini la stampa di Cina e Sud Corea. "Il vituperio delle forze ostili riflette soltanto la paura e il disagio di coloro che sono rimasti molto turbati dalla dignità internazionale del supremo quartier generale della DPRK (Repubblica democratica popolare di Corea) e la sua risoluta unità" si legge nell'articolo. Oltre la Muraglia sono subito corsi ai ripari e il 24 gennaio il "Ministero della Verità" ha diramato l'ordine categorico di "attenersi alle norme della propaganda e della comunicazione in materia di affari esteri. Non riportare, non commentare e non diffondere storie sulla vita privata dei leader nordcoreani (come lifting)".
La sparata del Global Times sulle nuove minacce di Pyongyang evidenzia, d'altra parte, una certa insofferenza e costernazione verso le recenti provocazioni del vicino asiatico: "Che la Corea del Nord si arrabbi pure. Non possiamo più sedere uno affianco all'altro senza fare niente solo perché temiamo che agire potrebbe mettere a repentaglio i rapporti sino-coreani. Che brontolino pure Corea del Sud, Giappone e Usa. Noi non siamo obbligati a reprimere i nostri sentimenti".
Nonostante per Pechino la stabilità del regime a nord del 38° parallelo sia necessaria a scongiurare l'esodo dei rifugiati oltre il confine sino-coreano, nonché a evitare la riunificazione delle due Coree (leggi: Stati Uniti fino alla porta di casa), l'idillio tra i due alleati sembra ormai volgere al termine. E forse per i media nazionali è già finito.
Bremmer sulla crisi sino-giapponese
Ian Bremmer, presidente di Eurasia Group, una delle maggiori agenzie di consulenza sul rischio politico al mondo, parla dell'escalation Cina-Giappone sulle isole Diaoyu e delle sue implicazioni sullo scacchiere internazionale.
(Dal Business Insider. Video dell'intervista disponibile sulla CNN)
Blodget: What’s going to happen with China and Japan?
Bremmer: The big problem is that the relationship, the balance of power between these two countries, has changed and is changing dramatically—and really, very strongly not in Japan’s favor.
From a security perspective, a political perspective, an economic perspective, this is just creating big, big problems for the Japanese. And now they finally have a leader that has a good shot at staying around for a while. He has a more—not just nationalist inclination—but a more pro-democracy inclination. He was prime minister last time and people said he was more pragmatic, but if you met with him, he talked about wanting to create a league of democracies in Asia [and] orienting much more towards India and Australia and New Zealand. He was Mr. Pivot before pivoting was fashionable, right?
Now he comes into a context where the U.S. is already acting in a way that’s concerned about a Chinese challenge in the region. It’s the single biggest strategic effort that the Obama administration has engaged in, from a foreign policy perspective.
And you have to think that the Chinese are going to see all this as provocative. The real question is, to what extent is the Chinese government prepared to respond in an escalatory fashion? Is this Russia vs. Georgia? A little bit, right. Are you poking the bear?
And I don’t know the answer to that, but I suspect it’s not good.
A couple of quick points on that:
First of all, unlike Hu Jintao who really didn’t have control over the military, Xi Jinping does. He has much more direct consolidation of these, sort-of standing committees around him. He’s a much stronger figure, much stronger personality, has much more loyalty from the military. So, if he wants to escalate, he can feel much more comfortable and confident that he can ratchet up and ratchet back without it getting out of control.
That’s dangerous for Japan.
Also if you look at the way the Chinese have engaged before on this issue: buzzing the territories with planes right before the elections, almost as if they didn’t want [Shinzo] Abe in, [but] they certainly didn’t mind Abe in. Anti-Japanese nationalism is a fairly easy play for the Chinese to engage in that allows them to defuse some of what would otherwise be discontent with things that would be more problematic for the Chinese government.
One final point on this: when you look at China vs. Japan, compared to all of the other territories in the region — you talk about East China Sea, South China Sea — with all those countries in the South China Sea, the Chinese themselves are a much larger economy than any of those countries, but also the Chinese have very large diaspora communities that dominate the economies of those countries. They are the key business people, and over time, that makes the Chinese much more comfortable. They know what’s going on inside the country, it creates more transparency. But also it means that over time the Chinese really feel like if they just build the economic relationship, the security will come.
They are going to get the political influence, they’re going to get the security influence, bilaterally. All they can do is make sure the U.S. isn’t able to create strong multilateral ties in the region.
With Japan that’s not true.
There are no Chinese in Japan that have significant business influence. It’s very opaque to them the way the system actually works. Japan’s much bigger, so if you’re China, [you are] thinking about how you’re going to tip the balance over time in your direction. When you become the world’s largest economy, as you’re building out your military, your problem is Japan.
The country that you’re prepared to be more aggressive towards — call it assertive now — but over time perhaps aggressive is Japan. And all of these things, all of these structural factors, really worry me. There’s no question that the economic ties are still important between these two countries. There’s no question that the United States certainly does not want to see conflict between their allies Japan, and the Chinese. But how much effort the U.S. will be able to put into stopping it and given how tied the Americans are to the Japanese; it's not clear to me this isn’t going to get worse. If I had to bet right now, I think there is [going to be] a significant run of escalation in 2013.
And I think by far, China-Japan is the most significant geopolitical tension on the map, in terms of direct bilateral conflict in the coming years.
Blodget: Do you think they’ll go to war?
Bremmer: I think they are at war. I think that cyberwarfare against Japanese banks has gone up greatly. I think you look at the anti-Japanese demonstrations that were clearly stimulated by the Chinese government, and the impact that’s had directly on Japan investment in China. Warfare is conducted by other means today. And we can certainly not say that these guys are friends. The question is are they frenemies or are they enemies?
I would tell you that looking at the entire G20, the single worst bilateral relationship among any two countries in the G20 is China-Japan, right now. I think that’s clear. By the way, 10 years ago, it was Russia-Japan. Now, at that point it was also over contested territories. The Japanese actually worked really hard to try to improve that relationship.
It was a lot easier for many, many reasons. You didn’t have the cultural issues. The Russians saw Japanese as being able to write checks, and all this sort of thing. In China-Japan, it’s radically harder.
Do I think that they will come to direct [confrontation]? This isn't Russia invading Georgia with tanks, but we could absolutely see direct military skirmishes over the contested territory, sure. And that potentially could involve escalation of American presence in the region. The danger here is that it has the knock-on impact of deteriorating U.S.-China relations as well.
Blodget: So what happens if we get exactly that. A Japanese plane shoots tracers at a Chinese plane. The Chinese plane responds and shoots down the Japanese plane. What happens?
Bremmer: Well, first of all, you’re gonna see a cut-off of diplomatic ties between the two countries. The ambassadors of course, will immediately be withdrawn. Not complete secession, but that’s the first thing that happens. You’ll see anti-Chinese and anti-Japanese across the board. You’ll see some violence.
There will probably be Japanese ex-pats living in China that will be roughed up and killed. Japanese exposure in China which has already taken a beating would be considered unsustainable. Japanese companies would be leaving China in droves.
That’s bad enough. Those are things that are virtually certain to happen if you had that type of a confrontation. The question would then be, can both sides dial it back?
I suspect from a military perspective they would. The Americans [would] immediately have a show of force. There obviously would be highest alert for both sides, but there would also be a lot of confidence-building measures between the U.S. and China to try to assure the Japanese-China military conflict would not spill out of control.
Now keep in mind, Japan spends something like 1% of its GDP on the military. The Japanese aren’t defending themselves on this stuff, we are. That makes life easier in terms of thinking about how bad it can get, but because there’s no danger of going to war, right — direct military conflict — that allows both sides to believe that escalation is more feasible.
The Cold War, if there had been conflict — East and West Germany — people were talking World War III. No one’s talking about that here.
Blodget: Because Japan’s so weak.
Bremmer: In part because Japan’s so weak. In part because Japan, China, and the United States have so many interlocking interests with the Chinese.
Blodget: But if the U.S. has a show of force, it is to protect the Japanese?
Bremmer: Has to be. Japan’s our ally.
Blodget: We have huge interests in China as well.
Bremmer: Yes, we do.
Blodget: We’re going to take a side immediately?
Bremmer: We have taken a side. If you look at Hillary Clinton on this point, it is very much, “We don’t want to get involved in this conflict, but let’s be very clear: we support Japanese territorial integrity.” And look, we gave the Japanese administration over these islands. They are our strategic ally. We are committed to that.
We have huge interests in the Middle East in energy that are going down over time. Israel is our ally. That gets us into trouble. This is clearly an analogous-type situation, but China is much more important to us economically than all these folks in the Middle East.
BIodget: So if China decides to take these islands, we defend Japan? Do we go to war with China?
Bremmer: I think the likelihood of that scenario is very low indeed, precisely because the United States is involved. And so, while the Chinese have prepared to play hardball with Japan, I don’t believe the Chinese are prepared to play hardball with the United States.
And that’s going to have a knock-on economic effects. It’ll impact U.S.-China trade relations, and it’ll certainly make it much colder between the two countries. It makes the potential for a nascent cooperation on things like Syria over time very de minimis. North Korea and plenty of places where we need to cooperate are much, much harder.
These are the world’s two most important powers right now.
But, I think the likelihood of the Chinese [engaging militarily] with the Americans in the region defending the Japanese is very low indeed. That to me, is fear mongering.
Where I think the potential is — for actual serious economic conflict between Japan and China, over a military skirmish. That’s actually real, that’s on the table right now, that could happen tomorrow.
That’s a real thing.
Blodget: Thanks, Ian.
giovedì 24 gennaio 2013
Le riforme richiedono coraggio
In Cina si parla tanto di riforme , ma quali sono gli ostacoli a queste riforme e cosa la Cina ha fatto fino ad oggi? Vediamo cosa scrive su questo argomento il Nanfang Zhoumo (Southern Weekly) a firma di Chen Bin 陈斌 (Testo originale)
'Riforma' è una parola che suscita ancora palpitazioni tra la gente. Di recente il vice premier Li Keqiang ha chiamato a gran voce le riforme durante un forum che ha riunito i responsabili delle undici province e municipalità dove queste dovranno essere sperimentate. "Le riforme sono il più grande bonus per lo sviluppo della Cina - ha dichiarato Li - lo spazio e il potenziale delle riforme è ancora grande" e pertanto “devono avere un certo grado di flessibilità, debbono incitare a procedere per gradi, a promuovere una spinta audace all'interno del quadro giuridico. Occorre che il governo centrale e i dipartimenti competenti concedano maggior potere alle zone sperimentali".
Queste parole vanno interpretate come un segnale che ai piani alti si sta spingendo per un'apertura verso l'esterno. Non è esagerato affermare che le riforme e la politica di apertura avviate nel 1978, con l'inserimento di oltre un milione di persone nella competizione globale, possano essere considerate l'evento più rilevante di tutta la storia del XX secolo. Nel 2010 il Pil nazionale ha superato quello del Giappone, facendo balzare il Dragone al secondo posto tra le economia mondiali. Questo indurrebbe a pensare che la Cina alcune cose le ha fatte bene, anzi molto bene.
C'è chi dice che sia un paese arretrato, ma con i "vantaggi dell'ultimo arrivato" e che pertanto non dovrebbe stupire la sua rapida crescita economica. Eppure, molti paesi africani sono decisamente più arretrati rispetto alla Cina. Allora perché tutti gli altri “ultimi arrivati” non sono ancora riusciti a esprimere le loro potenzialità? Questo è sufficiente a mostrare che la Cina alcune cose le ha fatte bene, anzi molto bene.
La Cina ha agito correttamente, sopratutto ha fatto molto bene a portare avanti con fermezza una riforma orientata al mercato. Da quando i diritti d'uso del suolo e di usufrutto sono tornati di nuovo nelle mani dei contadini - così che non saranno più le autorità ad ordinare loro quando coltivare - il miracolo finalmente si è verificato: non soltanto ora i contadini hanno di che riempirsi la pancia, ma anche gli abitanti delle città hanno risolto una volta per tutte il problema della sicurezza alimentare. Quando le finanze pubbliche hanno cominciato a non poter più sopportare le perdite comuni delle imprese di Stato in settori competitivi, il governo ha spostato il peso sui privati, ed è avvenuto un altro miracolo: non solo le società private hanno sviluppato, rispetto ai conglomerati statali, un Pil, entrate fiscali e opportunità di business maggiori, ma hanno anche permesso l'inserimento del 'made in China' nel mercato globale, innescando cambiamenti a livello mondiale.
Ciò che non è stato raggiunto con grandi sforzi attraverso una politica di pianificazione è stato, invece, ottenuto facilmente grazie a meccanismi di mercato. Nelle aree nelle quali le autorità hanno dovuto fare marcia indietro, ora risplendono libertà e prosperità. Occorre sottolineare che tutto questo non è stato portato dall'Occidente, ma bensì è il prodotto dell'antica saggezza cinese. Più di duemila anni fa Laozi ha affermato: "Io non agisco e il popolo viene modificato. Io godo della pace ed il popolo diviene onesto. Io non uso la forza e il popolo diviene ricco. Io non ho ambizioni ed il popolo ritorna al bene ed alla vita semplice." Zhuangzi invece ha detto: "E' giusto lasciare che la società si governi in pace e prosperità, senza interferire nel suo sviluppo".
Ma le riforme, oltre ad essere un bonus, comportano anche dei costi e non arrivano casualmente. In primo luogo ci sono le spese d'informazione: occorre stabilire e studiare il nuovo sistema. Per prima cosa bisogna conoscere bene tutti i dettagli tecnici necessari all'esecuzione del sistema, apprestare le misure di supporto, e bisogna che ci sia un processo che permetta di analizzare e risolvere gli errori. Il secondo ostacolo è rappresentato dagli interessi personali creatisi sotto il precedente modello. Trasformare il sistema vuol dire creare un equilibrio tra diritti e poteri, un fattore che certamente cambierà la distribuzione dei profitti. Durante il processo di riforma si deve avere una lucida consapevolezza di tutto questo. Una volta che le riforme avranno penetrato le 'zone fortificate' e solcato le 'acque profonde', il 'laboratorio delle riforme' [ovvero, quanto già sperimentato, ndr] verrà sfruttato dal Partito per tastare i cachi dalla polpa soda e provare quanto è profonda l'acqua [metafore che stanno a indicare i problemi più spinosi ancora da risolvere, ndr].
Al momento il contenuto sperimentale di questo 'laboratorio' ha una tendenza evolutiva: ci troviamo esattamente nello stadio di passaggio da una riforma strettamente economica verso una riforma a tutto campo, il cui punto focale consiste nella ristrutturazione dell'amministrazione pubblica. Per esempio, le sei Zone economiche speciali (Zes) tutte, una dopo l'altra, hanno ottenuto il potere legislativo dall'Assemblea Nazionale del Popolo. E la particolarità delle Zes non sta soltanto nell'aspetto economico. Le undici regioni sperimentali stanno dando maggior importanza alla ristrutturazione delle aziende di Stato, ad un bilanciamento tra città e campagne, ad una riforma del sistema finanziario e fiscale, compresa una profonda riforma economica ai vari livelli amministrativi e della governance pubblica, quando direttamente collegata alla riforma economica. Inoltre vi sono in agenda molti altri progetti pilota come la trasformazione del sistema dei laogai a Nanchino, un organismo anticorruzione indipendente a Hengqin (nella prefettura di Zhuhai), e l'eliminazione di parte delle concessioni amministrative e del sistema di esame e approvazione amministrativa a Canton. Alcuni di questi cambiamenti tendono gradualmente verso un'autorivoluzione del potere stesso.
Le regioni sperimentali dell'amministrazione pubblica sono spuntate come funghi, generate dal ventre della nazione. Un fattore, questo, che conferma una questione di fondo: l'approfondimento della riforma ha bisogno di un passo in avanti in ambito economico, ma implica anche una ristrutturazione mirata dell'intero modello. Con particolare urgenza si affaccia il bisogno di una revisione del sistema di distribuzione dei redditi.
La metodologia necessaria per la riforma dell'amministrazione pubblica è compatibile con i principi di quella economica: il potere, in sostanza, deve fermamente fare ritorno nel dominio di un'economia competitiva, deve tornare nella sfera dell'amministrazione statale. Proprio come ha dichiarato Li Keqiang nel suo discorso: “occorre cambiare la funzione dell'apparato governativo, disporre buone relazioni tra stato, mercato e società. Nel settore economico bisogna sviluppare a pieno la funzione dei meccanismi di mercato, nel campo sociale è necessario, invece, riuscire a sfruttare meglio il potenziale della società, compreso il potere organizzativo che la caratterizza. Spetta al governo restituire a mercato e società la loro legittima funzione."
Non c'è bisogno di negare che in passato tutte le riforme sono state realizzate in maniera forzata; anche questa volta la riforma dell'amministrazione pubblica non farà eccezione. La Cina dovrà ottenere entro il 2020 una 'società moderatamente prospera', con un raddoppio del reddito pro-capite rispetto al 2010. Oggi il rallentamento dell'economia mondiale, che ha messo in ginocchio molti paesi, e la politica di stimoli keynesiana adottata in patria sono diventati insostenibili. Pertanto è necessario fare affidamento su una riforma in grado di sviluppare l'economia e stimolare la domanda interna. In questo modo, i governi locali non dovrebbero più mettere in primo piano la competizione tra i loro sistemi, quanto piuttosto la riduzione dei costi.
Poiché le riforme sono un perfezionamento del principio di Pareto, quando i profitti riducono i costi si ottiene un reddito netto. Guardando ai risultati soddisfacenti ottenuti nelle regioni test sottoposte ad una riforma amministrativa - proprio come in passato è avvenuto per le riforme economiche nelle Zes - è possibile immaginare un futuro di successi, con un'estensione di tali riforme in tutto il territorio nazionale. Allora la Cina diventerà un paese più libero e prospero. Per dirla in altre parole: se un tempo le riforme prevedevano inizialmente la scelta dei cambiamenti più facile da attuare, un po' come prendere con le dita un caco maturo, ormai ciò che c'era di facile è già stato realizzato: adesso è giunto il momento di afferrare un caco dalla polpa soda!
(Pubblicato su Caratteri Cinesi)
martedì 22 gennaio 2013
La rivolta Kachin e gli interessi di Pechino
Sembrava che la tirata d'orecchie di Pechino avesse sortito qualche effetto. Venerdì scorso, dopo l'approvazione del Parlamento birmano di una mozione per chiedere la fine dei combattimenti nello stato settentrionale di Kachin, il governo ha annunciato l'interruzione dell'offensiva contro le truppe separatiste. Il presidente Thein Sein ha emesso l'ordine di cessate-il fuoco nell'area di La Ja Yang, in prossimità del confine cinese, dove nelle ultime settimane lo scontro si era fatto più cruento in seguito ai bombardamenti dell'aviazione birmana. L'ordine sarebbe dovuto entrare in vigore dalla mattina di sabato, ma -come riportato alla Reuters dal colonnello James Lum Dau, portavoce della Kachin Indipendence Army (KIA)- l'esercito ha continuato ad attaccare durante il fine settimana.
Lo United Nationalities Federal Council (UNFC), un'alleanza politico-militare tra 12 gruppi etnici, domenica ha risposto alle dichiarazioni piccate rilasciate il 18 gennaio dal governo birmano, definendo l'intervento "una guerra da propaganda nazista, che fa uso dei media per influenzare l'opinione pubblica e mettere KIO e KIA in cattiva luce agli occhi del popolo birmano e della comunità internazionale".
Nonostante Thein Sein abbia negato che il Tatmadaw (l'Esercito del Myanmar) stia cercando di prendere Laiza, dove la KIA ha il suo "braccio politico", il Kachin Indipendence Organisation (KIO), Lum Dau sostiene che il governo di Naypyidaw stia semplicemente prendendo tempo per sferrare un nuovo assalto alle postazioni dei ribelli. Il cessate-il fuoco sarebbe stato ordinato in risposta alle pressioni di Washington e, sopratutto, di Pechino, che il 15 gennaio aveva chiesto insistentemente di mettere fine al conflitto, dopo che diversi colpi di artiglieria erano finiti in territorio cinese; quattro dal 30 dicembre, riporta l'agenzia di stampa statale Xinhua.
Le violenze tra il governo "civile" e le truppe separatiste sono riprese nel giugno 2011, dopo 17 anni di tregua. L'organizzazione Kachin Kio è l'unico gruppo etnico ribelle a non aver sottoscritto un accordo di pace con il presidente Thein Sein, che dismessa la divisa, dal 29 aprile 2010 guida da civile il Partito dell'Unione per la Solidarietà e lo Sviluppo, mentre di fatto i militari e i loro alleati controllano il Parlamento. La KIO accusa Naypyidaw di basare il dialogo sul ritiro delle truppe, continuando ad ignorare le richieste di maggiori diritti politici. Così i venti mesi di scontri hanno sollevato diversi dubbi sulla sincerità delle riforme politiche ed economiche perseguite dal governo birmano.
Secondo diversi analisti, l'obiettivo primario dell'esercito nazionale consiste nell'assumere il controllo di alcune aree chiave, prescelte per la costruzione di dighe idroelettriche, osteggiate dalla popolazione locale, ma fortemente volute da diverse imprese statali cinesi. Alla genesi del conflitto, infatti, l'ostinazione della minoranza Kachin a non lasciare le proprie case per far posto agli investimenti del vicino asiatico. Nel 2005 il generale Than Shwe e il presidente uscente Hu Jintao si accordarono per la costruzione della diga di Myitsone da parte di uno dei cinque colossi energetici controllati dal governo cinese: la China Power Investment Corp. L'opera, che comporta l'evacuazione di migliaia di persone, rientra in un piano di costruzioni da 20 miliardi di dollari per la realizzazione di sette dighe "made in China"; a tutto vantaggio del vicino Yunnan, provincia meridionale di confine tra Repubblica popolare e Myanmar, vero destinatario dei 6mila watt generati dall'intero sistema. Una preziosa fonte di energia pulita alla quale Pechino, ultimamente alle prese con un inquinamento da record, ha dovuto rinunciare dopo le pressioni dei residenti. Lo stop ai lavori, imposto dal governo birmano nel settembre 2011, è stata da più parti letto come un primo passo di Thein Sein verso la democrazia.
La ripresa delle violenze nello stato Kachin ha messo in allarme il Dragone, che la scorsa settimana ha provveduto a inviare oltre 200 soldati nelle zone di confine e ad allestire campi profughi per far fronte all'afflusso di rifugiati. Se nel 2009 la Cina si guadagnò un discreto plauso per il modo in cui gestì la fuga di massa dei ribelli Kokang (circa 30mila quelli scappati dallo stato di Shan nello Yunnan a causa della guerriglia fratricida tra esercito birmano e gruppi armati locali), l'estate scorsa Human Right Watch ha strigliato il gigante asiatico per aver costretto alcune migliaia di profughi Kachin a tornare nella regione di provenienza, ancora teatro di guerra.
Come sottolinea il Diplomat, la solerzia dimostrata nel caso dei Kokang -minoranza etnica cinese- è spiegabile dai molti interessi detenuti da Pechino nella regione omonima, dove una nutrita comunità di mercanti provenienti dal Regno di Mezzo esporta beni industriali cinesi e attinge al mercato grigio del legname. Più che comprensibile l'imbarazzo suscitato dall'endorsement alle forze del Myanmar, a metà tra l'alleato e lo "stato cliente", mentre i propri cittadini rischiavano la vita a pochi chilometri dal confine cinese. Senza calcolare il pericolo di incappare nelle critiche dei più nazionalisti, per i quali un mancato intervento di Pechino sarebbe equivalso a un sintomo di debolezza in politica estera. Pertanto, a coordinare l'emergenza rifugiati, nello Yunnan fu inviato niente meno che Meng Jianzhu, allora membro del Consiglio di Stato e ora segretario del Comitato per gli affari politici e legali del Partito. Non è stato manifestato lo stesso interessamento nel caso dei Kachin, per i quali il governo sinora ha fatto quel poco che basta ad ammansire la comunità internazionale: già la scorsa estate la situazione era stata lasciata alle autorità locali, e presumibilmente lo stesso accadrà con la nuova ondata di profughi. Nonostante gli appelli lanciati dai Kachin "cinesi" in favore dei "fratelli" d'oltre frontiera, gli aiuti di Pechino continuano ad essere dosati con il contagocce proprio per non invogliare gli sfollati a oltrepassare il confine.
I rapporti bilaterali tra Naypyidaw e il Dragone si sono raffreddati in seguito all'apertura del Paese dei pavoni all'Occidente, rimarcata lo scorso novembre dalla visita del presidente americano Barack Obama. Secondo voci riportate da Foreign Policy, negli ambienti accademici cinesi qualcuno starebbe addirittura pressando per l'interruzione del dialogo con il governo riformista, nell'ottica di offrire supporto alle forze separatiste; pedine che, se mosse bene, "diventeranno gli amici più fidati della Cina, in prima linea contro Usa e Myanmar".
A mettere in dubbio la buona amicizia tra i due Paesi un nuovo progetto energetico del valore di 2,5 miliardi di dollari: 1100 chilometri di pipeline -con una capacità potenziale di 22 milioni di tonnellate di petrolio e 12 miliardi di metri cubi di gas naturale l'anno- che dal porto birmano di Kyaukpyu arrivano fino a Ruili, nello Yunnan. L'opera è stata bersagliata dalle critiche dei "verdi" e delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani, che lamentano l'impatto ambientale e le inadeguate compensazioni per i residenti nella zona. Dopo tre anni di lavori, le tubature della discordia dovrebbero entrare in funzione alla fine di maggio, ma recenti dichiarazioni di China National Petroleum Corporation (CNPC) farebbero ipotizzare, quantomeno, un ritardo sospetto.
(Pubblicato su Dazebao)
domenica 20 gennaio 2013
I segreti della censura (II Parte)
(Servizio di Al Jazeera sul giornalismo in Cina e altro)
Segue da I segreti della censura
Una mattina di fine maggio 2003 Zhong Yangsheng riunì i membri del comitato editoriale del Southern Metropolis Daily presso il dipartimento di propaganda del Guangdong e tenne un discorso di tre ore durante il quale si scagliò contro il giornale maledicendolo. Una volta sciolta l'assemblea, tornato in ufficio chiesi ai membri dell'editorial board di pranzare insieme, ma durante il pasto ci astenemmo dal criticare e prendere in giro l'ottusità delle idee di Zhong. Finito di mangiare, mentre guidavo verso Shenzhen per presenziare ad un meeting, ricevetti la telefonata di Zhang Dongming, direttore sella sezione notizie del Dipartimento della Propaganda locale. Mi chiese con tono severo: "Non soltanto non hai sostenuto le parole dei leader della propaganda, ma li hai anche insultati! Per quale ragione?"
Con le mani che mi tremavano, accostai al lato della strada.
Dopo il 2005, il sistema attuò la tecnica del "dividere, demoralizzare e controllare". Allo stesso tempo la Propaganda centrale cominciò ad inviare i censori direttamente presso i principali media per attuare una censura preventiva. Così il dipartimento della Propaganda non si limitava soltanto a mandare i "Commenti delle notizie" dopo la pubblicazione, ma poteva anche imporre il veto prima che queste venissero diffuse. Il sistema agiva come una pinza "da davanti e da dietro", dando una doppia protezione. Ma non solo. Si rivelò molto efficace anche l'usanza di porre i funzionari della Propaganda alla direzione dei vari organi d'informazione. Dal 1996 ad oggi, tre alti funzionari della Propaganda del Guangdong sono stati promossi a cariche apicali nel Nanfang dushi bao. A partire dal 2005 questa tendenza è diventata più evidente in tutto il Paese, ma nel Guangdong con un andamento più lento.
Tra la fine dello scorso anno e l'inizio del nuovo, per evitare problemi nel Guangdong in prossimità del 18esimo Congresso del Partito - e soprattutto con il Southern Newspaper Group- il vice direttore della Propaganda locale, Yang Jian, è stato nominato segretario del Partito del gruppo editoriale. L'intransigente e conservatore, Tuo Zhen, invece, arrivò da Pechino per ricoprire il ruolo di capo del dipartimento della Propaganda e membro del Comitato del partito provinciale. Fu l'inizio di un ricambio ai vertici del Southern Newspaper Group, del Nanfang dushi bao e del Nanfang Zhoumo. I leader chiave del gruppo furono rimpiazzati da ex funzonari della Propaganda. Così, attraverso un sistema di nomine e licenziamenti, le autorità di Pechino hanno rafforzato la stretta sul gruppo editoriale.
Partecipai alla fondazione del Xinjing bao. Poco dopo aver lasciato il mio posto di caporedattore, nel 2005, fecero il loro ingresso diversi censori. Attualmente al Nanfang dushi bao almeno cinque di questi controllano le pubblicazioni; sebbene risultino detestabili a tutti, sono loro ad avere il potere e decidono su ciò che può o non può andare in stampa. La censura agisce in segreto, silenziosa, eppure con grande efficacia. Fu proibito di lasciare documenti scritti; piuttosto gli ordini venivano diramati ai vari livelli con telefonate o messaggi. La comunicazione tra i funzionari della Propaganda e i dirigenti dei vari media, così come tra i dirigenti di basso e alto livello, avveniva in una sola direzione. Essere fedeli ai leader e non creare problemi ai piani alti era l'unica regola per i subordinati. Responsabilità e rispetto divennero più semplici; col passare del tempo tanto per gli alti dirigenti che per i semplici impiegati l'autocensura si trasformò in un'abitudine. Dato che, informando e vendendosi (ai censori), si poteva comunque conservare il proprio lavoro, questo divenne il modus operandi privilegiato all'interno delle redazioni. Ed emerse così il lato umano più oscuro e pericoloso. Ormai si è già delineata questa situazione: i dirigenti più brillanti sono stati mandati via, i giornalisti migliori rimossi, persino i loro sostenitori sono stati completamente marginalizzati. A salire al potere sono invece i docili e gli obbedienti. La censura, come un virus, si autoriproduce e propaga rapidamente; i divieti sono divenuti sempre più frequenti e i criteri dell'autocensura ancora più rigorosi di quanto non fossero quelli della censura passiva. Gli ideali del giornalismo sono stati distrutti, non vi è più nessuna identificazione con i valori: l'immoralità è diventata l'unico lasciapassare.
Salendo al potere Hu Jintao ha rafforzato il totalitarismo in Cina, esacerbando la degenerazione del sistema, intraprendendo la via della soppressione dei valori universali e dei diritti umani, osteggiando la giustizia e l'imparzialità, legandosi invece a ingiustizia e malignità. E tutto questo rappresenta un pericolo insidioso per una transizione pacifica e a basso costo verso la democrazia, così come per l'instaurazione di un sistema basato sulla giustizia. Finché il Partito continuerà ad adottare la linea di governo di Hu Jintao, non ci sarà alcuna giustizia e la libertà di parola, che ha come nucleo centrale la libertà di stampa, rimarrà una favola come "Le mille e una notte". La stretta sulla libertà di pensiero e di stampa rientra tra i crimini messi sistematicamente in atto dal governo. I media risultano sfiniti dallo stretto controllo del Partito. L'indipendenza degli organi d'informazione e della libertà di parola, così come l''integrità personale ed etica, sembrano sempre più lontani. La realtà e la giustizia sempre più irraggiungibili.
2003 年 5 月底的一天上午,钟阳胜召集南方都市报编
委会全体成员到中共广东省委宣传部训话 3 个小时,对南
方都市报提出谩骂和诅咒式的批评。散会回报社我请编委
会成员一起午餐,饭桌上口无遮拦地嘲讽和批驳了钟阳胜
僵化可笑的谈话和观点。饭后在驱车赶往深圳开会的途
中,我接到时任中共省委宣传部新闻处长张东明的电话,
他严厉质问我:“你刚才不但不贯彻宣传部领导的谈话精
神,还大骂领导,你岂有此理!”我手一哆嗦,赶紧把车
停到高速路边。
2005 年之后,与分化瓦解、分而治之同时进行的,
是中共中央宣传部继新闻阅评制度后推出的审读员制度,
即直接向主要媒体派驻行使刊前审查职责的审读员。这样
一来,中共管制媒体继新闻阅评这一后置关口,又设置了
审读员这一前置关口,一前一后形成夹击,如同有了双保
险。还有一招更有效,那就是直接安排宣传部官员到主要
媒体担任领导职务。从 1996 年至今,中共广东省委宣传部
已有 3 任新闻处长被提拔到南方报业集团担任要职。这一
趋势也在 2005 年后更为明显,全国通行,广东还稍慢半
拍。
。去年底今年初,为防止广东尤其是南方报业集团媒体
在中共十八大前后制造麻烦,中共广东省委宣传部副部长
杨健空降南方报业集团任党委书记,死硬的保守派官员庹6
震从北京空降中共广东任省委常委、宣传部长。南方报业
集团及南方都市报、南方周末的领导班子新一轮洗牌也由
此开始。南方报业集团核心领导职位大多被前宣传部官员
占领。中共当局通过人事任免机制,再次强化了对南方报
业集团及其系列报的严密掌控。
我参与创办的新京报,在我被迫辞去总编辑职务之后
不久的 2005 年,即有若干审读员进入。南方都市报目前至
少有多名审读员在把控舆论,他们虽遭编辑记者厌恶,但
却掌握实权,对即将付梓的稿件生杀予夺。审查以秘密方
式进行,悄然无声然而且有力高效。禁令不再留下任何字
面证据,而是直接通过电话或短信点对点层层传达,宣传
部官员与媒体领导之间、媒体领导上下级之间都只进行单
线联系。忠于上级领导、不给上级领导惹麻烦成为下级工
作中唯一的法则,问责和行赏也越来越容易,久而久之媒
体领导及从业人员也就养成了自我审查习惯。利益是其中
最主要的管理工具,告密和出卖是保住饭碗和利益的主要
手段。人性幽暗险恶的一面被充分激发和利用。
现在已经形成这样的局面:卓越的媒体领袖遭到系数
清洗,优秀的新闻工作者被定点摘除,连他们的同情者也
被彻底边缘化,而驯服和听话的人全面得势掌权;审查像
病毒一样自我复制且迅速蔓延,执行禁令层层加码,自我
审查比被动审查的标准更为严苛;新闻理想被摧毁,价值
观和理念认同不复存在,卑鄙成了唯一的通行证。
mercoledì 16 gennaio 2013
Non respirate, non bevete!
Basta un giorno senza vento perché Pechino si trasformi in un girone infernale, avvolto da nebbia e smog. L'inquinamento atmosferico nell'ultima settimana ha raggiunto livelli allarmanti. Secondo i dati emessi dal centro per il Monitoraggio Ambientale della capitale, sabato 12 gennaio il PM2,5 (particolato con diametro inferiore ai 2,5 micron, altamente dannoso per la salute) ha raggiunto i 993 microgrammi per metro cubo, un valore quasi quaranta volte superiore alla soglia di sicurezza fissata dall'Organizzazione della Sanità Mondiale.
Diverse scuole chiuse, strutture sanitarie prese d'assalto, con un'affluenza giornaliera di 7000 persone nel solo Ospedale Pediatrico di Pechino: un'"Air-pocalypse" -come è stata ironicamente definita dai corrispondenti stranieri- durata cinque giorni, che non ha risparmiato il resto del Paese. Come dimostra un'analisi congiunta di Asian Development Bank e della rinomata Università Qinghua, nella top ten delle città più inquinate al mondo sette sono cinesi. Oltre a Pechino nella lista nera compaio Taiyuan, Lanzhou, Urumqi, Chongqing, Jinan e Shijiazhuang. Il rapporto evidenzia, inoltre, che solo l'1% di 500 centri urbani presi in esame incontra gli standard dell'Organizzazione Sanitaria Mondiale.
Ma in Cina, dove la natura viene costantemente violentata e sacrificata sull'altare di un'industrializzazione dissennata, non è soltanto lo stato di salute dell'aria a preoccupare. All'inizio di gennaio Handan, città dello Hebei che conta oltre un milione di abitanti, è rimasta senza acqua corrente. Ben cinque giorni prima, a Changzhi, nella vicina provincia dello Shanxi, una fabbrica di proprietà della Tianji Coal Chemical Industry si era resa responsabile di un grave disastro ambientale: una perdita di 9 tonnellate di anilina -un derivato tossico del benzene usato nei processi di tintura- si era riversata nel fiume Zhuozhang, mentre altre 30 tonnellate erano finite in un serbatoio ormai in disuso dal 1993. Nel fiume le autorità hanno riscontrato valori della sostanza cancerogena circa 720 volte superiori a quanto consentito, ma a Handan, il principale centro urbano più a valle, la sospensione della fornitura d'acqua è stata ordinata soltanto il 5 di gennaio.
A piombare nell'occhio del ciclone non è solo la Tianji Coal Chemical Industry, alla quale la Winter Swimming Association di Handan ha già chiesto 20 milioni di yuan di risarcimento. Per il popolo di internet, infatti, il vero responsabile dell'insabbiamento è il nuovo governatore dello Shanxi: Li Xiaopeng, figlio dell' ex premier Li Peng passato alla storia come "il macellaio di Tian'anmen". Un'altra patata bollente per Li, solo pochi giorni prima caduto vittima della gogna mediatica per aver taciuto sull'esplosione di un tunnel in costruzione, costata la vita ad otto persone.
La rabbia sul web ha raggiunto subito proporzioni virali. "Come ho aperto il rubinetto è uscita un' acqua color ruggine. Anche dopo un'ora, il lavandino sembrava una pozza di latte giallo", scriveva il 6 gennaio sul Twitter cinese, Sina Weibo, @Niuniu,"dovrei avere il coraggio di cucinare con quest'acqua? Avrei dovuto prendere parte all'assalto dell'altra notte e portare via alcune bottiglie."
Per contenere i rumor circolanti sulla rete (diverse Cassandre andavano predicando altri tre giorni senza acqua), le autorità si affrettarono a ripristinare l'approvvigionamento idrico della città, aprendo serbatoi sotterranei e mettendo a lavoro circa 5000 persone. Il 7 del mese la situazione ad Handan era tornata quasi alla normalità, ma ciò non bastò a sopire il malcontento dei cittadini, irati per il modo in cui era stata gestita la crisi. Nemmeno le scuse del sindaco di Changzhi, colpevole di aver "sottovaluto il danno", riuscirono ad azzittire la vox populi. "Anche con poche informazioni, mi chiedo perché l'impianto chimico sia stato costruito proprio vicino ad una fonte d'acqua", è il commento dell'editorialista @Lianpeng, "è stata fatta una supervisione rigorosa? Devo dire che non ci stiamo prendendo per nulla cura dell'inquinamento idrico. Un giorno pagheremo un prezzo molto alto". Forse Lianpeng non sa che quel prezzo la Cina lo sta pagando da tempo.
Secondo la rivista economico-finanziaria Caixin, quello della fabbrica della Tianji Coal Chemical Industry è l'ultimo di una serie di 18 incidenti di inquinamento delle acque in soli otto anni. In tutta la Repubblica popolare, dal Jilin al Guangdong, dal Jiangsu allo Yunnan, centri industriali sono stati coinvolti in casi analoghi considerati di grave entità. Circa la metà dei fiumi del Paese sono stati classificati dal governo come "molto inquinati". Secondo le stime del Ministero della Supervisione, il costo totale in termini di vite umane è di 60.000 morti premature l'anno.
"Questo è in parte spiegabile dalla presenza massiccia di fabbriche: sono circa 10.000 gli impianti petrolchimici lungo lo Yangtze, 4.000 quelli sulle sponde del fiume Giallo", ha spiegato Elizabeth Economy del Council on Foreign Relations. Le acque in prossimità delle principali città risultano contaminate dagli scarichi industriali e dai rifiuti urbani, mentre i trattamenti chimici necessari a darne la potabilità potrebbero essere a loro volta dannosi per la salute. Come sottolinea Alberto Forchielli, fondatore di Mandarin Capital Partners e presidente di Osservatorio Asia, la conseguenza economica è stata l'aumento costante di liquidi in bottiglia, laddove nei Paesi industrializzati l'imbottigliamento in plastica sta registrando un calo proprio a causa dell'impatto ambientale. Soltanto lo scorso anno, in Cina la Nestlé ha visto le sue entrate per l’acqua imbottigliata crescere del 27% rispetto al 2011.
Al fattore inquinamento va ad aggiungersi la conformazione geografica del territorio nazionale, solo per il 10% coltivabile. Sono più di quaranta i centri urbani a dover fronteggiare una scarsità di risorse idriche allarmante, sopratutto nell'arida pianura cinese settentrionale. Pechino, Tianjin e le province del Jiangsu e dello Shandong sono considerate ad alto rischio idrico, mentre lo stesso terreno sul quale sono state costruite le grandi città continua a sprofondare di diversi centimetri l'anno a causa dell'eccessivo prelievo delle falde acquifere.
Eppure, qualcosa farebbe pensare che i cittadini non siano più disposti a sopportare un perseguimento sconsiderato della crescita economica. Secondo Yang Chaofei, vice-presidente della Società Cinese per le Scienze Ambientali, tra il 2010 e il 2011, il numero delle "proteste verdi" è aumentato del 120%. In occasione di una conferenza sull'impatto sociale dei problemi ambientali organizzata dal Comitato permanente dell'Assemblea nazionale del popolo (Npcsc), Yang ha rivelato che i cosiddetti "incidenti di massa" sono cresciuti con una media annua del 29% tra il 1996 e il 2011; 927 quelli ai quali il ministero della Protezione Ambientale ha dovuto far fronte a partire dal 2005, di cui 72 classificati come "di grande rilevanza". Ormai da anni Pechino ha smesso di rilasciare le statistiche ufficiali, dopo che il numero annuo delle proteste violente ha superato la soglia delle 100mila. Ma -secondo Sun Liping, professore di sociologia presso l'Università Qinghua- solo nel 2010, gli incidenti di massa sarebbero stati circa 180mila.
(Pubblicato su Ghigliottina.it)
domenica 13 gennaio 2013
I segreti della censura
Quello che segue è un editoriale sui meccanismi della censura cinese scritto da Cheng Yizhong, ex caporedattore del Southern Metropolis Daily (Nanfang dushi bao), testata dello stesso gruppo del Southern Weekly (Nanfang zhoumo) resosi di recente protagonista di un'accesa protesta contro il capo della Propaganda locale. Entrambi i giornali sono noti per i commenti polemici e il tono investigativo (qualcosa sul caso Southern Weekly). Consiglio anche la lettura dell'editoriale di Qian Gang, un tempo pilastro del Nanfang zhoumo ( Why Southern Weekly said "NO") ora direttore di China Media Project.
Un pomeriggio del maggio 2001 ricevetti una telefonata anonima dal Dipartimento di Propaganda del Guangdong. Mi veniva chiesto di rimuovere un pezzo che sarebbe dovuto apparire il giorno seguente sul Nanfang dushi bao. In quanto caporedattore mi capitava spesso di ricevere telefonate di questo tipo. Ma in questo caso la persona dall'altra parte della cornetta non mi era familiare, così colsi l'occasione per manifestare la mia disapprovazione e risposi: "Mi scusi io non la conosco, non posso stabilire se si tratta di un ordine del Dipartimento. Per prevenire che qualcuno, spacciandosi per il capo della Propaganda locale, dia direttive al giornale la pregherei di mandare la documentazione scritta via fax, altrimenti mi sarà difficile eseguire l'ordine".
Nell'ultimo periodo del governo di Jiang Zemin, il capo della propaganda Ding Guanggen inasprì il controllo sui media. Un cambiamento rilevante è stato che il dipartimento decise di non rilasciare documenti solenni o inviato telegrammi espliciti come in passato. Semplicemente venivano dati gli ordini e chiesto al caporedattore di eseguirli. Sopratutto è stato adottato il metodo delle telefonate e di messaggi sul cellulare, con istruzioni date direttamente al caporedattore o ad una persona specifica incaricata. La causa di ciò è da attribuirsi all'aumento delle proibizioni, sempre più frequenti. Lo stile dei documenti doveva essere approvato ai vari livelli; un processo troppo lungo e tedioso, che creava problemi nel caso di questioni particolarmente urgenti. Ma la comunicazione via telefono o via messaggi, invece, snelliva le procedure, era più efficace e permetteva di raggiungere l'effetto voluto con rapidità.
Prima che Hu Jintao prendesse il potere, in concomitanza con alcuni fattori come l'aggravarsi della condizione dei diritti umani, il regresso della giustizia, l'emergere di figure influenti e l'esacerbazione dei fenomeni di corruzione, il partito ha promosso una soppressione ideologica a tutto campo recando gravi danni ai media. La direzione della Propaganda fu assunta da Liu Yunshan, ex reporter dell'agenzia di stampa Xinhua, il quale aveva una certa esperienza nel coprire la verità e diffondere fandonie. Il potere di amministrazione e controllo delle autorità sugli organi d'informazione divenne via via più forte, sempre più esteso grazie all'utilizzo di una varietà crescente di metodi. Le misure adottate acquisirono una maggiore specificità. Ogni volta che accadeva qualcosa di grosso o veniva convocata all'improvviso un'assemblea, divieti e regolamenti travolgevano tutto.
All'inizio del 2003 in piena Sars, il Dipartimento della propaganda provinciale emise fino a 30 messaggi di divieto al giorno, persino sulla prima pagina e altri spazi importanti vi erano regole precise che stabilivano quali articoli pubblicare, in quale posizione, quali dovessero essere il carattere del titolo e la dimensione delle immagini. Ma il Southern Metropolis Daily invece ha continuato incessantemente a rompere il blocco e a farsi sentire. Quando Zhang Dejiang era membro del Politburo e segretario del Partito del Guangdong, per due volte in presenza del Comitato permanete dell'Ufficio Politico locale chiese ai subordinati: "perché non intentiamo un processo contro il responsabile del Nanfang dushi bao con l'accusa di aver diffuso informazioni confidenziali?"
Le idee di Zhang Dejiang furono approvate e messe in pratica dalle autorità del Partito. Il 17 settembre 2004 Zhao Yan, assistente presso l'ufficio di Pechino del New York Times, fu arrestato mentre si trovava a Shanghai, il 24 novembre il giornalista del Modern Business, Shi Tao, è stato preso in custodia dalla sicurezza di Changsha, nello Hunan, mentre si trovava a Taiyuan, nella provincia dello Shanxi. Entrambi furono citati in giudizio per aver rilasciato informazioni riservate. Zhao Yan è stato condannato a 3 anni di detenzione, Shi Tao a 10. Quanto ai reati, nel caso di Shi Tao si trattò semplicemente di aver diffuso all'estero notizie sulle quali le autorità avevano fatto calare la censura.
Con l'era Hu Jintao il controllo sui media è diventato più invisibile e segreto; forse per la consapevolezza dell'illegalità dei metodi adottati e dei crimini istituzionalizzati. In questo periodo il cambiamento più eclatante consiste nell'abitudine dei funzionari della propaganda, incaricati di telefonare ai vari media per diramare i divieti, di sottolineare prima di riattaccare: "di non mettere per iscritto (quanto richiesto ndr), di non lasciare nemmeno una traccia scritta, di non far trapelare quale fosse l'ordine, da quale dipartimento fosse stato emesso, né da quale leader fosse partito".
Le direttive del "Ministero della Verità" divennero via via più segrete. E proprio a causa di questa maggior segretezza i meccanismi di censura sono divenuti il principale strumento attraverso il quale dipartimento della Propaganda ha cercato di accrescere il proprio potere. Così, da una parte, gli alti funzionari della Propaganda, per abbellire la loro carriera e costruirsi un'immagine di facciata, hanno fatto molto affidamento sulla censura, ricevendo lusinghe e occasioni di promozione. Dall'altra, in caso di scandali, i quadri, i grandi gruppi di potere e le società, in caso di scandali, non hanno più tentato di stringere complicate e inefficaci relazioni con gli organi d'informazione. Piuttosto hanno preferito arruffianarsi gli alti funzionari della Propaganda, in modo da bloccare e controllare meglio le notizie a partire dalla fonte.
Du Zhihong, studioso di comunicazione presso l'università di Suzhou, una volta ha scritto sul suo account Weibo che i divieti del Dipartimento della Propaganda e gli elementi di base della sicurezza vanno a tutto vantaggio degli elementi corrotti e della criminalità. Chissà quanto denaro si nasconde dietro ogni ordine, si chiede Du.
Il metodo tradizionale con il quale opera il "Ministero della Verità" prevede un controllo sui media attraverso la lettura e il commento delle notizie, poi viene fissata la data per la pubblicazione di un rapporto, il "Commento delle notizie", e ne viene inviata una copia ai membri del Politburo e a tutti i segretari del Partito a livello provinciale. Una volta diffusi le notizie e gli articoli, vengono rilasciati dei giudizi e consigliate le misure adeguate da adottare. Questo è il sistema tipico di censura a pubblicazione già avvenuta. I membri del gruppo del Dipartimento della Propaganda addetto alla valutazione delle notizie è composto da ex dirigenti di estrema sinistra, un tempo impiegati nei media statali. Questi debbono sfogarsi contro ogni organo mediatico che non si sia dimostrato leale verso il Partito, perciò ottengono trattamenti vantaggiosi e ogni tipo di beneficio. Ma la censura a posteriori aha tuttavia le sue imperfezioni: essa funziona soltanto con quella maggioranza di media timorosi e privi di fiducia in sé stessi, mentre con quella minoranza, che come me non ascolta e non ha paura di perdere il posto, non sortisce alcun effetto.
Nell'aprile del 2000, un "Commento alle notizie" criticò aspramente un articolo comparso in una rubrica del Nanfang dushi bao. Dopo non molto durante una riunione del Comitato Centrale del Politburo, il direttore del Dipartimento di Propaganda Ding Guangen tirò fuori dalla sua cartella una copia del documento e a matita vi scrisse sopra una memo "da far leggere al segretario Changchun". Immediatamente lo passò a Li Changchun, membro del Politburo e Segretario del partito del Guangdong, che gli sedeva accanto. Alcuni giorni dopo Zhong Yangsheng, un altro membro del Comitato permanente del partito locale e capo della propaganda, convocò il direttore del Southern Newspapers Group, Fan Yjin, per ordinargli di rimuovermi dall'incarico di caporedattore del Southern Metropolis Daily e da qualsiasi altro ruolo all'interno del giornale. Fan ritardò l'esecuzione degli ordini e, alzando la mira un po' più in alto, difese la mia posizione. Oggi atti di coraggio verso i subordinati, come quello di Fan Yijin, non possono più essere messi in pratica. Negli ultimi anni il Partito comunista cinese ha reso impossibile ai media di esprimersi liberamente, eliminando qualsiasi terreno di sviluppo per correnti più aperte e riformiste. Ogni livello della Propaganda non soltanto controlla fermamente il potere di nomina a capo degli organi d'informazione, ma coltiva anche amicizie nell'amministrazione, piazza i suoi informatori in posizioni chiave in modo tale da tenere sotto controllo quanto accade nei media e poter intervenire con misure opportune.
(Continua)
中共钳制媒体揭秘
从公开到隐蔽 由宏观及微观
程益中 (Fonte originale)
东省委宣传部的陌生电话,要我撤掉南方都市报将于第二
天见报的一篇稿件。作为南方都市报总编辑,我经常接到
中共各机关类似的电话。不过这次来电者我不熟悉,而我
也想借机表达不满,就很不客气地答复:“不好意思,我
不认识你,不能确定这就是来自部领导的指示;为防止有
人冒充宣传部领导对报纸发号施令,麻烦你传真书面文件
给本报,否则无凭无据难以执行。”
江泽民统治的后期,丁关根领导的中共宣传部门对媒
体的控制越来越严。一个显著的变化是,宣传部门不再像
以往那样郑重其事地下发文件或明传电报,对媒体发号施
令,要求总编辑执行;而主要采取电话口头传达或手机短
信通知的方式,直接指令总编辑或具体负责人。原因在于
禁令越来越多、越来越频繁,书面行文需要层层报批,过
于繁琐,也来不及应付紧急状况。而电话口头传达和手机
知肚明,中共的媒体控制在胡锦涛时代开始进入地下秘密
状态。这一时期的显著变化是,打电话给媒体传达禁令的
宣传部门官员,通常都会在挂机之前强调:“不得做书面
记录,不得留任何字据,不得透露下达了什么禁令,不得
透露是什么部门下达的禁令,更不得透露下达禁令领导的
姓名。”中共宣传部的禁令,就这样在秘而不宣中得以贯
彻执行。
由于禁令下达的权柄日益私人化和隐秘化,宣传禁令
也日益成为宣传部门官员进行权力寻租的一大工具。一方
面上级官员为了美化自己的政绩和粉饰太平,需要倚重宣
传部门,这就使得宣传官员有更多的拍马屁和获提拔机
会,大批投机钻营、思想僵化、不学无术、为领导命令是
从的宣传口官员得到提拔任用;另一方面,官员、权贵利
益集团及大公司在出现丑闻时,首先想到的不再是进行艰
难和无效的媒体公关,而是尽快摆平宣传部门的领导,以
便更好地从源头上封锁和控制信息。苏州大学传媒学者杜
志红,曾经在其微博上说:宣传部门的禁令,保护的基本
都是腐败分子的利益和违法犯罪的行为;每道禁令背后能
收多少保护费?
中共中央宣传部控制媒体的传统手段是新闻阅评,定
期出版《新闻阅评》报告并抄报中共中央政治局成员和所
有省委书记,对媒体已经播发的新闻和文章作出评估并建
2000 年 4 月份,南方都市报的一篇专栏文章被《新闻
阅评》提出严厉批判。在其后不久召开的中共中央政治局
会议上,时任中宣部长丁关根从公文包里拿出那一期《新
闻阅评》,用铅笔批示“送长春书记阅”,并当即交给邻
座的时任中共中央政治局委员、中共广东省委书记李长
春。几天之后,时任中共广东省委常委、宣传部长钟阳胜
召集时任南方报业集团社长范以锦谈话,明令撤销我的南
方都市报总编辑职务并调离南方都市报。范以锦则采取久
拖不办和枪口抬高一寸的惯常做法,保住了我在南方都市
报的职务。
像范以锦那样保护下属的案例现在不复存在,或者说
根本就不可能存在。近几年,中共已经从体制上杜绝了媒
体不听话的各种可能性,彻底铲除了体制内媒体开明派和
改革派生存的土壤。中共各级宣传部不但直接或间接地牢
牢控制了媒体领导的任命权,还在管理层中培植亲信、安5
插眼线,以便及时掌握媒体内部情况和采取相应对策。
giovedì 10 gennaio 2013
"Pietà filiale" in provetta
Prendete il senso della famiglia del Meridione nostrano e moltiplicatelo per 1,35 miliardi di persone.
A distanza di secoli dalla morte di Confucio, sulla Cina continua a pesare un bagaglio di valori che difficilmente si adatta ad una società in continua trasformazione. Tra questi predomina il legame genetico e il prolungamento del lignaggio dei padri sopra ogni cosa. Ragione per la quale l'inseminazione artificiale costituisce un argomento controverso a causa della presenza di quel terzo elemento (il donatore) che va a rompere la continuità della stirpe. Eppure, sempre chiamando in causa il filosofo cinese, si può sostenere che la procreazione costituisca un aspetto fondamentale della "pietà filiale" (il prendersi cura dei genitori), così come costruire un nucleo familiare rappresenti un diritto per ogni essere umano.
Senza bisogno di deragliare dal solco della tradizione, quindi, la procreazione assistita non può essere semplicemente vista come un aiuto per le coppie affette da infertilità che vogliono coronare il loro "sogno confuciano"? Al giorno d'oggi i bioeticisti cinesi si stanno dando un gran da fare per reinterpretare e adattare il Confucianesimo alla modernità. Il saggio dello Stato di Lu dovrà scendere a compromessi se vuole mantenere un posto nella Nuovissima Cina, perché oggi -e forse si starà rivoltando nella tomba- l'affetto va a sostituire il legame genetico padre-figlio.
Sebbene i primi casi siano riscontrabili a partire dal 1980, è soltanto nel 2001 che in Cina sono state introdotte le linee guida per le varie tecniche di fecondazione assistita, tra le quali l'inseminazione artificiale eterologa. Quando nel 2000 Coco Ye, 28enne di successo con sei travagliate storie d'amore alle spalle, decise di rivolgersi ad una delle prime banche del seme cinesi (oggi sono undici), la sua storia finì sui giornali. Al brusio sul web, diviso tra le lodi di chi la ritenevano una pioniera dei diritti femminili e le critiche di chi la accusava di egoismo, fece seguito l'intervento del governo: non solo per una donna single avere un figlio è tabù, ma è anche illegale. "La legge è chiara. Se un uomo e una donna non si sposano, non possono avere un bambino. "Devi essere una famiglia, una coppia, per potere avere un figlio" ha spiegato Cheng Shengli, portavoce delle Commissione di Stato per la Pianificazione Familiare. "Nella nostra tradizione culturale abbiamo norme molto rigide in materia di rapporti sessuali. La maggioranza fa la legge, e dobbiamo tenere in considerazione il punto di vista morale della maggioranza. Ti sposi, fai una famiglia e solo in seguito puoi avere un bambino" ha aggiunto Cheng.
Soltanto due anni dopo, la provincia nordorientale di Jilin tentò di sdoganare il tabù della fecondazione artificiale, facendo scattare il semaforo verde per la prima volta in Cina. Un nuovo articolo, introdotto nella legge sul controllo delle nascite, stabilì che una donna in età legale per il matrimonio (20anni), non intenzionata a prendere marito, può comunque ricorre a "mezzi medici" per avere un figlio. Una misura adottata esclusivamente a livello provinciale e che, stando a quanto dichiarato da alcuni funzionari di Pechino al China Daily, non sarebbe stata estesa alla capitale.
Banche del seme in affanno: il mercato nero si arricchisce
Liste d'attesa interminabili attendono le coppie che richiedono un intervento di riproduzione assistita: il Peking University Third Hospital è a corto di sperma. A lanciare l'allarma è stato ancora una volta il China Daily, che nel giugno 2010 quantificava l'afflusso nella struttura medica per controlli sulle condizioni di fertilità a 1.000 coppie al mese. "Circa 1.000 volontari ogni anno vengono per donare il oro sperma" ha dichiarato al quotidiano Liang Xiaowei, medico presso la banca del seme dell'Istituto Nazionale per la pianificazione familiare "ma solo il 15-20% viene scelto come donatore effettivo". A Pechino ogni mese 400-500 coppie fanno ricorso alla fecondazione in vitro, 5.000 in totale nel solo 2009.
Le cose non vanno meglio a Shanghai dove tra il 2007 e il 2008 sono state 400 le coppie ad ottenere la donazione, contro le 3.000 in lista. La carenza di sperma sarebbe da attribuire a elementi esterni, quali stress, il peggioramento delle condizioni ambientali e la mancanza di esercizio fisico, secondo quanto dichiarato da Chen Zhenwen, direttore del Centro Nazionale di sanità della riproduzione. Fattori, questi, che hanno influito sensibilmente sul tasso di sterilità passato dal 3% del 1970 al 15% del 2009.
Della situazione hanno saputo approfittare gli "spacciatori" dello sperma. Lo scorso ottobre l'Hill Post denunciava un fenomeno sempre più frequente: quello delle vendite sottobanco. Così, se da una parte calano le scorte nelle banche del seme, dall'altra aumentano i guadagni del mercato nero, al quale sempre più persone si trovano costrette a fare ricorso. Come raccontato da Huang (il nome è fittizio), professionista del "contrabbando" dello sperma, i clienti possono scegliere se far impiantare il liquido seminale artificialmente o attraverso rapporto sessuale.
8 bambini sfidano il Partito
Era il 2010 quando una facoltosa famiglia di commercianti del Guangdong, che per anni non era riuscita ad avere figli, si trovò improvvisamente con otto bambini. Tutti nati tra settembre e ottobre grazie all'aiuto di due madri surrogate, soltanto tre concepiti dalla madre naturale. Doppiamente colpevole, la coppia dovrà fare i conti con la legge non solo per aver sfidato la politica di Pianificazione Familiare, introdotta trent'anni fa per tenere sotto controllo l'incremento demografico (e comunque già ammorbidita negli anni 90' con l'introduzione di pene pecuniarie). Ma sopratutto per aver violato la legge del 2001 che vieta l'utilizzo di madri surrogate nella fecondazione assistita. Ragione per la quale, di fatto, i cinque bambini avuti da donne diverse sarebbero illegali.
Per i genitori la multa sarà salatissima, e potrebbe ammontare a dieci volte il loro reddito annuo, riportava lo scorso dicembre il Guangming Daily. "Verranno imposte sanzioni molto pesanti" ha dichiarato un funzionario citato dal Southern Daily "l'indagine sul caso è fondamentalmente conclusa".
Nonostante il diktat di Pechino, spesso queste nascite proibite riescono a passare inosservate sfuggendo alla giustizia, ha commentato Peng Xizhe, esperto di società cinese presso l'Università Fudan di Shanghai.
Come emerso da un report della BBC, negli ultimi anni si è riscontrato un netto aumento di siti internet specializzati nell'offerta di "maternità surrogata", con un ampia gamma di servizi per tutti i portafogli. Al fine di smarcarsi dai controlli, spesso queste agenzie spediscono le madri in altri Paesi, come Thailandia e India, dove vengono sottoposte a fecondazione assistita, per poi tornare in Cina dopo il parto. Secondo quanto riportato dal Ximin Weekly di Shanghai, in tutto il territorio nazionale sono circa 500 le organizzazioni in questione, 50 soltanto a Canton, la capitale provinciale del Guangdong. Molte dal 2004 sono rintracciabili online, sopratutto grazie a QQ, il programma di instant messagging più famoso oltre Muraglia, che ospita 180 gruppi dedicati alla maternità surrogata, per un totale di 30.000 membri.
"Sebbene la legge le vieti, nessuno porta mai la questione in tribunale" ha spiegato Peng "ma data l'eccezionalità del caso, la storia è diventata un problema legale".
Proprio di caso eccezionale si tratta: è piuttosto anomalo, infatti, che tutti gli 8 ovuli impiantati siano sopravvissuti, quando di norma soltanto il 30% si trasforma in gravidanza. Così, oltre a dover pagare una multa particolarmente esosa, la coppia del Guangdong ha anche dovuto assumere un esercito di bambinaie; ben undici!
(Scritto per Uno sguardo al femminile)
giovedì 3 gennaio 2013
Il Tetto del Mondo continua a bruciare
300 televisori confiscati nei principali monasteri tibetani delle regioni occidentali della Cina e satelliti, responsabili di diffondere programmi 'anti-cinesi', smantellati. Sono le ultime misure adottate dal governo di Pechino per mettere un punto alla interminabile sequela di auto-immolazioni che sta funestando l'altopiano del Tibet.
Sono quasi 100 i tibetani che hanno scelto la via del suicidio per protestare contro il "genocidio culturale" messo in atto dal regime cinese, 81 soltanto nell'ultimo anno. Cinque delle auto-immolazioni sono avvenute nella prefettura di Huangnan, provincia del Qinghai, come riportato dall'agenzia di stampa locale il 27 dicembre.
"E' un momento particolarmente critico per il mantenimento della stabilità sociale nella prefettura di Huangnan" scandisce l'articolo "dobbiamo inasprire le misure e combattere fermamente la battaglia contro le auto-immolazioni", aumentando i pattugliamenti e "bloccando le informazioni dannose". Sempre secondo il rapporto, le aree agricole e pastorali della prefettura avrebbero fatto ricorso ad alcune attrezzature satellitari per "guardare e ascoltare programmi d'oltremare anti-Cina". Ragione per la quale il governo locale ha intenzione di investire 8,64 milioni di yuan (1,39 milioni di dollari) nell'istallazione di 50 trasmettitori che diffonderanno il 70% dei canali televisivi della prefettura. Le autorità, contattate telefonicamente dalla Reuters per una conferma, avrebbero detto di "non saperne nulla".
Il Partito comunista cinese le sta provando tutte: da punizioni per le famiglie dei manifestanti e promesse di ricompense economiche per chi fornisce informazioni utili a prevenire altri suicidi, ad una nuova ondata di arresti. Chiunque inciti i tibetani all'auto-immolazione sarà perseguito per omicidio intenzionale, ha sentenziato all'inizio di dicembre la corte suprema cinese, ripresa dal quotidiano statale Gannan Daily.
Ad agosto il monaco 40enne Lorang Konchok del monastero di Kirti, nella contea di Aba (provincia meridionale del Sichuan), e suo nipote Lorang Tesring sono finiti in manette con l'accusa di aver incitato altre persone a darsi fuoco. Come pare abbia confessato alla polizia Lorang Konchok stesso, i due avrebbero agito su istruzione di Tenzin Gyatso, il Dalai Lama, e dei suoi seguaci. La notizia dell'arresto è giunta soltanto lo scorso mese.
Il 13 dicembre è stata la volta di altri cinque tibetani della regione di Zeku, nella provincia cinese del Qinghai, mentre tempo prima otto alunni della scuola media di Gonghe sono stati condannati a cinque anni di prigione per aver partecipato ad una manifestazione contro il regime, scatenata dall'ennesima auto-immolazione. Nel tritacarne di Pechino finiscono senza eccezione attivisti, monaci, studenti e poeti schierati.
E' dal febbraio 2009 che una lunga scia di fuoco percorre le provincie cinesi del Gansu, Yunnan, Qinghai e Sichuan, tutte caratterizzate da una forte presenza tibetana. Il monaco di Kirti Tapey rimane l'unico caso per due anni, poi i numeri cominciano a salire rapidamente e le proteste si estendono oltre la Grande Muraglia. A marzo una torcia umana si accende in India. Il 27enne Jamphel Yeshi si dà fuoco a Nuova Delhi in concomitanza con la visita del presidente cinese uscente Hu Jintao, giunto nella città indiana per il quarto vertice dei BRICS. Poi lo scorso maggio le auto-immolazioni raggiungono per la prima volta Lhasa, capitale della Regione Autonoma del Tibet, fin dal 1750 direttamente o indirettamente controllata dalla Cina.
30 sono i suicidi tra novembre e dicembre 2012, di cui 4 soltanto il 7 dello scorso mese, vigilia del decennale ricambio al vertice sancito dal XVIII Congresso del Partito. In termini statistici si tratterebbe di un'auto-immolazione al giorno. A scegliere la morte per autocombustione sopratutto ragazzi sotto i trent'anni; 13 le donne. I loro nomi sono riportati in una lunga lista pubblicata sul sito di International Campaign for Tibet (ICT).
Spesso ci si chiede se le auto-immolazioni tibetane siano un rituale religioso o una protesta politica -scriveva a luglio sul Washington Post Lobsang Sangay, Primo Ministro del governo tibetano in esilio- senza capire che è a causa della negazione del diritto a mettere in atto forme di rimostranza meno estreme che i tibetani scelgono l'autocombustione. "Abbiamo più volte chiesto al nostro popolo di non ricorrere a gesti tanto drastici come le immolazioni, ma il fenomeno continua anche oggi" ha affermato il capo del governo di Dharamsala.
Sebbene il Paese delle Nevi sia soggetto a politiche repressive da diverse decadi, dopo la rivolta del 2008 il processo di sinizzazione forzata è stato esteso in maniera più massiccia in tutte le aree tibetane. La perdita della propria identità culturale è una vera minaccia per le provincie occidentali della Cina, nelle quali il governo di Pechino sta tentando di cancellare qualsiasi nicchia di "tibetanità".
Dal 1959, anno dell'occupazione politica e militare del Tibet da parte del Pcc, il Dalai Lama vive in esilio a Dharamsala, nel nord dell'India. Pechino si è annessa le aree tibetane nel 1950 portando avanti quella che definisce una "campagna antifeudale" con lo scopo di liberare il popolo tibetano dalla servitù della gleba, istituto giuridico al tempo in pieno vigore e ampiamente adottato anche all'interno dei monasteri. Una certa forma di autonomia, sancita da un accordo in 17 punti, è stata sconfessata da entrambe le parti dopo la grande rivolta anti-cinese del '59, repressa nel sangue dalle truppe di Pechino. Dopo la fuga in India di Tezin Gyatso e del suo governo, ha fatto seguito l'occupazione integrale del Tibet da parte della Cina con conseguente dichiarazione di illegalità del governo tibetano. E sebbene nel 2011 il Dalai Lama abbia rinunciato al suo doppio status politico e religioso, conservando esclusivamente il ruolo di guida spirituale, per Pechino questi non è altro che un "lupo travestito da agnello" e "Lhasa è la città più felice della Cina".
L'ammissione nel 1998 di aver ricevuto finanziamenti dalla CIA, che sostenne con tonnellate di armi la guerriglia contro l'invasione comunista, fa di Tezin Gyatso una Santità apparente, come tendono a rimarcare i suoi detrattori.
Con Tezin Gyatso ormai ultrasettantenne, il problema della successione si fa sempre più pressante. Secondo una legge varata dal governo cinese, le reincarnazioni dei Lama devono essere approvate dall'Ufficio per gli Affari Religiosi di Pechino. Con l'Ordinanza N°5 dell'ottobre 2007 il Pcc si è arrogato il diritto di nominare tutti i futuri "Buddha viventi". Il bambino scelto dagli emissari di Dharamsala quale reincarnazione del Panchen Lama, la seconda carica lamaistica più importante, fu arrestato all'età di sei anni e portato via dalle autorità cinesi nel 1995. Al suo posto il regime pose il proprio Panchen Lama: il figlio di influenti funzionari di Pechino nominato nel 2010 membro della Conferenza politica consultiva del popolo.
Una nuova leadership al potere
I controlli a tappeto, sopratutto in concomitanza con alcune date sensibili come l'anniversario della rivolta del 2008 e della fuga del Dalai Lama, tradiscono una malcelata irrequietudine. Nonostante il governo cinese si ostini a nascondere la testa sotto la sabbia, la questione delle auto-immolazioni continua a rappresentare per il gigante asiatico una dolorosa spina nel fianco. Nonché una pesante ipoteca sul futuro lasciate in eredità dalla vecchia amministrazione alla nuova leadership guidata da Xi Jinping.
Fu proprio Hu Jintao, divenuto nel 1988 segretario del partito della Regione Autonoma del Tibet, a decretare la legge marziale a Lhasa dopo le proteste dell''89. Nel corso degli anni, la repressione poliziesca è rimasta il modus operandi privilegiato dal presidente uscente nelle aree tibetane.
In un'intervista alla Reuters risalente ad alcuni mesi fa, il Dalai Lama aveva parlato di "segni incoraggianti" riferendosi ai nuovi "timonieri" che assumeranno ufficialmente le redini del Paese il prossimo marzo. Grandi attese sono riposte nella figura di Xi Jinping, figlio di Xi Zhongxun, combattente comunista di ispirazione liberale, noto per il suo approccio meno intransigente verso il Tibet.
Alla vigilia del nuovo anno, il premier Wen Jiabao si è recato per la terza volta nella prefettura autonoma di Yushu, nel Qinghai, colpita nel 2010 da un terremoto che ha fatto almeno 2.700 vittime. Qui Wen, che presto passerà il testimone a Li Keqiang, avrebbe incitato i monaci del posto a conservare la loro purezza e a "costruire un'immagine sociale positiva". Secondo molti, un ultimo gesto di umanità volta a trasmettere ai posteri l'immagine di primo ministro "vicino al popolo", obiettivo perseguito durante tutto il suo mandato.
Il fenomeno delle auto-immolazioni non è esattamente una novità in Cina. Circa dieci anni fa la setta della Falun Gong, che vanta circa 100 milioni di seguaci, aveva tentato di umiliare il regime con una serie di suicidi in piazza Tian'anmen, il centro politico di Pechino. Al tempo le immolazioni religiose infastidirono gran parte della popolazione, grazie anche alla campagna lanciata dal Partito per demonizzare il movimento. Oggi invece l'ondata di suicidi sembra aver accentuato la solidarietà tra i tibetani. Secondo fonti di Dharamsala, recenti manifestazioni in memoria dei martiri "nemici di Pechino" avrebbero visto la partecipazione di circa 6.000 persone (numeri ridimensionati a 4.000 da Radio Free Asia). Persino nella Repubblica popolare qualcuno ha cominciato a rompere il silenzio. Oltre all'artista-dissidente Ai Weiwei, l'avvocato democratico Xu Zhiyong, in un editoriale pubblicato alcune settimane fa sul New York Times, si è schierato a favore della causa tibetana definendosi dispiaciuto perché troppo a lungo i cinesi hanno taciuto mentre i fratelli tibetani muoiono per la libertà.
Ora ciò a cui si trova a dover far fronte Pechino (e in particolare il weiwen, l'apparato di sicurezza interna) è la rapidità con la quale le informazioni scorrono sul filo del web. Scambio di notizie tra il Tetto del Mondo e l'esterno -ma anche tra i tibetani sul posto- e foto di corpi avviluppati dalle fiamme rimbalzano sulla rete a poche ore dall'accaduto bucando la censura.
I panni sporchi si lavano in casa
Nel corso di un forum online con gli Usa, lo scorso ottobre l'ambasciatore americano Gary Locke ha chiesto ancora una volta a Pechino di riesaminare "le politiche che hanno condotto alle restrizione applicate ai tibetani". Proprio in quei giorni il numero uno della diplomazia Usa in Cina era stato immortalato in compagnia di un monaco nella prefettura di Aba, dove nel 2009 avvenne la prima autocombustione. Alla foto, finita sul New York Times, ha fatto seguito l'immancabile bacchettata di Pechino: "Ci opponiamo a qualsiasi tipo di ingerenza cinese negli affari interni cinesi", ha commentato Hong Lei, portavoce del ministero degli Esteri di Pechino.
Per il Partito la questione tibetana continua ad essere avvertita come un problema di sovranità territoriale e pertanto qualsivoglia riferimento ai diritti umani viene ritenuto inconsistente. Mentre a novembre nella capitale cinese si svolgeva il fatidico Congresso, il Dalai Lama volava in Giappone, storico nemico del Dragone, suscitando ancora una volta le ire del Pcc. "Traditore e strumento nelle mani della destra giapponese" è l'epiteto affibbiato a Tezin Gyatso dal quotidiano China Daily, a cui sono seguite le dichiarazioni ufficiali di Hong Lei che ancora una volta ne ha sottolineato la natura reazionaria. E se tra Sol Levante e Impero Celeste ci sono di mezzo le Diaoyu/Senkaku, le isole della discordia, la guida spirituale tibetana -secondo la stampa cinese- è una pedina manipolata da Tokyo per ottenere il sostegno internazionale nella controversia.
In passato le visite del Dalai Lama hanno fatto schizzare la colonnina di mercurio dei rapporti diplomatici tra Cina e diversi paesi occidentali quali Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna. Nel 2008 l'incontro tra Tezin Gyatso e l'allora presidente francese, Nicolas Sarkozy, mise a repentaglio il dialogo e la collaborazione tra Pechino e l'Unione Europea. L'indignazione del Dragone sfociò nella cancellazione unilaterale dell'undicesimo summit Cina-Ue.
Ma nonostante il pugno di ferro adottato dal Partito nelle aree tibetane abbia attirato le critiche dei governi democratici, sono in molti a lamentare l'insufficiente copertura delle auto-immolazioni da parte della stampa internazionale.
Dal 2008 tutto il Tibet geografico, non solo la Regione Autonoma, è chiuso ai giornalisti. Tempo fa Asia Sentinel ha definito le autocombustioni tibetane "un topic da social network", sui quali sempre più spesso circolano foto e video di corpi carbonizzati. Scarsa, invece, l'attenzione dimostrata dai media mainstream. Forse per mancanza di fonti dirette a causa dell'inaccessibilità di molte zone, forse per paura di pestare i piedi ad una superpotenza che, sebbene criticata quanto a diritti umani, rimane pur sempre un prezioso partner commerciale.
Fattori, questi, che non sembrano aver intimorito iSun Affairs, rivista investigativa con base ad Hong Kong gestita da giornalisti della mainland, la quale il 13 dicembre ha pubblicato un resoconto dettagliato delle auto-immolazioni, riportando la lista completa dei martiri. In copertina l'immagine di un ragazzo che avanza arso dalle fiamme.
Integrare o distruggere ogni alterità
Cosa accomuna tibetani, schiavi d'America e i fuggiaschi nordcoreani? Sicuramente il desiderio di libertà. Cosa li distingue? Un'argomentazione ben articolata di Francesco Sisci, comparsa su Asia Times alcuni mesi fa, fornisce diversi spunti di riflessione sull'argomento. I tibetani -si legge nell'editoriale- non sono liberi quanto i cittadini americani, ma sicuramente lo sono più di quanto non lo fossero gli schiavi dell'Alabama. Non vivono nel lusso, ma non patiscono nemmeno la fame come i nordcoreani. Non cedono alle lusinghe monetarie né cercano una vita migliore, obiettivo che potrebbero raggiungere senza troppe difficoltà oltrepassando il confine e rifugiandosi in India o in Nepal.
Chi ha scelto la morte desiderava qualcosa di diverso: libertà religiosa, il ritorno del loro leader spirituale, una maggior autonomia -in accordo con la "Via di Mezzo" promossa dal Dalai Lama- qualcuno più radicale, forse, l'indipendenza del Tibet. Richiese negate dal governo cinese visibilmente spaventato da un'alterità che avverte come una minaccia. Lo dimostra la politica draconiana adottata nei confronti degli uiguri, popolazione turcofona di religione islamica che vive prevalentemente nella provincia dello Xinjiang, all'estremo Ovest della Cina; per Pechino un'altra alterità da reprimere.
Il tentativo di far sentire i tibetani parte della Cina contemporanea è fallito. In un primo momento, il Partito comunista riuscì a convincere qualcuno presentandosi come alleato degli strati più poveri contro l'aristocrazia locale e la teocrazia dei Lama. Durante la Rivoluzione Culturale, la battaglia per abbattere la società feudale guidata dalle Guardie Rosse individuava nella lotta di classe il collante ideologico in grado di amalgamare le minoranze etniche al gruppo maggioritario Han, che costituisce oltre il 95% della popolazione cinese. Ma tutto questo non ha esercitato alcuna presa sulle entità aliene da "cinesizzare".
Oggi segni contraddittori evidenziano da una parte una crescente simpatia dei cinesi verso la causa tibetana (molte le conversione degli Han al lamaismo), dall'altra una forte componente nazionalista che avversa qualsiasi concessione territoriale. Allo stesso tempo aumentano le discrepanze tra i tibetani "cinesi" e i loro fratelli di Dharamsala, sempre più distanti per gusti e ambizioni, mentre lo sviluppo dei trasporti e delle telecomunicazioni finanziato da Pechino ha posto fine a centinaia di anni di isolamento, portando l'integrazione della regione himalayana nella Repubblica popolare a livelli mai riscontrati prima.
(Pubblicato su Ghigliottina.it)
(Da vedere su RaiNews24: Tibet- le morti illuminate)
Sono quasi 100 i tibetani che hanno scelto la via del suicidio per protestare contro il "genocidio culturale" messo in atto dal regime cinese, 81 soltanto nell'ultimo anno. Cinque delle auto-immolazioni sono avvenute nella prefettura di Huangnan, provincia del Qinghai, come riportato dall'agenzia di stampa locale il 27 dicembre.
"E' un momento particolarmente critico per il mantenimento della stabilità sociale nella prefettura di Huangnan" scandisce l'articolo "dobbiamo inasprire le misure e combattere fermamente la battaglia contro le auto-immolazioni", aumentando i pattugliamenti e "bloccando le informazioni dannose". Sempre secondo il rapporto, le aree agricole e pastorali della prefettura avrebbero fatto ricorso ad alcune attrezzature satellitari per "guardare e ascoltare programmi d'oltremare anti-Cina". Ragione per la quale il governo locale ha intenzione di investire 8,64 milioni di yuan (1,39 milioni di dollari) nell'istallazione di 50 trasmettitori che diffonderanno il 70% dei canali televisivi della prefettura. Le autorità, contattate telefonicamente dalla Reuters per una conferma, avrebbero detto di "non saperne nulla".
Il Partito comunista cinese le sta provando tutte: da punizioni per le famiglie dei manifestanti e promesse di ricompense economiche per chi fornisce informazioni utili a prevenire altri suicidi, ad una nuova ondata di arresti. Chiunque inciti i tibetani all'auto-immolazione sarà perseguito per omicidio intenzionale, ha sentenziato all'inizio di dicembre la corte suprema cinese, ripresa dal quotidiano statale Gannan Daily.
Ad agosto il monaco 40enne Lorang Konchok del monastero di Kirti, nella contea di Aba (provincia meridionale del Sichuan), e suo nipote Lorang Tesring sono finiti in manette con l'accusa di aver incitato altre persone a darsi fuoco. Come pare abbia confessato alla polizia Lorang Konchok stesso, i due avrebbero agito su istruzione di Tenzin Gyatso, il Dalai Lama, e dei suoi seguaci. La notizia dell'arresto è giunta soltanto lo scorso mese.
Il 13 dicembre è stata la volta di altri cinque tibetani della regione di Zeku, nella provincia cinese del Qinghai, mentre tempo prima otto alunni della scuola media di Gonghe sono stati condannati a cinque anni di prigione per aver partecipato ad una manifestazione contro il regime, scatenata dall'ennesima auto-immolazione. Nel tritacarne di Pechino finiscono senza eccezione attivisti, monaci, studenti e poeti schierati.
E' dal febbraio 2009 che una lunga scia di fuoco percorre le provincie cinesi del Gansu, Yunnan, Qinghai e Sichuan, tutte caratterizzate da una forte presenza tibetana. Il monaco di Kirti Tapey rimane l'unico caso per due anni, poi i numeri cominciano a salire rapidamente e le proteste si estendono oltre la Grande Muraglia. A marzo una torcia umana si accende in India. Il 27enne Jamphel Yeshi si dà fuoco a Nuova Delhi in concomitanza con la visita del presidente cinese uscente Hu Jintao, giunto nella città indiana per il quarto vertice dei BRICS. Poi lo scorso maggio le auto-immolazioni raggiungono per la prima volta Lhasa, capitale della Regione Autonoma del Tibet, fin dal 1750 direttamente o indirettamente controllata dalla Cina.
30 sono i suicidi tra novembre e dicembre 2012, di cui 4 soltanto il 7 dello scorso mese, vigilia del decennale ricambio al vertice sancito dal XVIII Congresso del Partito. In termini statistici si tratterebbe di un'auto-immolazione al giorno. A scegliere la morte per autocombustione sopratutto ragazzi sotto i trent'anni; 13 le donne. I loro nomi sono riportati in una lunga lista pubblicata sul sito di International Campaign for Tibet (ICT).
Spesso ci si chiede se le auto-immolazioni tibetane siano un rituale religioso o una protesta politica -scriveva a luglio sul Washington Post Lobsang Sangay, Primo Ministro del governo tibetano in esilio- senza capire che è a causa della negazione del diritto a mettere in atto forme di rimostranza meno estreme che i tibetani scelgono l'autocombustione. "Abbiamo più volte chiesto al nostro popolo di non ricorrere a gesti tanto drastici come le immolazioni, ma il fenomeno continua anche oggi" ha affermato il capo del governo di Dharamsala.
Sebbene il Paese delle Nevi sia soggetto a politiche repressive da diverse decadi, dopo la rivolta del 2008 il processo di sinizzazione forzata è stato esteso in maniera più massiccia in tutte le aree tibetane. La perdita della propria identità culturale è una vera minaccia per le provincie occidentali della Cina, nelle quali il governo di Pechino sta tentando di cancellare qualsiasi nicchia di "tibetanità".
Dal 1959, anno dell'occupazione politica e militare del Tibet da parte del Pcc, il Dalai Lama vive in esilio a Dharamsala, nel nord dell'India. Pechino si è annessa le aree tibetane nel 1950 portando avanti quella che definisce una "campagna antifeudale" con lo scopo di liberare il popolo tibetano dalla servitù della gleba, istituto giuridico al tempo in pieno vigore e ampiamente adottato anche all'interno dei monasteri. Una certa forma di autonomia, sancita da un accordo in 17 punti, è stata sconfessata da entrambe le parti dopo la grande rivolta anti-cinese del '59, repressa nel sangue dalle truppe di Pechino. Dopo la fuga in India di Tezin Gyatso e del suo governo, ha fatto seguito l'occupazione integrale del Tibet da parte della Cina con conseguente dichiarazione di illegalità del governo tibetano. E sebbene nel 2011 il Dalai Lama abbia rinunciato al suo doppio status politico e religioso, conservando esclusivamente il ruolo di guida spirituale, per Pechino questi non è altro che un "lupo travestito da agnello" e "Lhasa è la città più felice della Cina".
L'ammissione nel 1998 di aver ricevuto finanziamenti dalla CIA, che sostenne con tonnellate di armi la guerriglia contro l'invasione comunista, fa di Tezin Gyatso una Santità apparente, come tendono a rimarcare i suoi detrattori.
Con Tezin Gyatso ormai ultrasettantenne, il problema della successione si fa sempre più pressante. Secondo una legge varata dal governo cinese, le reincarnazioni dei Lama devono essere approvate dall'Ufficio per gli Affari Religiosi di Pechino. Con l'Ordinanza N°5 dell'ottobre 2007 il Pcc si è arrogato il diritto di nominare tutti i futuri "Buddha viventi". Il bambino scelto dagli emissari di Dharamsala quale reincarnazione del Panchen Lama, la seconda carica lamaistica più importante, fu arrestato all'età di sei anni e portato via dalle autorità cinesi nel 1995. Al suo posto il regime pose il proprio Panchen Lama: il figlio di influenti funzionari di Pechino nominato nel 2010 membro della Conferenza politica consultiva del popolo.
Una nuova leadership al potere
I controlli a tappeto, sopratutto in concomitanza con alcune date sensibili come l'anniversario della rivolta del 2008 e della fuga del Dalai Lama, tradiscono una malcelata irrequietudine. Nonostante il governo cinese si ostini a nascondere la testa sotto la sabbia, la questione delle auto-immolazioni continua a rappresentare per il gigante asiatico una dolorosa spina nel fianco. Nonché una pesante ipoteca sul futuro lasciate in eredità dalla vecchia amministrazione alla nuova leadership guidata da Xi Jinping.
Fu proprio Hu Jintao, divenuto nel 1988 segretario del partito della Regione Autonoma del Tibet, a decretare la legge marziale a Lhasa dopo le proteste dell''89. Nel corso degli anni, la repressione poliziesca è rimasta il modus operandi privilegiato dal presidente uscente nelle aree tibetane.
In un'intervista alla Reuters risalente ad alcuni mesi fa, il Dalai Lama aveva parlato di "segni incoraggianti" riferendosi ai nuovi "timonieri" che assumeranno ufficialmente le redini del Paese il prossimo marzo. Grandi attese sono riposte nella figura di Xi Jinping, figlio di Xi Zhongxun, combattente comunista di ispirazione liberale, noto per il suo approccio meno intransigente verso il Tibet.
Alla vigilia del nuovo anno, il premier Wen Jiabao si è recato per la terza volta nella prefettura autonoma di Yushu, nel Qinghai, colpita nel 2010 da un terremoto che ha fatto almeno 2.700 vittime. Qui Wen, che presto passerà il testimone a Li Keqiang, avrebbe incitato i monaci del posto a conservare la loro purezza e a "costruire un'immagine sociale positiva". Secondo molti, un ultimo gesto di umanità volta a trasmettere ai posteri l'immagine di primo ministro "vicino al popolo", obiettivo perseguito durante tutto il suo mandato.
Il fenomeno delle auto-immolazioni non è esattamente una novità in Cina. Circa dieci anni fa la setta della Falun Gong, che vanta circa 100 milioni di seguaci, aveva tentato di umiliare il regime con una serie di suicidi in piazza Tian'anmen, il centro politico di Pechino. Al tempo le immolazioni religiose infastidirono gran parte della popolazione, grazie anche alla campagna lanciata dal Partito per demonizzare il movimento. Oggi invece l'ondata di suicidi sembra aver accentuato la solidarietà tra i tibetani. Secondo fonti di Dharamsala, recenti manifestazioni in memoria dei martiri "nemici di Pechino" avrebbero visto la partecipazione di circa 6.000 persone (numeri ridimensionati a 4.000 da Radio Free Asia). Persino nella Repubblica popolare qualcuno ha cominciato a rompere il silenzio. Oltre all'artista-dissidente Ai Weiwei, l'avvocato democratico Xu Zhiyong, in un editoriale pubblicato alcune settimane fa sul New York Times, si è schierato a favore della causa tibetana definendosi dispiaciuto perché troppo a lungo i cinesi hanno taciuto mentre i fratelli tibetani muoiono per la libertà.
Ora ciò a cui si trova a dover far fronte Pechino (e in particolare il weiwen, l'apparato di sicurezza interna) è la rapidità con la quale le informazioni scorrono sul filo del web. Scambio di notizie tra il Tetto del Mondo e l'esterno -ma anche tra i tibetani sul posto- e foto di corpi avviluppati dalle fiamme rimbalzano sulla rete a poche ore dall'accaduto bucando la censura.
I panni sporchi si lavano in casa
Nel corso di un forum online con gli Usa, lo scorso ottobre l'ambasciatore americano Gary Locke ha chiesto ancora una volta a Pechino di riesaminare "le politiche che hanno condotto alle restrizione applicate ai tibetani". Proprio in quei giorni il numero uno della diplomazia Usa in Cina era stato immortalato in compagnia di un monaco nella prefettura di Aba, dove nel 2009 avvenne la prima autocombustione. Alla foto, finita sul New York Times, ha fatto seguito l'immancabile bacchettata di Pechino: "Ci opponiamo a qualsiasi tipo di ingerenza cinese negli affari interni cinesi", ha commentato Hong Lei, portavoce del ministero degli Esteri di Pechino.
Per il Partito la questione tibetana continua ad essere avvertita come un problema di sovranità territoriale e pertanto qualsivoglia riferimento ai diritti umani viene ritenuto inconsistente. Mentre a novembre nella capitale cinese si svolgeva il fatidico Congresso, il Dalai Lama volava in Giappone, storico nemico del Dragone, suscitando ancora una volta le ire del Pcc. "Traditore e strumento nelle mani della destra giapponese" è l'epiteto affibbiato a Tezin Gyatso dal quotidiano China Daily, a cui sono seguite le dichiarazioni ufficiali di Hong Lei che ancora una volta ne ha sottolineato la natura reazionaria. E se tra Sol Levante e Impero Celeste ci sono di mezzo le Diaoyu/Senkaku, le isole della discordia, la guida spirituale tibetana -secondo la stampa cinese- è una pedina manipolata da Tokyo per ottenere il sostegno internazionale nella controversia.
In passato le visite del Dalai Lama hanno fatto schizzare la colonnina di mercurio dei rapporti diplomatici tra Cina e diversi paesi occidentali quali Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna. Nel 2008 l'incontro tra Tezin Gyatso e l'allora presidente francese, Nicolas Sarkozy, mise a repentaglio il dialogo e la collaborazione tra Pechino e l'Unione Europea. L'indignazione del Dragone sfociò nella cancellazione unilaterale dell'undicesimo summit Cina-Ue.
Ma nonostante il pugno di ferro adottato dal Partito nelle aree tibetane abbia attirato le critiche dei governi democratici, sono in molti a lamentare l'insufficiente copertura delle auto-immolazioni da parte della stampa internazionale.
Dal 2008 tutto il Tibet geografico, non solo la Regione Autonoma, è chiuso ai giornalisti. Tempo fa Asia Sentinel ha definito le autocombustioni tibetane "un topic da social network", sui quali sempre più spesso circolano foto e video di corpi carbonizzati. Scarsa, invece, l'attenzione dimostrata dai media mainstream. Forse per mancanza di fonti dirette a causa dell'inaccessibilità di molte zone, forse per paura di pestare i piedi ad una superpotenza che, sebbene criticata quanto a diritti umani, rimane pur sempre un prezioso partner commerciale.
Fattori, questi, che non sembrano aver intimorito iSun Affairs, rivista investigativa con base ad Hong Kong gestita da giornalisti della mainland, la quale il 13 dicembre ha pubblicato un resoconto dettagliato delle auto-immolazioni, riportando la lista completa dei martiri. In copertina l'immagine di un ragazzo che avanza arso dalle fiamme.
Integrare o distruggere ogni alterità
Cosa accomuna tibetani, schiavi d'America e i fuggiaschi nordcoreani? Sicuramente il desiderio di libertà. Cosa li distingue? Un'argomentazione ben articolata di Francesco Sisci, comparsa su Asia Times alcuni mesi fa, fornisce diversi spunti di riflessione sull'argomento. I tibetani -si legge nell'editoriale- non sono liberi quanto i cittadini americani, ma sicuramente lo sono più di quanto non lo fossero gli schiavi dell'Alabama. Non vivono nel lusso, ma non patiscono nemmeno la fame come i nordcoreani. Non cedono alle lusinghe monetarie né cercano una vita migliore, obiettivo che potrebbero raggiungere senza troppe difficoltà oltrepassando il confine e rifugiandosi in India o in Nepal.
Chi ha scelto la morte desiderava qualcosa di diverso: libertà religiosa, il ritorno del loro leader spirituale, una maggior autonomia -in accordo con la "Via di Mezzo" promossa dal Dalai Lama- qualcuno più radicale, forse, l'indipendenza del Tibet. Richiese negate dal governo cinese visibilmente spaventato da un'alterità che avverte come una minaccia. Lo dimostra la politica draconiana adottata nei confronti degli uiguri, popolazione turcofona di religione islamica che vive prevalentemente nella provincia dello Xinjiang, all'estremo Ovest della Cina; per Pechino un'altra alterità da reprimere.
Il tentativo di far sentire i tibetani parte della Cina contemporanea è fallito. In un primo momento, il Partito comunista riuscì a convincere qualcuno presentandosi come alleato degli strati più poveri contro l'aristocrazia locale e la teocrazia dei Lama. Durante la Rivoluzione Culturale, la battaglia per abbattere la società feudale guidata dalle Guardie Rosse individuava nella lotta di classe il collante ideologico in grado di amalgamare le minoranze etniche al gruppo maggioritario Han, che costituisce oltre il 95% della popolazione cinese. Ma tutto questo non ha esercitato alcuna presa sulle entità aliene da "cinesizzare".
Oggi segni contraddittori evidenziano da una parte una crescente simpatia dei cinesi verso la causa tibetana (molte le conversione degli Han al lamaismo), dall'altra una forte componente nazionalista che avversa qualsiasi concessione territoriale. Allo stesso tempo aumentano le discrepanze tra i tibetani "cinesi" e i loro fratelli di Dharamsala, sempre più distanti per gusti e ambizioni, mentre lo sviluppo dei trasporti e delle telecomunicazioni finanziato da Pechino ha posto fine a centinaia di anni di isolamento, portando l'integrazione della regione himalayana nella Repubblica popolare a livelli mai riscontrati prima.
(Pubblicato su Ghigliottina.it)
(Da vedere su RaiNews24: Tibet- le morti illuminate)
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