sabato 4 aprile 2015
L'AIIB per una nuova strategia multilaterale
Con le adesioni dell’ultimo minuto, salgono a oltre 40 gli aspiranti membri fondatori dell’AIIB (Asia Infrastructure Investment Bank), la superbanca promossa da Pechino con l’intento di sopperire al deficit infrastrutturale dell’Asia e promuovere una ‘democratizzazione’ dell’ordine economico internazionale secondo ‘caratteristiche cinesi’. Solo 31 i Paesi per ora ammessi ufficialmente, di cui una lista completa verrà rilasciata nei prossimi giorni. La Germania è già dentro.
Il progetto -preannunciato nell’ottobre del 2013 durante il tour del Presidente Xi Jinping nel Sudest asiatico- ha cominciato a prendere forma con un primo memorandum d’intesa sottoscritto da 21 Paesi lo scorso ottobre. Ma nuove adesioni si sono succedute sino al 31 marzo (deadline per i membri fondatori), inframmezzate dagli avvertimenti allarmistici di Washington sulla governance dell’istituto (quanto a standard qualitativi e sostenibilità dei progetti). Cui si aggiungono i timori per le presunte ambizioni dirigiste della Cina nella creazione di una nuova Bretton Woods a guida asiatica.
Da tempo Pechino rivendica un maggior peso nei grandi enti internazionali ritenuti poco rappresentativi dei Paesi emergenti, nuovo centro propulsore della crescita mondiale. Nel FMI (Fondo Monetario Internazionale), i diritti di voto di Stati Uniti, Giappone e Cina sono fissati rispettivamente a 16,75 per cento, 6,23 per cento e 3,81 per cento. Secondo riforme concordate nel 2010 e mai attuate, il Dragone dovrebbe poter raggiungere una quota di circa il 6 per cento, mentre il suo potere di voto nell’ ADB (Asian Development Bank) è ancora inferiore (5,4 per cento contro il 12,8 per cento del Giappone e il 12,7 per cento degli Stati Uniti). In questo contesto l’AIIB si propone come catalizzatore di un rinnovato sistema finanziario mondiale, con un occhio particolarmente attento al gap infrastrutturale che affligge i Paesi asiatici (si parla di 800 miliardi di dollari all’anno) ormai al di là delle capacità dei due istituti.
L’ipotesi di una rivoluzione degli equilibri globali, tessuti minuziosamente da Washington nell’arco di oltre mezzo secolo, ha innescato svariati campanelli d’allarme sull’altra sponda del Pacifico. Nonostante le pressioni esercitate dagli Stati Uniti per dissuadere le Nazioni amiche, negli ultimi giorni l’AIIB ha ricevuto il consenso dei più fidati alleati regionali di Washington (Giappone escluso), proprio mentre sull’isola cinese di Hainan andava in scena l’annuale Boao Forum, versione asiatica di Davos. Tema del vertice: ‘Il nuovo futuro dell’Asia; verso una comunità dal destino condiviso‘ (“Asia’s New Future: Toward a Community of Common Destiny”). Un punto, questo, sul quale la Cina di Xi Jinping ritorna regolarmente in presenza dei vari partner locali con l’intento non dichiarato di isolare ‘culturalmente‘ gli Stati Uniti.
Come fa notare Gideon Rachman sul ‘Financial Times’, se è vero che, davanti all’assertività cinese in acque e territori contesi, gli Stati Uniti continuano a ricoprire il ruolo di prezioso gendarme regionale (Giappone, Filippine, Australia e Corea del Sud hanno con gli States trattati di mutua difesa) è anche vero che le disponibilità finanziarie sono il vero asso nella manica del Dragone; immense riserve in valuta estera (oltre 3 trilioni) da impiegare per lo ‘sviluppo comune’ del continente e che dovrebbero andare a riempire il 65 per cento del Silk Road Fund, il fondo speciale da 40 miliardi di dollari con cui Pechino finanzierà l’altro grande progetto a base di infrastrutture di cui si è fatto promotore. Quello per una cintura economica tra Asia e Europa (‘Belt and Road’) in grado di riportare in vita le tratte commerciali dell’antica Via della Seta. Chi ha buona memoria ricorderà come -con buona pace dello ‘Zio Sam’- la Cina avesse già incassato un largo consenso in sede Apec per l’avvio di un piano di studio sul FTAAP (Free Trade Agreement for the Asia-Pacific), area di libero scambio più allargata e inclusiva della TTP statunitense da cui Cina e Russia sono escluse. Ogni vittoria cinese si traduce in un inciampo americano. Tanto più che stavolta a cedere alle lusinghe della seconda economia mondiale e della sua superbanca sono attori extra-regionali del calibro di Gran Bretagna, Germania, Italia e Francia. Così, mentre Pechino ribadisce a mezzo stampa le sue buone intenzioni (l’AIIB è «complementare -non in competizione- agli istituti già esistenti» e «farà tesoro dell’esperienza delle banche esistenti quanto a struttura di governance, politiche ambientali e di sicurezza sociale aggirando, al contempo, gli ostacoli esistenti al fine di ridurre i costi e migliorare l’efficienza») anche a Washington comincia a diffondersi l’impressione che la strategia dell’ostruzionismo si stia rivelando controproducente. Sul versante esterno, permane la sensazione che il ‘Pivot to Asia‘ di Obama sia eccessivamente declinato alla sicurezza; sul versante interno, si affacciano i dubbi di un’opinione pubblica dubbiosa davanti all’estromissione volontaria degli Usa da un progetto che coinvolge trasversalmente il pianeta.
La banca, con un capitale iniziale di 50 miliardi di dollari -per la maggior parte fornito dal Dragone-, avrà sede a Pechino, possibili filiali in altri Paesi, e sarà pronta entro la fine dell’anno. Pensata appositamente per l’Asia -continente che rappresenta ormai almeno un terzo dell’economia globale-, potrebbe in futuro ampliare lo spettro delle proprie operazioni oltre i confini regionali. Come fa notare Yun Sun, analista del Wilson Center, l’AIIB si presenta come una banca commerciale multilaterale piuttosto che un’agenzia di sviluppo. Vale a dire che oltre a finanziare i progetti infrastrutturali (facilmente soggetti a sprechi e corruzione) sarà anche tenuta a rimborsare i costi e ad assumersi maggiori rischi per risultare più competitiva degli enti concorrenti. Mentre permane la sensazione che esista uno scollamento tra le priorità dei leader cinesi (assicurare alti standard di qualità) e quelle dei vari gruppi d’interesse (servire l’agenda economica in funzione degli obiettivi strategici nazionali), con il rischio di discriminazioni nei confronti dei partner considerati meno amichevoli nei confronti del gigante asiatico.
Anni fa, la Cina e le sue varie agenzie, tra cui la China Development Bank e China ExIm Bank, hanno superato la Banca mondiale come principale finanziatore dei Paesi a medio reddito. Ma non certo per disinteressato altruismo. Nella maggior parte dei casi l’erogazione del credito è stata funzionale al raggiungimento di alleanze politiche secondo la formula ‘prestiti in cambio di risorse naturali’. Lo schema ha funzionato per anni. Ad Africa e America Latina serviva liquidità, al gigante asiatico occorrevano materie prime e mercati di sbocco per i propri prodotti. Fino a quando, sulla scia del calo dei prezzi delle commodity, l’insolvenza dei debitori è diventata più che una semplice eventualità. Stando agli esperti, il Venezuela -ricompensato da Pechino per le sue forniture di petrolio con totali 56,3 miliardi di dollari- ha il 90 per cento delle possibilità di incorrere in un default. Ed Ecuador e Argentina non stanno messi molto meglio.
Sebbene la mancanza di dati ufficiali lasci soltanto immaginare l’entità complessiva dei prestiti cinesi, secondo Fred Hochberg, Presidente della statunitense Export-Import Bank, tale cifra negli ultimi anni avrebbe toccato i 670 miliardi di dollari. Secondo stime più prudenti di Kevin Gallagher, Professore associato della Boston University, e Margaret Myers, Direttore del think tank Inter-American Dialogue, i prestiti concessi dalla Cina all’America Latina hanno raggiunto i 119 miliardi dal 2005 a oggi, con un aumento di 22 miliardi soltanto lo scorso anno, mentre il credito ai Paesi africani per il periodo 2000-2011 si aggirerebbe sui 53 miliardi. E’ così che si sta delineando l’esigenza di un approccio più istituzionalizzato attraverso l’utilizzo di piattaforme multilaterali (come l’AIIB e la New Development Bank, la banca dei Brics) in modo da suddividere oneri e rischi tra diversi attori. Senza contare che il rallentamento della crescita economica cinese -al livello più basso da 24 anni- fa sì che l’appetito del Dragone per le risorse naturali non sia più tale da giustificare coalizioni spericolate. Le esigenze della seconda economia del mondo sono cambiate: «Continuare a mettere le riserve valutarie estere in titoli del tesoro Usa non sta portando grandi ritorni, per cui utilizzarle per finanziarie infrastrutture sembra una situazione win-win che crea opportunità di business [oltreconfine] per le compagnie cinesi affette da sovracapacità in Patria», spiega al ‘Financial Times’ Brautigam.
C’è tutta una letteratura, meno nota, secondo la quale l’emarginazione della Cina negli istituti internazionali sarebbe stata volontariamente incoraggiata dalla Cina stessa. Non è un mistero che Pechino preferisca continuare a stazionare sul secondo gradino del podio, smarcandosi dalle responsabilità che spettano a una superpotenza. D’altronde, il placet concesso dall’Europa, -si dice barattato con la rinuncia del Dragone ad esercitare il potere di veto nell’AIIB- sarebbe il sintomo di una debolezza molto più reale che strumentale. Secondo Alan Beattie del ‘FT‘, estendendo l’invito ai Paesi occidentali nella nuova banca, il gigante asiatico riconosce di fatto la necessità di ottenere una legittimazione politica. Anche se questo implica la possibilità di pressioni e restrizioni sulle operazioni dell’istituto per via delle preoccupazioni diffuse riguardo alle pratiche disinvolte con cui Pechino gestisce diritti umani e questioni ambientali.
Tutto è cominciato con l’ingresso della Gran Bretagna, seguita nel giro di 72 ore da Francia, Germania e Italia. La partecipazione dell’Europa a un progetto asiatico secondo regole cinesi è cosa tutt’altro che scontata. Addirittura insensata, secondo François Godement, Senior Policy Fellow presso l’European Council on Foreign Relations, se si considera che “dal 1998 l’Asia (non solo la Cina) ha continuato ad accumulare riserve in valuta estera e gode di un tasso di crescita da far vergognare le economie europee“. Tirarsi indietro vorrebbe dire rinunciare a un posto nel grande disegno euroasiatico promosso da Pechino (la ‘Belt and Road’ di cui sopra). Fiondarsi a capofitto nel progetto, tuttavia, potrebbe non essere la scelta più giusta. Come ricorda Godement, tra il 1993 e il 1997 le banche del Vecchio Continente cercarono di arginare il calo dei profitti nel mercato domestico proponendosi come principali creditori della crescita asiatica. Ma finirono per rimetterci al sopraggiungere della crisi che travolse la regione alla fine degli anni ’90. Per Godement, sarebbe più logico sviluppare un fondo europeo per le infrastrutture sulla base del nuovo Juncker Fund, una sorta di EIIB da estendere a partecipazioni esterne, Cina inclusa. Il che però richiederebbe una coesione tra i 28 Stati membri al momento quasi inimmaginabile considerata l’accesa rivalità tra Londra, ex partner numero uno di Pechino, e Berlino, che ormai conta per il 40 per cento degli scambi tra la Cina e l’Unione europea (Ue).
“L’Ue potrebbe fare benissimo entrambe le cose: aderire all’AIIB e istituire una EIIB. Perché no?!“, ci dice Jiang Shixue, Vice Direttore dell’Istituto di Studi europei presso l’Accademia cinese delle Scienze sociali. “Purtroppo gli europei sembrano del tutto incapaci di mettersi d’accordo tra loro; sono solo in grado di competere uno contro l’altro e dividersi di fronte a soggetti esterni. La mancanza di ambizione per l’Europa, e la gara disdicevole di tutti contro tutti la dice lunga riguardo la mancanza di fiducia tra i membri chiave quando si tratta di interesse economico. E’ davvero uno spettacolo spiacevole.”
Più misurato il giudizio di Fredrik Erixon, Direttore dell’ European Centre for International Political Economy (ECIPE): “L’Unione europea non dovrebbe far parte dell’AIIB per il semplice fatto che l’Ue non è membro di nessuna banca di sviluppo locale al di fuori dell’Europa,” ci spiega, “non lo è nemmeno della Banca Mondiale. Né ha un budget da destinare a investimenti ‘extraeuropei’. Tuttavia è cosa ben diversa se i singoli Governi vogliono incanalare una piccola parte dei loro bilanci per gli aiuti attraverso il nuovo istituto“.
(Pubblicato su L'Indro)
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