Ci risiamo. Un'altra storia di Google, censura governativa, “rumors” e blog incriminati. Questa volta però, a sorpresa, la location non è la solita Cina- che con il colosso di Mountain View ha notoriamente trascorsi burrascosi- bensì l'India, il gigante asiatico n°2, considerato da molti la più grande democrazia del mondo. Il copione d'altra parte è assai noto, basterebbe giusto sostituire qualche numero e un paio di nomi. La nostra storia potrebbe grosso modo cominciare così: “C'era una volta un sovrano dispotico e autoritario (Delhi/Pechino) che teneva a bada i suoi sudditi (cittadini) con il pugno di ferro e combatteva chiunque lo ostacolasse (Internet/media) a colpi di censura...”
India, 5 dicembre. Le agenzie di sicurezza governative inondano Google -che nel paese si stima conti 121 milioni di utenti- con richieste di rimozione di tutti quei contenuti responsabili di mettere in cattiva luce i leader politici, mentre il ministro delle Comunicazioni e dell'Information Technology, Kapil Sibal, propone un filtraggio a tappeto di tutto il materiale online. Circa sei settimane fa, proprio Sibal aveva convocato nel suo studio di Nuova Delhi i rappresentanti legali dei principali provider di Internet e Facebook, a causa di alcune malignità comparse su una pagina del social network di Zuckerberg, le quali avevano come oggetto niente meno che il presidente del Partito del Congresso Indiano, Sonia Ghandi. “Una cosa inaccettabile”- come dichiarato dal ministro delle telecomunicazioni- che mette in luce la necessità di monitorare in maniera sistematica tutto il materiale, ancora prima che venga caricato sul web, attraverso un lavoro di pre-screening.
Poi lunedì scorso un secondo incontro con gli executives dei colossi della rete ha ribadito l'intenzione del governo di stringere ulteriormente la mordacchia. Sibal -secondo le indiscrezioni messe in circolazione da due anonimi funzionari di alcune compagnie di Internet- avrebbe proposto la creazione di un apposito corpo di vigilanza della rete, incaricato di segnalare manualmente, piuttosto che attraverso strumenti più tecnologici come filtri di parole sensibili, i contenuti ritenuti denigranti o diffamatori.(link)
La notizia, riportata dal New York Times il 5 dicembre, è rimbalzata sulla stampa nazionale, sollevando un polverone mediatico di proprozioni gigantesche. La storia è stata fomentata ancora di più dall'evidente cronicità della situazione, la quale ha indotto i media locali a puntare i riflettori su quella che è ormai una prassi da tempo consolidata: le autorità pressano regolarmente i fornitori dei servizi Internet -Google, Microsft, Yahoo e Facebook- perchè venga occultato qualsiasi contenuto possa risultare “offensivo” agli occhi dei politici.
La conferma è giunta proprio dai dati rilasciati dal motore di ricerca Usa. Un rapporto pubblicato di recente sul sito di Google dimostra che, tra giugno e luglio dello scorso anno, sono state recapitate 282 richieste di censura ai danni di piattaforme online, e il mittente è sempre lo stesso: la polizia indiana. Nei sei mesi successivi le pressioni si sono ulteriormente intensificate in seguito all'ordine di eliminare 236 profili e community dal social network Orkut, perchè “critici nei confronti di un politico locale.” Il tentativo di monitoraggio del web si è fatto più serrato tra gennaio e giugno 2011, come dimostrano le pretese avanzate dal governo indiano di ottenere i dati personali di 2.439 utenti; mille in più rispetto ai precedenti sei mesi.
Il Rapporto sulla trasparenza compilato dal colosso di Mountain View evidenzia 142 richieste di censura inoltrate dalle forze dell'ordine indiane, nella seconda metà del 2009. “La maggior parte delle richieste verte su contenuti ritenuti diffamatori”, spiega il rapporto. Ma la smentita delle autorità non si è fatta attendere. “Noi non ci occupiamo di controllare i contenuti politici” ha dichiarato Damayanti Sen, vice-commissario della polizia di Calcutta, “ci sono delle organizzazioni apposite per questo. Interveniamo sui provider di Internet solo nel caso in cui arrivino reclami e specifiche segnalazioni di attività criminali”.
Ma, come scrive The Times of India, queste lamentele, dopo aver raggiunto in passato proporzioni allarmanti, sono progressivamente scomparse; almeno nella regione nord-orientale del Bengala. Nel 2007 Buddhadeb Bhattacharjee, membro del Politburo del Partito Comunista Indiano e del Parlamento del Bengala Occidentale, vantava non meno di tre profili fasulli su Orkut, prontamente rimossi da Google in seguito alle richieste della polizia.
Ciò su cui, però, le autorità hanno preferito glissare è il fatto che le pressioni esercitate da Delhi sul noto motore di ricerca statunitense, negli ultimi tempi, sono aumentate a livello esponenziale. Tra gennaio e giugno di quest'anno è stata richiesta la chiusura di 236 community e 19 blog di Ortuk, al fine di contenere le critiche in chiave anti-governativa circolanti sul web, mentre sarebbero in totale soltanto 19 i siti finiti nel mirino per la diffusione di materiale pornografico o per l'appropriazione di false identità.
Ma Mountain View sembra averne abbastanza. Il Rapporto sulla trasparenza ha evidenziato che mentre nel 2009 il 77% del materiale segnalato dalle autorità è stato "diligentemente" sottoposto a censura, nella seconda metà del 2010 Google ha ritenuto opportuno far calare la scure solo sul 22%. “Gran parte dei contenuti- ha dichiarato un portavoce della società- non violavano le norme comunitarie né le leggi locali”.
Intanto nella comunità virtuale timore e malcontento la fanno da padroni, mentre comincia a farsi strada un'inquietante domanda: "Ci stiamo forse avviando verso una democrazia made in China?" sembrano ormai chiedersi in molti.
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