mercoledì 30 gennaio 2013

In lotta da secoli


Sembra che per troppo tempo l'attenzione internazionale sia stata polarizzata sulla condizione femminile nel Medio Oriente, perdendo di vista cosa da secoli avviene nella "più grande democrazia del mondo": l'India. Forse se non fosse stato per lo stupro di gruppo che lo scorso 16 dicembre è costato la vita ad una ragazza di 23 anni, le proteste di New Delhi non avrebbero raggiunto con tanta "violenza" la stampa occidentale. Nell'ultimo mese e mezzo casi di soprusi ai danni di donne indiane si sono susseguiti senza interruzione; almeno quattro i più eclatanti avvenuti tra il 4 e il 28 dicembre. Secondo un sondaggio condotto da Thomson Reuters, l'India "è il quarto Paese più pericoloso" al mondo per le donne e il peggiore in cui vivere tra gli Stati membri del G20.
Ma è stato sempre così?

Pare che all'inizio dell'Era Vedica (1500-500 a.C.) fosse riconosciuta una certa parità dei sessi, quando -come riportano gli antichi grammatici Patanjali e Katayana- alle donne veniva concessa la possibilità di scegliersi un marito e di accedere agli studi.
Ma è già intorno al 500 a.C., con l'inizio del periodo medievale, che pratiche quali la sati, il matrimonio in tenera età e il divieto di risposarsi per le vedove divenne parte integrante della vita quotidiani di molte comunità. Nel V sec. a.C. l'inferiorità femminile venne codificata nella raccolta di leggi nota come "Il codice di Manu", che legava la donna dal momento della nascita a quello della morte prima al padre, poi al marito o ai figli maschi.

La conquista musulmana del subcontinente (durata dal XIII sec. al XVI sec.) portò nuovi valori di matrice islamica, creò sistemi giuridici e amministrativi differenti, andando a sostituire i codici comportamentali e culturali indigeni. La purdah -pratica che vieta agli uomini di vedere le donne attraverso la segregazione fisica di queste ultime o con l'obbligo di coprire i propri corpi al punto da nascondere la loro pelle e le loro forme- è un retaggio dell'età di mezzo, mentre la poligamia e l'usanza delle Devadasi (le "spose" delle divinità di un tempio, spesso sfruttate sessualmente) erano già piuttosto diffuse in diverse aree del Paese. Ma nonostante il regno della dinastia islamica Moghul (1526-1857) venga considerato tra i periodi più bui per le donne indiane, alcuni nomi femminili sono riusciti ad emergere nel panorama letterario, politico e religioso del tempo. Come nel caso delle principesse Jahanara e Zebunnissa, poetesse e consigliere sotto la regina e reggente Jijabai, madre del maharaja Shivaji (1627-1680).

Una prima rivalutazione della figura femminile è riscontrabile nel movimento Bhakti (traducibile come "devozione verso la divinità") che, pur rimanendo nel solco della tradizione induista, promosse in maniera aperta la giustizia sociale e la parità dei sessi, grazie al sostegno di alcune figure di spicco, tra le quali Mirabai, letterata e devota dell'epoca. Un impegno in tal senso fu assunto anche da alcuni guru nell'ambito del sikhismo, religione nata in India nel XV sec. Ma è soltanto con la colonizzazione inglese, nel XIX sec., che si ebbero i primi cambiamenti formali, con l'abolizione dell'infanticidio femminile e della sati, pratica che prevedeva l'immolazione delle vedove sulla pira del marito defunto. Contemporaneamente il riconoscimento legale dei diritti  di successione e delle secondo nozze diede il via a quello che viene comunemente considerata la prima fase del femminismo indiano.

Durante l'Impero Anglo-Indiano, alcuni riformisti si batterono per migliorare le condizioni delle donne. Nel 1847 a Barasat, sobborgo di Calcutta, fu istituita la prima scuola femminile, conosciuta più tardi con il nome di Kalikrishna Girls' School. L'istruzione e la formazione delle ragazze nel sud dell'India fu migliorata grazie all'intervento delle mogli dei missionari; Marta Mault néè Mead e sua figlia Eliza Caldwell née Mault vengono ricordate per essere state tra le prime ad aver sfidato le resistenze locale al fine di diffondere la scolarizzazione tra le donne. Ben presto però questi istituti, che pur garantendo una buona formazione di base finivano per inculcare precetti cristiani, si rivelarono una minaccia per l'integrità culturale della popolazione indiana. Inoltre la visione vittoriana della pubblica morale non fece altro che esacerbare il sistema delle caste, colpevolizzando alcune categorie della popolazione. Ragione per la quale proprio in questi anni nacquero movimenti di riforma sociale, in risposta all'esigenza di ostacolare la penetrazione devastante dell'imperialismo britannico nella spiritualità e nelle tradizioni locali.

Lo scopo di tali movimenti era principalmente quello di provare la compatibilità tra l'idea di progresso e la cultura indiana, non necessariamente sinonimo di arretratezza come volevano far credere i missionari europei. In questo fermento generale si inserisce il movimento per il diritto all'istruzione femminile che rese possibile una sempre più massiccia partecipazione delle donne alle questioni nazionali. Il ruolo della donna divenne luogo di negoziazione politica all'interno del dibattito tra autorità coloniali e intellettuali indiani. E se per alcuni riformisti l'avanzata del modello imperialista andava combattuta attraverso il ritorno alla tradizione -che implicava la riconsiderazione del ruolo della donna rimanendo, tuttavia, all'interno di una struttura rigidamente patriarcale- per altri era necessario un cambiamento più radicale, affinché la figura femminile venisse proiettata anche in ambito pubblico e istituzionale.

Una sensibilità tutta locale finì per caratterizzare il femminismo indiano, influenzato eppur ben distinto dal suo equivalente occidentale. Una prima differenza da sottolineare è come in India siano stati inizialmente gli uomini a portare alla luce le problematiche di genere. Soltanto all'inizio del XX secolo le donne indiane della classe media cominciarono a riunirsi in associazioni femminili lottando per il diritto di voto, ottenuto nel 1931, ancora in assenza di una costituzione laica, entrata in vigore poi nel 1949. All Indian Women's Conference e National Federation of Indian Women sono due tra le più note organizzazioni che hanno preso forma da questo nascente attivismo. La prima, strettamente collegata al Congresso Nazionale Indiano, continua ad operare tutt'oggi e conta oltre 100mila membri.

Nella resistenza al dominio britannico la donna fu investita di un nuovo ruolo politico, legittimato con la partecipazione nel movimenti gandhiano di disobbedienza civile. Tuttavia occorre ricordare come, nel pensiero di Gandhi, l'uguaglianza delle donne venisse inquadrata ancora in una visione sostanzialmente conservatrice. Per il Mahatma, la figura femminile doveva contribuire alla contestazione del colonialismo britannico attraverso il suo esempio di vita, facendo delle proprie virtù di "sofferenza" e "sacrificio" un modello di comportamento per tutti i nazionalisti. Ragione per la quale si è arrivati a parlare di "uguaglianza-nella-differenza", in quanto finalizzata piuttosto a rimarcare i ruoli specifici di ambo i sessi all'interno della società patriarcale e tradizionale locale. Tutt'altro che una riconfigurazione delle strutture sociali, insomma. Diverse le posizioni di Nehru (Primo Ministro dal 1947 al 1964) più sensibile al dibattito femminile europeo. Dopo un suo viaggio nel Vecchio Continente, durante il quale entrò in contatto con le suffragette inglesi, egli pose l'accento sulla necessità di riconoscere il diritto delle donne a godere di una certa indipendenza economica, mettendo in discussione il concetto di matrimonio come "professione".

Nonostante nel 1954 anche il Partito Comunista dell'India fondò una propria ala rosa, conosciuta come National Federation of Indian Women, dall'indipendenza dell'India (1947) in poi l'agenda femminista sembrò divenire sempre meno intensa. Nel 1955 fu proibita la poligamia e alcuni anni dopo toccò alla pratica della dote richiesta alla famiglia della sposa, sottoposta a maltrattamenti qualora inadempiente. Tuttavia, nel 1975 un rapporto commissionato dal governo indiano evidenziò come la condizione delle donne non fosse affatto migliorata dall'anno della liberazione dal dominio britannico. Tutt'oggi Amnesty International denuncia il persistere di discriminazione all'interno della mura di casa: concepire una figlia femmina spesso è ancora vista come una disgrazia da evitare ad ogni costo. Per questo motivo, nonostante la legge vieti di rivelare il sesso del nascituro durante le ecografie, il 99% degli aborti continua ad essere di feti femmina. Secondo la cultura del sud, dove una popolazione prevalentemente rurale necessita di braccia forti per il lavoro, tradizionalmente era la nonna paterna a prendersi l'incarico di avvelenare la neonata. Così che oggi in molti stati del subcontinente indiano vi è una netta sproporzione tra le nascite di maschi e femmine, a discapito delle ultime.

Come in Occidente, anche in India il femminismo non fu immune alle critiche. Nella sua forma per così dire più "mainstream", il movimento andava infatti a supportare le donne di religione induista e già privilegiate per nascita, mentre i ceti sociali inferiori rimanevano fondamentalmente esclusi dal dibattito dell'epoca. Ciò portò alla formazione di organizzazioni femministe per caste specifiche, come All India Dalit Women's Forum, l'associazione delle intoccabili, e per credo differenti come Awaaz-e-Niswaan (The Voice of Women), fondata nell'area a maggioranza musulmana di Mombai nel 1987.

La differente regolamentazione della comunità islamica e di quella induista per mezzo di codici civili indipendenti -al fine di non intralciarne le rispettive norme religiose- ha dato origine nel corso della storia a proteste e incomprensioni. Mentre l'induismo, che vanta un ricco pantheon di dei e dee, riconosce alla figura femminile un ruolo complementare a quella maschile, l'Islam è notoriamente meno permissivo nei confronti delle donne. Il polverone sollevato nel 1985 dal controverso caso di divorzio di Shah Bano, conclusosi con l'annullamento -per volere di Rajiv Gandhi (ex primo ministro ucciso nel '91)- della sentenza in suo favore emessa dalla Corte Suprema, portò alla luce del sole l'insofferenza della popolazione indù nei confronti della minoranza musulmana. La decisione di Rajiv, motivata da ragioni esclusivamente politiche, andava ad avvallare quanto stabilito dalla Sharia, il codice di prescrizioni etico-religiose e giuridiche dell'Islam: alla donna non fu concesso il mantenimento mensile da parte dell'ex marito, mentre la levata di scudi degli indù riaccese il dibattito sulla necessità di un "codice civile unificato".

Spesso le leggi delle specifiche religioni entrano in conflitto con quanto scritto nella Costituzione indiana, che in teoria considera la donna "la parte debole" della società, bisognosa di assistenza e protezione. Dal 1999 una commissione parlamentare si incarica di investigare e imporre alla magistratura maggior rigore, soprattutto a fronte del frequente coinvolgimento delle stesse forze dell'ordine in casi di stupri, estorsioni coniugali e uxoricidi. Ma nonostante tutto, come dimostra la cronaca recente, l'India continua a non essere un Paese per donne.

(Scritto per Uno sguardo al femminile)






6 commenti:

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