Dalle acque agitate del Mar Cinese Orientale alle coste dell’Indocina. L’agguerrita competizione tra Cina e Giappone cambia scenografia. Sedate le belligeranze sulla sovranità delle isole Diaoyu/Senkaku, la partita tra la seconda e la terza economia del mondo si gioca nel Sudest asiatico, crocevia di importanti rotte commerciali ed energetiche; anticamera di entrambi anche se della Cina un po’ di più. Ma stavolta le dispute territoriali non centrano.
Epicentro di un nuovo ‘Risiko in salsa di soia’ la Thailandia post-Shinawatra con le sue infrastrutture ferroviarie obsolete e la sua perenne fame di capitali stranieri. Qui Pechino e Tokyo stanno cercando di realizzare ciò che la State Railway Thailand -perennemente a corto di finanziamenti – non è stata ancora in grado di fare. In cantiere ci sono due linee ferroviarie in grado di agganciare il ‘Paese dei sorrisi’ ai vicini Birmania (Myanmar), Laos e Cambogia regalando alla penisola indocinese una connettività senza precedenti. Le tratte in questione sono la Bangkok-Kunming, che taglia la Thailandia da Nord a Sud e arriva nella Cina meridionale passando per Map Ta Phut (Laos), e la Dawei-Phnom Phen che parte dalla Birmania, tocca Bangkok raggiunge la capitale cambogiana e potrebbe in futuro proseguire fino a Ho Chi Min e Vaung Tau, Vietnam.
Note come North-South ed East-West, le due linee sono finanziate rispettivamente da capitali cinesi e giapponesi a interessi relativamente bassi: la prima, i cui lavori inizieranno il prossimo anno, dovrebbe essere pronta entro il 2020 per un costo di 12 miliardi di dollari soltanto per il tratto thailandese (734 chilometri), estendibile in futuro sino alle coste bagnate dall’Oceano Indiano in modo da creare una via alternativa più diretta che permetterebbe alle navi cargo cinesi di aggirare il volatile Stretto di Malacca. La seconda, di contro, è ancora in fase di studio, ma la costruzione risulta agevolata dalla conformazione del territorio prevalentemente pianeggiante che dovrebbe ridurre le spese. La sezione tra la Thailandia e la Birmania risulta particolarmente necessaria alla luce della ripresa dei lavori per la Dawei Special Economic Zone, la zona economica speciale -appoggiata da Tokyo- che, una volta completata, concorrerà a rendere quella dell’omonimo porto d’altura l’area industriale più grande del Sudest asiatico. In ballo non c’è soltanto l’integrazione economica e commerciale del ‘Paese dei sorrisi’. In un momento in cui le riforme democratiche vertono in una fase di stallo, per la giunta militare -salita al potere lo scorso anno con un colpo di Stato- si tratta di lasciare in eredità un risultato tangibile del proprio operato. L’impresa non è semplice. A ricordarlo la sfilza chilometrica di pilastri destinati a sostenere una ferrovia sopraelevata (mai ultimata) che avrebbe dovuto raggiungere il Don Muang International Airport. Lo chiamano ‘Thai Stonehenge’ ed è l’esempio più lampante delle promesse mai mantenute dai Governi succedutisi dagli anni ’90 a oggi.
Per la Cina il progetto ferroviario costituisce un importante tassello della 21st Century Martitme Silk Road, piano attraverso il quale Pechino punta a velocizzare gli scambi tra Asia ed Europa fortificando le infrastrutture locali. E’ con questo scopo che nasce l’AIIB (Asia Infrastructure Bank), diretta concorrente dell’istituto a guida giapponese ADB (Asian Development Bank), pensata appositamente per supportare finanziariamente lo sviluppo logistico della regione sotto il cappello cinese. Nel grande piano asiatico di Pechino, la Thailandia funge da anello di congiunzione tra la penisola malese e i vicini Laos, Cambogia e Vietnam. Motivo per cui l’establishment cinese ha provveduto ad annodare amichevoli relazioni con il nuovo Governo di Bangkok, come conferma un recente accordo per l’acquisto di riso e gomma, commodities particolarmente colpite dal calo dei prezzi dello scorso anno.
Dal punto di vista giapponese si tratta di mantenere viva la propria influenza nel Sudest asiatico, importante fucina del manifatturiero nipponico, evitando che esso ricada completamente sotto l’influsso cinese. La presenza del Sol Levante in Thailandia risale agli anni ’80-’90, quando Tokyo si incaricò delle spese per lo sviluppo delle infrastrutture locali. Sebbene non incolumi dall’inondazione che ha colpito il ‘Paese dei sorrisi’ nel 2011, oggi le società giapponesi -dal settore automobilistico all’elettronica- contano per due terzi degli investimenti stranieri in Thailandia, complice il ritiro delle attività dalla Cina in seguito dell’escalation delle dispute marittime tra Pechino e Tokyo. Lo scorso anno il Giappone ha investito nello Stato del Sudest asiatico la cifra record di 10 miliardi di dollari, secondo dati del Ministero delle Finanze giapponese. Ma le mire della terza economia mondiale sembrano gradualmente riposizionarsi verso mercati più convenienti: Laos, Vietnam e Cambogia forniscono un’alternativa a basso costo con cui rimpiazzare Thailandia e Cina, l’ormai ex ‘fabbrica del mondo’ sempre meno votata al low cost e sempre più all’high-end. In Thailandia, d’altro canto, gli stipendi sono lievitati del 40 per cento da quando due anni fa il salario minimo è cominciato a crescere, e sono parecchie le compagnie pronte a delocalizzare le attività labour-intensive nei Paesi limitrofi come appendici della filiera. “Abbiamo bisogno di ridurre le spese, ma allo stesso tempo di rimanere vicini alla Thailandia“, spiega al ‘Wall Street Journal’ Toshiko Watanabe, portavoce del fornitore di componentistica automotive Denso Corp.
Facendo leva sull’insofferenza diffusa nei confronti dell’assertività cinese nella regione, negli ultimi anni il Giappone è riuscito a estendere la propria influenza nell’area, utilizzando un modello di cooperazione basato sul trittico ‘aiuti, commercio e investimenti‘. Lo stesso sta facendo la Cina. Nel 2014 gli affari nipponici in Cambogia hanno raggiunto quota 127 milioni di dollari, un aumento di tre quarti rispetto al 2012, nonostante il netto vantaggio accumulato dal Dragone: tra il 2005 e il 2012 le società cinesi hanno investito nella terra degli Khmer dieci volte le concorrenti giapponesi, e quattro volte quanto sborsato dal Sol Levante in Laos, vecchio alleato comunista di Pechino bisognoso di liquidità. Qui il gigante asiatico ha interessi nelle miniere, centrali idroelettriche nell’agricoltura e, naturalmente, nel manifatturiero. Come potrebbe non averne dal momento che produrre in Laos costa un terzo che produrre oltre Muraglia!
In Birmania la volontà di affrancarsi dalla dipendenza cinese sta spingendo il nuovo Governo ‘civile’ tra le braccia di Giappone e Stati Uniti. A Tokyo si devono i fondi per lo sviluppo di una zona industriale a sud di Yangon, pensata per il settore dell’abbigliamento e l’industria automobilistica. Mentre l’Indonesia dovrà sciogliere le riserve entro l’anno riguardo alla realizzazione della ferrovia superveloce Jakarta-Bandung. Appena alcuni giorni fa, un memorandum d’intesa tra il Ministero delle Imprese statali indonesiano e la National Development and Reform Commission (l’agenzia cinese di pianificazione economica) ha riportato in gara Pechino, sebbene dal 2012 la Japan International Cooperation Agency sia alle prese con uno studio di fattibilità del progetto ormai in fase di rifinitura. Il tutto dopo un delicato corteggiamento che negli scorsi giorni ha portato il nuovo Presidente Joko Widodo a Tokyo, prima, e a Pechino, poi.
Ma è in Vietnam che il braccio di ferro tra i due cugini asiatici si fa più acceso. Con una popolazione complessiva di 150 milioni di abitanti e una crescita annua superiore al 6 per cento, Vietnam e Myanmar sono il vero traino dell’economia del Sudest asiatico. In particolare, il Vietnam vanta la crescita più rapida della classe media e benestante in tutta la regione, con buone possibilità che entro il 2020 il bacino di nuovi consumatori raggiunga le 33 milioni di unità dai 12 milioni del 2012. Da qui la strenua competizione tra il Dragone e il Sol Levante per rafforzare il proprio potere attrattivo nel Paese. Negli ultimi anni, il Giappone ha concesso ad Hanoi più prestiti che a qualsiasi altro Paese; 1,8 miliardi di dollari nel solo 2014 per l’ampliamento dell’aeroporto internazionale e la costruzione di un’autostrada. Pechino, da parte sua, ha guadagnato terreno sostenendo finanziariamente lo sviluppo di centrali a carbone, fino ai primi anni 2000 comparto dominato dalle compagnie europee, giapponesi e statunitensi. Alla Cina si deve un terzo dei 19.000 megawatts aggiunti alla rete vietnamita dal 2009. Tuttavia, la scarsa qualità dei servizi, i frequenti guasti e la tendenza delle società d’oltre Muraglia ad assumere personale cinese a discapito dei lavoratori locali alimentano ricorrenti espressioni di malcontento con spiccate coloriture nazionaliste. Specie dopo che lo scorso anno Pechino ha provveduto a parcheggiare temporaneamente una piattaforma petrolifera in acque contese, ricche di gas e risorse naturali.
Sfruttare sapientemente le proprie riserve valutarie potrebbe aiutare la Cina a cementare le relazioni con i vari attori regionali e dissipare i timori innescati dalla svolta muscolare intrapresa dalla nuova leadership cinese sullo scacchiere internazionale. Stando ad uno studio condotto dalla Japan International Cooperation Agency, nel 2013 Pechino ha concesso 7,1 miliardi di dollari in aiuti all’estero, la spesa più considerevole dopo quella di Gran Bretagna, Stati Uniti, Germania, Francia e Giappone. Numeri che parrebbero ormai rendere il Dragone uno dei principali benefattori dello sviluppo asiatico, grazie al disimpegno americano nella regione a favore di un maggior coinvolgimento in Pakistan e Afghanistan.
Al contempo, l’ascesa della Cina a potenza regionale implica una lenta metamorfosi nel modo di esercitare la propria assistenza ai Paesi vicini. Se al tempo della Guerra Fredda a guidare la spesa cinese all’estero era sopratutto l’affinità ideologica tra i membri del blocco comunista, col passare del tempo l’elargizione di sussidi è diventata uno strumento di diplomazia economica per puntellare la crescita nazionale e sopperire al bisogno di materie prime. Anche se l’appartenenza cinese alla cerchia dei ‘Paese in via di sviluppo’ viene tutt’oggi opportunamente sbandierata da Pechino per addolcire il saccheggio di risorse naturali, sopratutto in Africa e America Latina. Non a caso il gigante asiatico preferisce presentarsi all’esterno come ‘partner’ piuttosto che come ‘donor’, e vincola il proprio intervento oltreconfine al rispetto dei cinque principi di coesistenza pacifica. Cosa che gli riesce piuttosto bene nei Paesi CLMV (Cambogia, Laos, Myanmar e Vietnam) con i quali intrattiene relazioni virtuose da oltre duemila anni, un po’ meno con Stati marittimi quali Malaysia, Indonesia e Filippine di più giovane affiliazione alla galassia sinocentrica. Di contro, il Giappone ha cercato di sfruttare il bagaglio ideologico che lo distingue dal Dragone, proponendosi nella regione con il ruolo di esportatore di valori universali, diritti umani, innovazione e democrazia. Ma la superficialità dei rapporti economico-culturali con CLMV, inseriti in una strategia mirata soltanto al volgere del nuovo secolo -prima i CLMV venivano trattati in maniera generica nell’ambito dei rapporti diplomatici con l’ASEAN tutta- potrebbe remare a suo sfavore. Così come d’intralcio potrebbe essere l’immagine ripulita che la Cina vuole dare di sé promuovendo nel mondo ferrovie e tecnologia nucleare. Non più paccottiglia Made in China ma tecnologia a prova di standard internazionali.
“Mi trovo d’accordo con la studiosa americana Carol Lancaster nel ritenere che il sistema di aiuti cinesi sia per così dire ‘work in progress’. La Cina continuerà a migliorare imparando dai propri errori, proprio come i vari Paesi donatori del Development Assistance Committe e dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico hanno fatto durante i loro primi anni come fornitori di aiuti internazionali“, spiega a ‘L’Indro’ Dennis Trinidad, Professore di Economia politica internazionale presso la De La Salle University nonché autore di “China and Japan’s Economic Cooperation with the Southeast Asian Region“, “L’enfasi sulle ferrovie è dovuta a un aumento della domanda nel Sudest asiatico. La regione è progredita economicamente e lo sviluppo delle infrastrutture è diventato una priorità per i vari Governi locali. Ma si tratta di un cambiamento radicale? Io non penso. Gli aiuti cinesi sono ancora spesso concentrati su progetti infrastrutturali, che già nel 2009 contavano per il 61 per cento dei prestiti agevolati all’estero erogati da Pechino. Nel documento 2014 intitolato ‘China’s Foreign Aid’, pubblicato dall’Ufficio del Consiglio di Stato, si afferma, tra le altre cose, che la Cina continua ad aderire sempre agli stessi principi in materia di sussidi: non imposizione di condizioni politiche, non interferenza negli affari interni, e lasciare sviluppo autonomo ai Paesi beneficiari. Inoltre, la maggior parte degli aiuti cinesi rimane legata alle imprese statali. Anche se bisogna riconoscere che il campo di assistenza si è ampliato; ora include la cancellazione del debito e l’assistenza umanitaria in casi d’emergenza“.
(Pubblicato su L'Indro)
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