lunedì 28 dicembre 2015
Cina: La lotta al terrorismo diventa legge
(Una traduzione integrale della nuova legge è disponibile in inglese su China Law Translate)
Domenica pomeriggio l'Assemblea Nazionale del Popolo, il "parlamento" cinese, ha approvato la tanto attesa legge sull'antiterrorismo, la prima di questo tipo in Cina, sebbene disposizioni in materia fossero già presenti nel diritto penale (Ciminal Law), nel codice di procedura penale (Criminal Procedure Law) e nella legge di risposta alle emergenze (Emergency Response Law). Sulla base della nuova norma, preannunciata nel novembre 2014, la Cina si doterà di un unico organo antiterrorismo che il Ministero della Sicurezza Pubblica ha dichiarato "avrà l'incarico di identificare le attività e gli elementi terroristici, e di coordinare le operazioni antiterrorismo a livello nazionale". Appena alcuni giorni fa, Pechino aveva nominato come suo primo zar nella "lotta al terrore" Liu Yuejin, ex assistente del ministro della Sicurezza Pubblica con oltre vent'anni di esperienza nella guerra al narcotraffico.
E' da alcuni anni che il gigante asiatico avverte l'incombente avanzata del terrorismo, specialmente nella regione autonoma musulmana dello Xinjiang, dove frizioni etniche tra l'etnia maggioritaria han e quella minoritaria turcofona degli uiguri si mescolano ad una progressiva radicalizzazione sull'onda del jihad globale. Sebbene la Repubblica popolare venga generalmente considerata una meta sicura, episodi violenti attribuiti dalle autorità ad elementi uiguri si sono verificati in diverse aree del Paese, arrivando persino a minacciare il cuore politico della Cina, piazza Tian'anmen, mentre alla vigilia di Natale le sedi diplomatiche estere avevano dato l'allerta citando generici rischi per la sicurezza degli stranieri a Sanlitun, il quartiere della movida pechinese. Uno scenario che sembrerebbe giustificare le misure restrittive adottate da Pechino, ma che gli osservatori internazionali considerano una degenerazione delle politiche etniche discriminanti adottate dalle autorità nei confronti della minoranza islamica.
Le incognite della legge antiterrorismo
Le critiche mosse da oltre Muraglia si imperniano su tre questioni principali: 1) la possibilità che il governo cinese metta mano su dati sensibili obbligando le aziende tecnologiche straniere a consegnare le chiavi di crittografia; 2) il rischio che l'accusa di terrorismo venga estesa arbitrariamente a qualsiasi espressione di malcontento nei confronti dell'establishment cinese; 3) il pericolo che il crescente controllo sui media cinesi e sul rilascio di notizie riguardanti attacchi terroristici alzi un muro tra il Dragone e il resto del mondo, moltiplicando i dubbi sull'inusuale escalation di violenza che sta travolgendo il Paese.
Nella bozza finale è stata rimossa la controversa l'articolo che, stando alla prima stesura della legge, avrebbe richiesto alle compagnie Internet e agli altri fornitori di tecnologia la consegna di codici crittografati e altri dati sensibili per un controllo ufficiale prima del loro utilizzo. E' stato, tuttavia, confermato l'obbligo per gli Internet provider e le aziende di telecomunicazioni di assicurare "supporto tecnico e assistenza, inclusa la decrittazione," qualora venga richiesto nell'ambito di indagini e nelle operazioni di prevenzione al terrorismo. La misura, già aspramente criticata da Barack Obama in un'intervista alla Reuters dello scorso marzo, pare sia stata recentemente argomento di discussione tra il presidente americano e il suo omologo cinese Xi Jinping. Da tempo Washington avverte che la legge, giunta nel mezzo di un'agguerrita campagna antitrust, rischia di minare ulteriormente il business delle aziende straniere in Cina, fornendo a Pechino l'accesso a informazioni commerciali e comunicazioni private, scoprendo così il fianco al furto di segreti tecnologici. Accuse, queste, che il governo cinese rispedisce al mittente ricordando che "molti Paesi, compresi gli Stati Uniti, hanno introdotto leggi che impongono alle aziende tecnologiche di cooperare nelle indagini e nella sorveglianza all'antiterrorismo". "Ma se è pratica comune quella di obbligare le società a combattere il terrorismo, tuttavia, gli Stati Uniti sono andati ben oltre nell'abuso del cosiddetto 'accesso backdoor' diventando maestri delle intercettazioni a livello mondiale", sentenzia l'agenzia di stampa statale Xinhua, alludendo tra le righe al caso Prism. Insomma, il gigante asiatico starebbe semplicemente applicando regole già largamente utilizzate dalla prima potenza mondiale.
L'altra accusa più ricorrente riguarda la nebulosità con cui Pechino bolla come "terrorismo" tutto ciò che mette in dubbio la propria legittimità e integrità nazionale (comprese le rivendicazioni autonomiste del Dalai Lama in Tibet). La bozza di legge definitiva chiama terrorismo "il sostegno e l'implementazione di azioni violente, di sabotaggio e minaccia così come altri mezzi finalizzati alla diffusione del panico sociale che mettono a rischio la sicurezza pubblica violando persone e proprietà, o facendo pressione sugli organi statali e le organizzazioni internazionali per ottenere obiettivi politici, ideologici e di altro genere." Una definizione che le organizzazioni per la difesa dei diritti umani paventano possa essere facilmente impugnata contro attivisti e minoranze religiose, con il pericolo concreto che dopo l'approvazione della legge sulla sicurezza nazionale (passata a luglio) e quella sulle Ong (ancora al vaglio), la nuova norma antiterrorismo fornisca un altro grimaldello nella stretta sulla società civile sotto i vessilli del "rule of law". Inoltre, secondo quanto riportato dalla Xinhua, su richiesta della Commissione Militare Centrale e con l'approvazione del Paese interessato, l'Esercito Popolare di Liberazione (PLA) potrà ora prendere parte a missioni antiterrorismo oltreconfine, aprendo la strada ad una maggiore partecipazione delle forze armate cinesi nella lotta globale contro il terrorismo. Iniziativa di per sé apprezzabile, ma che potrebbe assumere sfumature inquietanti se proiettata indiscriminatamente nel turbolento vicinato occidentale: il potere coercitivo di Pechino ha già portato alla firma di chiacchierati accordi di estradizione con alcuni Paesi dell'Asia Centrale, dimora di una consistente diaspora uigura e di recente scenario di controversi attacchi terroristici.
La scarsa trasparenza adottata dalla stampa cinese nel rilascio delle notizie non aiuta a fugare i sospetti che adombrano la nuova legge - sospetti che la Cina lamenta sfocino in una narrazione a "doppio standard". Oltre a vietare a "privati e istituzioni la fabbricazione e diffusione di informazioni riguardo incidenti terroristici costruiti, di report e dettagli di attività terroristiche che potrebbero condurre a emulazione, e della pubblicazione di scene di crudeltà e disumanità", le nuove misure prevedono che nessuno -eccetto i media outlet preventivamente autorizzati dalle autorità competenti- potrà diffondere online e offline informazioni su attacchi terroristici o sulla risposta delle autorità. Giusto sabato il Ministero degli Esteri ha confermato l'espulsione dal Paese della giornalista francese Ursula Gauthier, dopo che a inizio mese la corrispondente del magazine L'Obs era stata accusata di aver "criticato gli sforzi messi in atto dal governo contro il terrorismo e per aver calunniato e denigrato le politiche cinesi" nello Xinjiang in un articolo tutt'ora censurato oltre Muraglia. "La Cina non difenderà mai la libertà di sostenere il terrorismo", ha dichiarato il Ministero.
Nello specifico le misure introdotte prevedono:
- L'istituzione di una nuova agenzia antiterrorismo e un centro nazionale di intelligence. Verranno inoltre creati corpi professionali antiterrorismo.
- I fornitori di servizi internet e delle telecomunicazioni saranno tenuti ad assicurare "supporto tecnico e assistenza inclusa la decrittazione" nonché a "prevenire la circolazione di informazioni" sull'estremismo.
- La polizia potrà utilizzare direttamente le armi in "situazioni di emergenza", quando si trova a contrastare assalitori armati di pistole e coltelli.
- Le operazioni antiterrorismo potranno essere estese a missioni oltreconfine.
- Verrà introdotto il divieto della propagazione di informazioni riguardo ad attività terroristiche, e della fabbricazione di false notizie su presunti episodi di natura terroristica.
- Nessuno -eccetto i media outlet preventivamente autorizzati- potrà diffondere online e offline informazioni su attacchi terroristici o sulla risposta da parte delle autorità.
mercoledì 23 dicembre 2015
Shenzhen, una tragedia annunciata
[AGGIORNAMENTI
- 28 DICEMBRE: Si è tolto la vita lanciandosi da un palazzo Xu Yuanan, il direttore dello Shenzhen Guangming New District Urban Management Bureau, il dipartimento responsabile per l'approvazione della costruzione della discarica in cui si è consumata la tragedia. E' il secondo suicidio collegato ad un disastro in due giorni: nella giornata di domenica a scegliere la morte era stato il proprietario della miniera di gesso dello Shandong crollata la settimana scorsa intrappolando 17 minatori.
Nel frattempo sono saliti a 12 gli impiegati della Shenzhen Yixianglong finiti agli arresti.
- 26 DICEMBRE: Secondo quanto emerso dalle indagini avviate dal Consiglio di Stato, l'incidente di Shenzhen non è stato un disastro naturale, ma è piuttosto da imputarsi a violazione delle norme di sicurezza. Il pericolo di frane permane ancora in tre aree del parco industriale. "Ci sono anche sostanze chimiche che vanno identificate e trattate". La Shenzhen Yixianglong aveva ricevuto l'ordine di interrompere i lavori nella discarica quattro giorni prima della tragedia, mentre le attività presso il sito di raccolta dei rifiuti sarebbero dovute essere sospese 10 mesi fa. Si stima che in questo periodo di tempo la Yixianglong abbia guadagnato 7,5 milioni di yuan, 1,16 milioni di dollari.]
Mentre scriviamo, sono ancora almeno 76 le persone di cui non si hanno più tracce dopo la slavina di fango e materiale da costruzione che domenica scorsa ha travolto 33 edifici nel parco industriale di Hengtaiyu, nel nuovo distretto di Guangming, nella città cinese di Shenzhen. L'area interessata copre una superficie di 380.000 metri quadrati, pari a 53 campi da calcio (qui le riprese da un drone). Nella giornata di ieri una persona è stata tratta in salvo, mentre un secondo superstite, rinvenuto tra i detriti, è deceduto prima che venissero portate a termine le operazioni di salvataggio, in cui sono ancora coinvolti 4000 soccorritori. Due sono le vittime accertate.
La tragedia si è consumata in tipico stile cinese, portando in superficie le molte distorsioni emerse nel trentennio glorioso della crescita a due cifre, quando per pompare il Pil non si badava a standard di sicurezza, spremendo le risorse del territorio fino all'ultima goccia. Inquinamento rampante, terremoti e ricorrenti (evitabili) catastrofi è quanto questo modus operandi, oliato dalla corruzione, ha lasciato in eredità alla seconda economia del mondo. Come da retribuzione karmica, adesso a farne le spese è il simbolo del "miracolo cinese": Shenzhen, l'ex villaggio di pescatori riadattato a laboratorio per i primi esperimenti capitalistici, all'inizio degli anni '80.
Si tratta del quarto incidente su vasta scala ad aver interessato la Repubblica popolare da quando lo scorso anno diverse persone sono morte in una ressa, a Shanghai, la notte di Capodanno. Erano poi seguiti il ribaltamento di un'imbarcazione da crociera sul fiume Yangtze e l'esplosione di un magazzino di depositi chimici a Tianjin. In tutti e tre i casi è stato accertato l'errore umano, e sebbene a Shenzhen le indagini siano ancora in corso, secondo quanto riportato sul sito governativo di Guangming, la discarica -che necessitava miglioramenti a livello di sicurezza- sarebbe dovuta essere chiusa mesi fa. Come da copione, nella bufera mediatica si fanno strada le prime sanzioni: martedì pomeriggio la polizia ha arrestato il vicepresidente della Shenzhen Yixianglong Investment and Development, la società incaricata della gestione della discarica industriale e risultata in possesso di una licenza non in regola. Ma stavolta immolare il corrotto di turno potrebbe non bastare. Servono riforme strutturali.
La questione è particolarmente sensibile. Appena un paio di giorni fa si è conclusa la Central Urban Work Conference, secondo incontro al vertice di questo tipo da 37 anni a oggi dedicato interamente alla revisione del nuovo piano di urbanizzazione finalizzato a rendere le metropoli cinesi "più vivibili" entro il 2020. Non a caso, il comunicato rilasciato al termine della conferenza cita la sicurezza come requisito primario nella rivoluzione urbana con cui Pechino punta a distribuire la popolazione verso i centri di seconda e terza fascia. Al momento il 55 per cento dei cinese vive in città, ma meno del 40 per cento è in possesso del permesso di residenza (hukou) necessario per poter accedere ai servizi di base (sanità, lavoro, istruzione). Una riforma in cantiere mira a facilitare l'acquisizione dell'hukou per milioni di lavoratori migranti provenienti dalle campagne (mingong), una popolazione fluttuante che su scala nazionale ammonta a circa 170 milioni. Ecco che, nel suo piccolo, Shenzhen sintetizza in sé i dilemmi della Nuovissima Cina: la megalopoli del Sud conta 18 milioni di abitanti, di cui l'80 per cento composto da mingong senza regolare permesso di residenza. Secondo quanto riporta il New York Times, almeno 55 dei 76 dispersi nella frana provenivano proprio da province rurali e affollate, di cui 22 dallo Henan.
(Pubblicato su Gli Italiani)
sabato 19 dicembre 2015
Cybersovranità "con caratteristiche cinese"
E' terminata in un vortice di polemiche la World Internet Conference, incontro andato in scena nella cittadina cinese di Wuzhen (provincia del Zhejiang) dal 16 al 18 dicembre. L'evento, inaugurato da Pechino nel 2014 per discutere a livello internazionale il futuro del web, quest'anno ha attratto oltre 2000 partecipanti da più di 120 Paesi, tra cui otto leader stranieri, 50 funzionari di livello ministeriale e circa 600 nomi noti del mondo dell'imprenditoria online tra cui Microsoft, Facebook e altri giganti. Come spesso accade quando la Cina prende iniziative che riguardano il mondo dell'informazione e il rispetto delle libertà personali, non sono mancati commenti velenosi. Può il Paese con il sistema censorio più sofisticato al mondo dare lezioni di governance online? Sì, se si considerano i numeri: con 668 milioni di utenti, la Repubblica popolare è il primo mercato Internet al mondo. E se ad oggi, la web economy conta per il 7 per cento del Pil cinese, in futuro conterà anche di più come promette l'Internet Plus Plan, piano lanciato da Pechino lo scorso marzo che punta ad applicare le nuove tecnologie ai settori tradizionali. La risposta è no, tuttavia, se si considerano le dubbie modalità con cui il governo cinese punta ad estendere il "rule of law" sulla rete.
La Cina difende la propria sovranità sulla cybersfera
Come potenza emergente la Cina premerà per l'adozione di nuove regole nella cybersfera: parola di Lu Wei. Lo zar dell'Internet cinese ha chiuso la conferenza rinnovando il messaggio lanciato dal Presidente Xi Jinping in apertura: no ai doppi standard nel management del web. "Le norme che attualmente regolano il cyberspazio difficilmente riflettono i desideri e gli interessi della maggior parte dei Paesi," ha dichiarato Xi, "non dovrebbe esserci un'egemonia di Internet; nessuna interferenza negli affari degli altri Paese. Dobbiamo rispettare il diritto degli altri Paesi a partecipare pacificamente alla governance del cyberspazio internazionale, incluso il diritto a scegliere le proprie politiche pubbliche e a decidere come amministrare e sviluppare Internet".
Per Pechino, si sa, la sovranità è sacra. E non soltanto quando si parla di territori contesi. Da quando il caso Snowden ha rivelato il programma di spionaggio americano, il pericolo di un'ingerenza esterna da parte di Washington agita i sonni dei leader cinesi, mentre accuse incrociate di cyberspionaggio continuano a rimbalzare tra le due sponde del Pacifico. Non solo. Sotto la minaccia di attacchi terroristici (spesso coordinati in rete) e crescenti episodi di malcontento popolare, negli ultimi tempi le autorità cinesi hanno stretto il controllo su Internet, mentre è già stata adottata una legge sulla sicurezza nazionale che spazia dalla "sovranità sul web" ai "valori socialisti". Stando a quanto affermato da Xi Jinping, quel che adesso ci vuole è un trattato internazionale sul controterrorismo cibernetico.
Libertà e ordine
"I netizen cinesi devono avere il diritto di esprimere la propria opinione su Internet". A patto che questo non porti al rovesciamento dell'ordine costituito. E' il nocciolo del discorso con cui l'uomo forte di Pechino ha intrattenuto i presenti per circa 25 minuti. "La libertà è ciò a cui punta l'ordine e l'ordine è ciò che garantisce la libertà", ha sentenziato Xi, "dobbiamo rispettare il diritto degli utenti a scambiarsi opinioni e a esprimere i propri pensieri. Dobbiamo inoltre stabilire un ordine nel cyberspazio che sia in accordo con le leggi. Questo ci permetterà di proteggere i diritti e gli interessi legittimi degli utenti". Insomma, l'azione del governo è necessaria affinché venga mantenuto un "comportamento civile" in rete, ha concluso il presidente.
L'"ossimoro" è evidente. Nelle stesse ore in cui l'intervento di Xi veniva trasmesso live su Twitter e Youtube (entrambi servizi inaccessibili in Cina senza un VPN), la stampa internazionale era ancora intenta a coprire il caso di Pu Zhiqiang, avvocato per la difesa dei diritti umani processato lunedì per sette post critici nei confronti del governo cinese. Mentre l'endorsement del padre del colosso dell'e-commerce Alibaba, Jack Ma, (letteralmente: "Se non applichiamo una governance sistematica allo sviluppo di Internet il genere umano dovrà far fronte a una grande sfida") ha riacceso i riflettori sul legame insidioso che unisce business e politica oltre la Muraglia. Alibaba ha appena concluso un accordo controverso per l'acquisto del South China Morning Post, giornale noto in passato per le sue inchieste ma recentemente sospettato di adottare un approccio filo-Pechino. Portando ad esempio l'affermazione di player cinesi, quali Baidu e Tencent, il CEO di Alibaba ha affermato che i regolamenti (leggi: la censura) non hanno ostacolato lo sviluppo e l'innovazione del settore in Cina. Anzi. Gli esperti sono piuttosto concordi nel ritenere che il rigore adottato sul web cinese sia da leggersi in chiave protezionistica, ovvero come disincentivo all'affermazione delle multinazionali straniere nel primo mercato Internet al mondo. Quanto, invece, tale rigore riuscirà ancora a fungere da filtro dei malumori popolari, è tutto da vedere. Secondo Jimmy Wales, cofondatore di Wikipedia (bloccata in Cina), lo sviluppo di programmi di traduzione automatica, in futuro, renderà il controllo dei governi sul flusso delle informazioni in rete quasi impossibile. Un messaggio ripreso sul sito ufficiale della World Internet Conference tipicamente "armonizzato" alla maniera cinese.
(Pubblicato su Gli Italiani)
martedì 15 dicembre 2015
Pu Zhiqiang alla sbarra
(AGGIORNAMENTI
22 DICEMBRE: Pu Zhiqiang è stato condannato a tre anni di carcere con sospensione della pena. Questo vuol dire che l'avvocato probabilmente non potrà più esercitare la professione, ma che non tornerà più in carcere.
18 DICEMBRE: Secondo Amnesty International, quattro attivisti sono stati arrestati per aver preso parte ai raduni fuori dal tribunale in cui si stava svolgendo il processo a Pu Zhiqiang)
Dimagrito e visibilmente invecchiato. Così è apparso Pu Zhiqiang il giorno del processo che, dopo 19 mesi di detenzione, lo ha visto rispondere alle accuse di "incitamento all'odio etnico" e "turbamento dell'ordine pubblico" attraverso la piattaforma di microblogging Weibo.
Pu, uno dei più noti avvocati per la difesa dei diritti umani in Cina, era stato arrestato nel maggio 2014 dopo aver preso parte alle commemorazioni informali per il 25esimo anniversario del massacro di piazza Tian'anmen, una ricorrenza sensibile che ha coinciso con un'ondata di fermi nel mondo della dissidenza cinese. Il tempismo sembra confermare la natura politica del caso, tutto incentrato su sette post pubblicati tra il 2011 e il 2014 di cui il minimo comune denominatore consiste nel tono denigratorio nei confronti del Partito. Quattro sono relativi all'accusa di "incitamento all'odio etnico" gli altri tre a quella di "turbamento dell'ordine pubblico", un reato che alla fine del 2013 è stato esteso anche all'attivismo online. Stando a quanto riferito lunedì alla stampa dal suo legale Shang Baojun, l'avvocato ha ammesso di aver utilizzato un linguaggio "affilato, pungente e talvolta volgare", ma ha negato di aver cercato di fomentare l'odio interetnico.
Accuse costruite ad hoc
Che le imputazioni scricchiolino parrebbe saperlo bene anche Pechino: secondo quanto riporta Quartz, al momento dell'arresto le accuse (poi lasciate cadere) comprendevano anche "l'incitamento al separatismo e "l'ottenimento illegale di informazioni personali", mentre i commenti incriminanti all'inizio sarebbero stati ben 30. Inoltre, i tempi estremamente dilatati tra il fermo e il processo sembrerebbero confermare il tentennamento delle alte cariche davanti a un caso osservato da vicino anche all'estero. Secondo quanto raccontato al Guardian dal sinologo americano, Perry Link, in mancanza di prove, per mesi le autorità avrebbero tentato invano di dare solidità alle accuse portando allo scoperto nuovi reati, come la promiscuità sessuale, la corruzione o l'evasione fiscale; un escamotage sempre più diffuso, in Cina, per mettere tacere personaggi scomodi. E Pu, che in passato ha difeso l'archistar Ai Weiwei e si è battuto per la chiusura dei campi di rieducazioni (laojiao), rientra a pieno nella categoria. Sulla base delle accuse a suo carico, l'avvocato rischia fino a otto anni di carcere. L'annuncio della sentenza è atteso per i prossimi giorni.
Processo e tafferugli
Al termine dell'udienza, tenutasi lunedì mattina a Pechino presso la seconda corte intermedia del popolo, Shang Baojun ha affermato che l'aula era piena, ma che l'unica persona che è stato in grado di identificare è la moglie di Pu, Meng Qu. Sono invece rimasti fuori i molti simpatizzanti che con striscioni e slogan hanno sostenuto l'innocenza dell'avvocato prendendosi anche qualche spintone da parte di agenti in borghese con il volto coperto da mascherine anti-smog. La stessa sorte è toccata ai giornalisti e diplomatici presenti, tra cui l'americano Dan Biers, che stava intrattenendo i reporter con un discorso di condanna sul trattamento riservato a Pu. I tafferugli con le forze dell'ordine hanno spinto il Club dei Corrispondenti stranieri in Cina a rilasciare un comunicato molto critico: "Questi sforzi mirati a prevenire la copertura mediatica [del processo] sono una grave violazione delle norme cinesi sui corrispondenti stranieri", si legge nel rapporto. La giornalista della Reuters Sui-Lee Wee ha definito le angherie della polizia fuori dal tribunale come le peggiori sperimentate in cinque anni, e fa specie che si verifichino in un momento in cui Pechino preme per una narrazione più "oggettiva" del Paese di Mezzo sulla stampa internazionale.
Riforma del sistema giudiziario e giro di vite
Il processo di Pu "fa parte di un giro di vite contro la società civile ed è chiaramente collegato al suo impegno nella difesa della libertà di parola e alle sue accuse contro il governo" ha affermato al South China Morning Post Eva Pils, esperta di legge cinese presso il King's College di Londra. Ammontano a circa 940 gli attivisti presi in custodia nel solo 2014, mentre oltre 100 persone, tra dissidenti e avvocati, sono finite in manette nell'arco di un unico weekend lo scorso luglio. Alcune di queste in seguito sono state rilasciate, ma circa una ventina sono ancora dietro le sbarre.
Il caso di Pu arriva dopo la condanna a quattro anni di carcere di Xu Zhiyong, l'avvocato leader del "movimento dei nuovi cittadini" falcidiato negli ultimi due anni da numerosi arresti. Il gigante asiatico è nel pieno di un processo di restyling del suo sistema giudiziario, percepito all'estero come ciò che più si avvicina ad una riforma politica "con caratteristiche cinesi". Tuttavia, nonostante le dichiarazioni d'intenti, i progressi fatti finora (in primis l'abolizione del laojiao) non soddisfano le organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani. Appena alcuni giorni fa, il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura ha chiesto a Pechino di mettere fine al crescente ricorso a metodi violenti nelle prigioni, come promesso dalla dirigenza alla fine del terzo plenum del Partito nel novembre 2013.
Schizofrenia "con caratteristiche cinese"
Eppure la Cina che arresta Pu e Xu è quella stessa Cina che di recente ha restituito il passaporto ad Ai Weiwei (dopo 4 anni!) e si è rivelata magnanima nei confronti di Gao Yu, giornalista accusata ad aprile di aver "diffuso segreti di stato" alla stampa. Il mese scorso la donna si è vista ridurre la pena da sette a cinque anni, pena che peraltro sconterà ai domiciliari a causa delle precarie condizioni di salute. E' una schizofrenia tutta cinese o c'è una spiegazione logica al vortice di segnali discordanti lanciati da Pechino? Spesso si dice che interpretare le segrete alchimie distillate nei palazzi del potere in piazza Tian'anmen sia un po' come leggere le foglie del tè. Non è insensato ipotizzare che a frenare le riforme siano motivazioni di ordine interno: il Partito -tutt'altro che monolitico come ci insegna la lunga sequela di purghe eccellenti- non è coeso sulla strada da intraprendere: qualcuno spinge per un'apertura in senso liberale/liberista, qualcun'altro teme che tale apertura possa tradursi nell'erosione dei propri privilegi, già minati dalla campagna anticorruzione rilanciata dal presidente Xi Jinping appena assunto l'incarico. Ipotesi numero due: la leadership si sente minacciata. Da cosa? Da Tian'anmen in poi, l'armonia sociale è diventata un chiodo fisso per il Partito-Stato. Per circa vent'anni un tacito accordo tra establishment e cittadini ha assicurato benessere in cambio di stabilità. Ma ora che l'economia rallenta, il sistema finanziario vacilla e l'inquinamento ambientale non accenna a diminuire, il livello di tolleranza della pancia del Paese rischia di abbassarsi. Quel che meno serve a Pechino è che un pugno di attivisti risvegli l'assopita coscienza civile. Se poi questi attivisti hanno anche contatti all'estero allora scatta l'allarme rosso. La metafora è quantomai pertinente dal momento che ad agitare i sonni del Dragone sono proprio le "rivoluzioni colorate" finanziate da oltreconfine (forse qualcuno ricorderà le accuse ad una presunta intromissione americana e britannica nelle proteste democratiche di Hong Kong). A conti fatti, possiamo soltanto immaginare cosa sia frullato per la testa dei leader cinesi davanti alla nutrita presenza straniera al processo di Pu Zhiqiang.
Quale degli scenari ipotizzati rispecchi davvero la realtà lo sanno soltanto a Zhongnanhai. L'unica cosa certa è che non è trincerandosi dietro una nuova "Grande Muraglia" che la Cina otterrà la fiducia del resto del mondo coronando il suo sogno di grande potenza. Men che meno vi riuscirà imbavagliando le voci del dissenso.
Quale degli scenari ipotizzati rispecchi davvero la realtà lo sanno soltanto a Zhongnanhai. L'unica cosa certa è che non è trincerandosi dietro una nuova "Grande Muraglia" che la Cina otterrà la fiducia del resto del mondo coronando il suo sogno di grande potenza. Men che meno vi riuscirà imbavagliando le voci del dissenso.
(Pubblicato su Gli Italiani)
venerdì 11 dicembre 2015
La Cina invecchia
L'invecchiamento della popolazione e il calo del tasso di fertilità, entro il 2040, costeranno all'Asia Orientale una riduzione del 15 per cento della forza lavoro. E' quanto è emerso da un rapporto della World Bank pubblicato mercoledì scorso, secondo il quale il 35 per cento della popolazione mondiale over 65 risiede proprio in Estremo Oriente; un numero che oggi equivale a 211 milioni di persone e che è destinato a salire, mettendo a dura prova il welfare locale. Infatti, a differenza della maggior parte dei Paesi OECD (Organization for Economic Co-operation and Development -che invecchiano e si arricchiscono gradualmente- in Asia Orientale l'aumento dell'età procede ad un ritmo più rapido rispetto all'aumento del reddito pro capite. "L'Asia Pacifico sta vivendo la transazione demografica più brusca finora mai riscontrata, e tutte le nazioni in via di sviluppo della regione rischiano di diventare vecchie prima che riescano a diventare ricche", ha dichiarato a CNBC Axel van Trotsenburg, vice presidente della World Bank per l'Asia Orientale-Pacifico.
Le due variabili, di base, sono strettamente connesse: l'invecchiamento varia a seconda del livello di sviluppo di un paese. In nazioni ricche come Giappone, Corea del Sud e Singapore gli over 65 contano già per oltre il 14 per cento della popolazione locale. Ma a risentire maggiormente del fenomeno saranno quei paesi a reddito medio come Cina, Thailandia e Vietnam, dove il governo ha investito poco nell'assistenza agli anziani affidandosi alla "pietà filiale" dei più giovani, secondo quanto previsto dalla tradizione confuciana. Uno scenario a tinte fosche per la locomotiva cinese ormai in piena frenata. Nei primi tre trimestri dell'anno, l'economia del Dragone è cresciuta del 6,9 per cento, il ritmo più lento da sei anni, in parte a causa della perdita del tradizionale vantaggio competitivo derivante dal basso costo della produzione (il continuo innalzamento dei salari ha già spinto diverse compagnie verso lidi più low cost), in parte proprio a causa dell'assottigliamento della manodopera.
Stando alla World Bank, il 10 per cento della popolazione cinese ha un'età superiore ai 65 anni, contro una media mondiale del 7 per cento. Addirittura statistiche indipendenti raccolte nel "2015 Report on China's Large and Medium-Sized Cities Employee Pension Reserve Index" pongono il gigante asiatico in cima alla lista globale con 212 milioni di "anziani", pari al 15,5 per cento della popolazione complessiva (più di Giappone, Corea del Sud e Singapore). Quanto questo influirà realmente sull'economia nazionale è, però, tutto da vedere.
Da un paio d'anni Pechino sta cercando di modificare il proprio paradigma di crescita spostando il focus dalla quantità alla qualità. Vale a dire che a trainare l'economia cinese non sarà più il lavoro intensivo ma la produttività. Come sottolinea Philip O'Keefe, economista della World Bank, nonostante la riduzione delle risorse umane sfruttabili, oggi la forza lavoro cinese è più istruita e la tendenza al risparmio che ha caratterizzato l'ultimo ventennio (quello del "miracolo cinese" e dei tassi di crescita a due cifre) è riuscita ad arginare l'impatto dell'invecchiamento demografico sull'economia. Quanto al futuro, Pechino ha già in cantiere un paio di manovre ad hoc.
Lo scorso mese, il Quinto Plenum del Partito Comunista si è chiuso con l'annuncio delle linee guida del XIII Piano Quinquennale che, una volta approvate durante l'annuale riunione parlamentare di marzo, indirizzerà lo sviluppo economico della Repubblica popolare per il prossimo quinquennio. Tra le misure annunciate, spiccano la revoca della politica del figlio unico (introdotta alla fine degli anni '70) e la promessa di una riforma del sistema pensionistico. La politica delle nascite era già stata rilassata nel 2013, quando era stata concessa la possibilità di avere due bambini a quelle coppie in cui entrambi i genitori fossero figli unici. Con la nuova revisione, in teoria, tale diritto viene esteso a tutte le coppie senza distinzione; in pratica, però, resta da appurare quante saranno effettivamente in grado di usufruirne. Il crescente costo della vita e il crollo del tasso di fertilità, secondo gli esperti, farebbero escludere la possibilità di un "baby boom" in un prossimo futuro.
L'altra novità interessa più direttamente il problema invecchiamento. Al momento, in Cina, vige un sistema pensionistico estremamente frammentario: i dipendenti delle imprese urbane hanno un certo trattamento, i residenti urbani e rurali ne hanno un altro. Come scriveva tempo fa il New York Times, "i lavoratori migranti nelle città, che contano più di 200 milioni di unità, che vogliono ritornare dal sistema urbano al loro precedente sistema della città natale, quindi rurale, incontrano molte difficoltà o addirittura perdono il denaro versato nel loro fondo pensionistico urbano, anche se una prima revisione delle regole nel 2014 ha cercato di migliorare questa situazione." Quello che si pensa di fare adesso è creare un unico sistema unificato a livello nazionale ed, eventualmente, alzare l'età pensionabile oggi a 50-55 anni per le donne e 55-60 anni per gli uomini. Mentre il tesoretto accumulato dalle grandi aziende di Stato andrà a rabboccare il fondo pensionistico che altrimenti, secondo recenti stime, rischierebbe di ritrovarsi sotto di 1,21 trilioni di yuan entro il 2019.
Di rimbalzo, con il welfare a prendersi cura di loro, i cinesi potranno utilizzare i loro risparmi in maniera più fruttuosa, andando a carburare il nuovo modello di crescita promosso dalla leadership: un modello più sostenibile basato sui consumi interni (quindi sulla spesa dei cittadini), non più cronicamente dipendente da export e investimenti statali.
(Pubblicato su Gli Italiani)
lunedì 7 dicembre 2015
Xi Jinping vola in Africa
Il tempismo è quanto mai azzeccato. L'Africa rientra a pieno titolo nella One Belt One Road (alias nuova via della seta), progetto che prevede la realizzazione di iniziative di natura prevalentemente commerciale (ma non solo) dall'Asia Orientale all'Europa, passando per le coste del Kenya, e che giunge provvidenzialmente in un momento di rallentamento della crescita cinese. Nei piani di Pechino, la corsa alla realizzazioni di infrastrutture -vera anima dell'OBOR- dovrebbe aiutare la Cina a trasferire parte della propria capacità industriale in eccesso verso gli altri Paesi coinvolti. E l'Africa, con i suoi trasporti obsoleti, è in prima linea. La strategia è di tipo "win-win": la Cina ha bisogno dell'Africa e "i Paesi africani hanno bisogno dell'aiuto della Cina per lo sviluppo delle proprie risorse" ha dichiarato il presidente sudafricano Jacob Zuma, che ha copresieduto il summit insieme a Xi.
Dal 2009, la Cina è il primo partner commerciale del continente con 222 miliardi di merci e servizi scambiati lo scorso anno; cifra che dovrebbe salire a 300 miliardi entro fine 2015. E sebbene Pechino tenga segreti i dettagli della sua spesa all'estero, si stima che al momento ammontino a 2500 i progetti cinesi dislocati nei 51 Paesi africani, per un valore complessivo di 94 miliardi di dollari.
Nell'arco dell'ultimo decennio, 29,97 miliardi di dollari (il 41% del totale degli investimenti cinesi in Africa) sono andati in energia, mentre il settore dei trasporti si è assicurato 81,1 miliardi (circa il 49% del valore complessivo dei contratti nel settore delle costruzioni). Ma ora l'idillio rischia di essere interrotto dal crollo globale dei prezzi delle commodity che, nei primi tre trimestri del 2015, ha causato una ripida discesa del commercio sino-africano del 18% annuo, mentre gli investimenti cinesi nel continente hanno registrato una flessione del 40% quest'anno, (qualcuno parla addirittura di un 84%). Un trend negativo che evidenzia l'eccessivo sbilanciamento delle relazioni bilaterali verso il settore delle materie prime. Negli ultimi due lustri, la crescita africana è stata sospinta dalla vendita di petrolio, minerali ferrosi, legno e rame. Ma adesso che, per dare nuovo carburante alla propria economia, Pechino sta cercando di passare da un modello di crescita trainato dagli investimenti a uno orientato verso i consumi interni, è facilmente prevedibile una progressiva differenziazione dello shopping cinese all'estero.
"Pivot to Africa" e critiche
La disinvoltura con cui Pechino intrattiene rapporti commerciali con tutti e senza filtri etici, ovvero indipendentemente dal fatto che si tratti di autocrazie o governi democratici, è motivo di frequenti critiche in Occidente. Da alcune recenti statistiche è emerso che i leader cinesi preferiscono relazionarsi con regimi corrotti, più inclini a fare affidamento su modalità di finanziamento controverse, come nel caso dell'"Angola model"che, prevedendo sovvenzioni in cambio di risorse, viene da molti accostato ad una forma di neocolonialismo finalizzato allo sfruttamento corsaro del territorio. Lo stesso rapporto evidenzia che parte dei prestiti erogati finisce in realtà per essere utilizzata per pagare le compagnie cinesi incaricate di realizzare i progetti, assicurando così a Pechino un notevole controllo sui fondi. Gli effetti sono difficilmente calcolabili, ma non è insensato ipotizzare che la realpolitik dei finanziamenti rischi di lasciare ai governi più dispotici un ampio margine di manovra. Secondo una ricerca della University of Sussex, le regioni d'origine dei vari leader africani, durante il periodo del loro incarico, hanno ricevuto fondi per un ammontare quattro volte superiore rispetto a quello destinato ad altre aree del Paese. Addirittura si ipotizza una connessione tra una cattiva distribuzione degli aiuti cinesi a livello locale e l'impennare di episodi violenti in alcuni Stati africani.
Ad ogni modo, è bene notare che la paternale arriva da governi non senza macchia. "In the race for Africa, India and China aren’t all that different" titolava Quartz nei giorni in cui il premier indiano Narendra Modi era intento a strappare assegni nel corso dell'India-Africa Summit. E se è vero che nell'assegnazione degli ODA (official development assistance) Pechino privilegia gli Stati africani da cui riceve supporto all'interno dell'Assemblea generale dell'Onu, è altrettanto vero che gli Stati Uniti tendono a fare lo stesso.
Cosa ne pensano i diretti interessati? Xi Jinping "Sta facendo per noi quello che avrebbero dovuto fare quelli che ci hanno colonizzati. È un uomo mandato da Dio": parola di Robert Mugabe, presidente dello Zimbawe.
Dall'economia alla politica
Secondo gli osservatori, la visita di Xi ha ufficializzato una svolta nelle priorità cinesi in Africa, sempre più di natura politico-strategica, sempre meno puramente economiche, come si addice ad una superpotenza. Qualcuno ha evidenziato l'utilizzo insolito da parte di Xi del termine "compagni e fratelli" per descrivere i rapporti tra Pechino e Pretoria, a sottolineare quella comune ambizione al raggiungimento di un ordine mondiale multipolare. Che sul piano ideologico si traduce in una messa in discussione del ruolo egemonico dei valori occidentali, con toni talvolta grotteschi. "Ora insieme con la Cina combatteremo per la realizzazione di una vera democrazia negli Stati Uniti" ha affermato il dittatore dello Zimbawe Mugabe, stando alla South African Government News Agency. Per chi non lo sapesse, lo scorso ottobre Mugabe era stato insignito del Premio Confucio, la versione cinese del Nobel per la pace. Prima di raggiungere Johannesburg, la scorsa settimana, Xi aveva trascorso alcune ore in Zimbawe, divenendo il primo presidente cinese a visitare il Paese dai tempi di Jiang Zemin (1996). Qui sono stati conclusi 12 accordi in comparti strategici quali energia e telecomunicazioni, per un valore di circa 4 miliardi di dollari.
Geopolitica e sicurezza
Se, da una parte, la scelta di inglobare l'Africa nella nuova via della seta parrebbe aver motivazioni economico-strategiche, dall'altra il recente attivismo cinese nel continente è riconducibile anche a esigenze di sicurezza. Alcuni giorni fa, tre dirigenti della China Railway Construction Corp hanno perso la vita nell'attentato al Radisson Hotel di Bamako, in Mali. Durante il suo discorso all'Assemblea generale dell'Onu, lo scorso novembre, Xi ha promesso che la Cina contribuirà con 8000 truppe alle operazioni internazionali di peacekeeping e, nei prossimi 5 anni, destinerà all'Unione Africana 100 milioni per il mantenimento della pace. Mentre risale ad alcuni giorni fa la conferma dell'apertura della prima base militare permanente cinese in Africa, a Gibuti, nel Golfo di Aden, dove il Dragone è già attivo nell'ambito di missioni antipirateria.
Da tempo gli analisti avanzano dubbi sulla natura dei progetti marittimi portati avanti da Pechino tra il Mar Cinese Meridionale e il Mar Rosso (basi logistiche, secondo la retorica governativa; avamposti militari ascrivibili ad una strategia nota come "filo di perle", secondo i più maliziosi). L'annuncio dell'accordo con Gibuti -dove sono già militarmente presenti anche Stati Uniti, Francia e Giappone- non ha fatto altro che gettare ulteriore benzina sul fuoco. Alle critiche di quanti intravedono nell'ultima mossa la pistola fumante di una crescente assertività cinese sullo scacchiere globale, il China Daily ha risposto così: "Un crescendo della retorica sulla minaccia cinese” non ci impedirà "di tutelare i nostri interessi legittimi, nel quadro del diritto internazionale. Allora il nostro esercito avrà un'ulteriore opportunità per dimostrare il suo impegno per la pace e che le sue capacità si combinano con la buona volontà". Che ci crediate o meno.
(Pubblicato su Gli Italiani)
(GUARDA L'INFOGRAFICA SUL SOUTH CHINA MORNING POST)
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