venerdì 28 settembre 2012
Espulso Bo Xilai, "armoniosamente" verso il XVIII Congresso
Radio Radicale intervista Beniamino Natale, corrispondente da Pechino per l'Ansa, su espulsione Bo Xilai e prossimo Congresso.
Mai distrarsi. E' un imperativo categorico quando si tenta di seguire gli sviluppi della politica cinese. Ed è così che, a distanza di pochi istanti, l'agenzia di stampa statale Xinhua, venerdì pomeriggio, ha soddisfatto le attese generali dando in pasto all'opinione pubblica due delle notizie più attese da mesi. Ora si sa con certezza che il Diciottesimo Congresso del Pcc, oggetto di pronostici più o meno fantasiosi, si terrà l'8 novembre prossimo (link), sancendo la fine del decennio targato Hu Jintao-Wen Jiabao e traghettando il potere nelle mani dei leader della quinta generazione.
E si sa, inoltre, che nel rinnovato Comitato permanente del Politburo, il gotha cinese, non comparirà sicuramente Bo Xilai, l'ex boss di Chongqing, oggi ufficialmente espulso dal Partito e da ogni incarico pubblico, sul quale ricadono accuse di corruzione, abuso di potere e "di aver intrattenuto relazioni sessuali improprie con numerose donne". Il comunicato della Xinhua non risparmia sulle parole e dichiara che le azioni di Bo "hanno creato gravi ripercussioni, danneggiando enormemente la reputazione del Partito e dello Stato." Per quanto riguarda le sue implicazione nel caso dell'omicidio dell'uomo d'affari britannico Heywood -per il quale la moglie Gu Kailai il 20 agosto è stata condannata alla pena di morte con due anni di sospensione (commutata in ergastolo in caso di buona condotta)- Bo avrebbe abusato dei propri poteri, commettendo gravi errori, pertanto su di lui ricade una "grande responsabilità". A ciò bisogna aggiungere "violazioni della disciplina del Partito" di cui si sarebbe macchiato ai tempi in cui era sindaco di Dalian, nel Liaoning (1992-2000), Ministro del Commercio (2002-2007) e capo del partito di Chongqing (2007-2011), nonché altri crimini non specificati, i cui indizi sono stati portati alla luce durante le indagini. L'Ufficio Politico del Comitato Centrale del Pcc -fa sapere l'agenzia di stampa statale- ha deciso di passare la gestione del caso alle autorità giudiziarie. E secondo le indiscrezioni lasciate trapelare dal sito di citizen journalism Boxun, poche ore prima che la Xinhua rivelasse al mondo le sue sorti, per Bo la giustizia ha in serbo almeno 20 anni di carcere.
Il processo che vedrà alla sbarra l'ex astro nascente della politica cinese -la cui data non è stata ancora resa nota- arriva in coda alla lunga serie di procedimenti penali che hanno visto cadere tutti i principali attori del Chongqing Drama. Da Gu Kailai al superpoliziotto ex-braccio destro di Bo, Wang Lijun, condannato la scorsa settimana a 15 anni di reclusione per diserzione, corruzione, abuso di potere e manipolazione della legge per fini personali. Proprio Wang lo scorso 6 febbraio aveva dato il via all'affaire Bo Xilai con una clamorosa fuga verso il consolato Usa di Chengdu, presso il quale avrebbe richiesto asilo politico temendo per la propria vita in seguito al giro di vite scatenato da Bo contro i propri rivali. Wang, sino al 2 febbraio capo della Pubblica Sicurezza di Chongqing, dopo aver in un primo momento depistato le indagini sull'omicidio di Heywood, avrebbe poi tentato di consegnare le prove conservate ai funzionari americani. Soltanto la settimana scorsa, presso la corte popolare di Chengdu, ha rivelato per la prima volta le implicazioni del suo ex padrino politico nell'insabbiamento del delitto, segnandone il destino. (link)
Ma se la versione ufficiale dell'assassinio di Heywood per una disputa economica non ha mai convinto a pieno (con una Gu Kailai, instabile mentalmente, rea confessa, madre protettiva verso un figlio "minacciato" dalla vittima, e condannata in 7 ore durante un processo definito da molti una farsa), i sospetti nelle ultime ore si sono fatti più concreti. Gu Kailai non avrebbe ucciso Heywood con il cianuro. E' quanto dichiarato sul suo blog da Wang Xuemei, medico legale della Procura Suprema cinese, la quale si è detta "addolorata, sconvolta e spaventata" al pensiero che la Corte abbia potuto avallare la tesi secondo cui Heywood è stato avvelenato con il cianuro". Resoconti ufficiali lacunosi, prove scientifiche inconsistenti, ma c'è una registrazione che inchioda la Dama Nera di Cina; una telefonata nella quale Gu confessa al superpoliziotto di aver ucciso il businessman. Secondo Wang Xuemei, l'ex braccio destro di Bo Xilai potrebbe aver manipolato la donna, mentalmente instabile, per farle fare ciò che voleva. Più probabile il tentativo di avvelenamento da parte di Gu con qualche sostanza meno tossica, in dosi non sufficienti ad uccidere, e l'intervento di qualcun'altro a stroncare la vittima soffocandola. Comunque sia, la sentenza emessa dal tribunale di Hefei ha indignato talmente il medico legale da averla spinta a richiedere il trasferimento d'ufficio. (Anche altri nutrono dubbi sul verdetto, leggi intervista a Steve Tsang).
Ma i dubbi, probabilmente rimarranno dubbi e con oggi lo scandalo più sensazionale da quando a gettare ombre su Pechino furono gli eventi di piazza Tian'anmen, sembra essere giunto al suo epilogo, spianando la strada ad una transizione del potere più "armoniosa". Le mele marce sono state eliminate (un panegirico sulla battaglia contro la corruzione portata a avanti dal Pcc riempie metà del comunicato ufficiale), e badate bene -avverte la Xinhua- "il processo a carico di Bo Xilai non deve essere letto come il sintomo di una lotta politica" interna al Partito. Anche se Bo Xilai, era un "principe rosso" con velleità neomaoiste, anche se Bo Xilai era il leader ambizioso dell'Ultrasinistra, anche se Bo Xilai a Hu Jintao e Wen Jiabao, si sa, non era mai piaciuto.
La caduta dall'Olimpo del "Nuovo Mao" conferma che "Non importa quanto una persona sia in alto, quanto sia influente. Chiunque violi la disciplina del Partito e le leggi dello Stato verrà severamente punito" commenta il megafono del Politburo cinese "in qualità di alto funzionario Bo Xilai avrebbe dovuto essere un modello di obbedienza alle regole del Partito, ma invece ha monopolizzato il potere , si è comportato incautamente facendo ciò che voleva e commettendo gravi violazioni".
Eppure, il corrotto e vizioso "principino" sembra avere dalla sua ancora un nutrito gruppo di seguaci, le cui voci si sono compattate nel torrente di commenti a sua difesa pubblicati su Weibo e Red China, sito web di estrema sinistra. Tanto per ricordare ancora una volta che "tra i diseredati sociali, gli intellettuali radicali e forse anche tra le fila dell'esercito e del Partito, Bo ha ancora sostegno" spiega Lai Hongyi, docente di studi cinesi contemporanei presso l'Università di Nottingham. Quegli stessi che nei giorni scorsi hanno issato la bandiera del nazionalismo, rispolverando ritratti di Mao per protestare contro l'acquisto giapponese delle isole Diaoyu.
giovedì 27 settembre 2012
Multa confermata ad Ai Weiwei. L'archistar: "non pagherò"
Ai Weiwei la pagherà cara. Esattamente 15,52 milioni di yuan (circa 1,8 milioni di euro). E' quanto ha stabilito questa mattina la seconda corte intermedia di Pechino alla quale il famoso artista-dissidente cinese, accusato di evasione fiscale, aveva già fatto ricorso in appello mesi fa. Il tribunale ha preso la sua decisione senza tenere un'audizione e contattando l'archistar senza il necessario preavviso, come raccontato dal suo legale Liu Xiaoyuan. "Dopo il primo appello abbiamo presentato al giudice ulteriori elementi di prova. Secondo il regolamento, ci sarebbe dovuta essere un'altra udienza, ma non c'è stata" ha spiegato Liu. "La legge prevede che venga inoltrata una comunicazione ufficiale scritta tre giorni prima del verdetto, ma soltanto ieri sera abbiamo ricevuto una telefonata del giudice nella quale ci veniva detto che oggi si sarebbe tenuta un'udienza".
Parole di sconforto quelle dell'artista, conosciuto per essere una delle voci più provocatorie della Cina e pertanto inviso al governo: "Ho raggiunto una maggior consapevolezza ora che sono vulnerabile come tutte le altre persone comuni di questo paese" ha commentato Ai, definendosi "esaurito". "Sapevamo che si trattava di una battaglia persa in partenza- combattendo noi come privati cittadini contro il sistema legale- ma è molto frustrante riscontrare un comportamento così arbitrario in tutta la trattazione del caso". E ancora: "noi abbiamo fatto una gran fatica a trovare le prove che documentassero l'attività finanziaria della nostra azienda, ma il giudice non ha, in realtà, mostrato alcuna prova concreta per stabilire la nostra condanna. Stanno violando apertamente la legge infrangendo i diritti di base dei contribuenti e ignorando richieste legittime".
Ma l'artista non molla e fa sapere che non pagherà la multa, preannunciando un lungo braccio di ferro con le autorità. "Non abbiamo intenzione di pagare la multa perché non riconosciamo le accuse" ha commentato Ai in giornata. Il novembre scorso circa 30.000 fan avevano sostenuto la sua sfida legale donando 9 milioni di yuan, cifra che gli diede la possibilità di versare metà della somma richiesta e continuare la sua battaglia. (link)
Ai Weiwei, la cui fama ha raggiunto proporzioni mondiali grazie al suo contributo nella progettazione dello stadio "Nido d'uccello", si trova da oltre un anno sottoposto a libertà vigilata, con il divieto di lasciare la Cina. Scomparso all'inizio dell'aprile 2011, dopo essere stato preso in custodia dalla polizia mentre era in partenza per Hong Kong, è stato sottoposto a 81 giorni di detenzione extra-giudiziaria. In seguito al rilascio ha dovuto fare i conti con severe restrizioni: vietato rilasciare dichiarazioni ai media o twittare informazioni sulla sua detenzione oltre al controllo di mail e telefono.
Da oltre un anno la sua società, la Fake Cultural Development Ltd., è in lotta con l'agenzia delle entrate di Pechino, dalla quale è stata accusata di evasione fiscale e di aver "distrutto intenzionalmente i documenti contabili". Ma sono in molti ad inquadrare l'accanimento delle autorità cinesi contro l'archistar nel più ampio giro di vite scatenato dal Partito lo scorso anno, in seguito alla tiepida "rivolta dei gelsomini" made in China. Nel 2008 Ai aveva suscitato le ire del governo a causa di un' inchiesta-istallazione sulla morte dei 5 mila bambini rimasti vittime nel crollo delle scuole durante il terremoto del Sichuan. Una disgrazia della quale sarebbe stata complice la scarsa qualità dei materiali utilizzati nelle costruzioni.
martedì 25 settembre 2012
Libertà di stampa con "caratteristiche cinesi"
Aspettando il 18esimo Congresso del Partito
“Questi dieci anni con l’Oriental Daily sono stati i più preziosi della mia vita, mi hanno dato tutta la tristezza e la felicità, tutti i sogni. Ho sofferto e sopportato ogni cosa per inseguire un sogno. E ora che quel sogno è morto ho deciso di andarmene. Fate attenzione fratelli!” Con queste poche parole Jian Guangzhou, uno dei giornalisti investigativi più famosi della Cina ha messo un punto alla sua carriera di reporter. Un tweet su Sina Weibo, piattaforma di microblogging in salsa di soia, rivela la frustrazione e la disperazione dietro alla sua scelta. Un addio al mondo del giornalismo che giunge a quattro anni dall’inchiesta che lo portò sulla cresta dell’onda.
L’11 settembre 2008 l’ex penna dell’Oriental Daily, una delle testate più liberali d’oltre muraglia con base a Shanghai, aveva fatto luce sullo scandalo del latte in polvere alla melamina e sulle conseguenze disastrose che tale sostanza aveva avuto sulla salute di circa 40.000 bambini cinesi. Nel mirino di Jian finirono la Sanlu così come molti altri grandi marchi dell’industria del latte, non solo scatenando un terremoto nel settore caseario ma finendo anche, inesorabilmente, per gettare ulteriori ombre sulla sicurezza alimentare nel Paese di Mezzo.
L’addio dell’audace giornalista, non a caso ribattezzato “la coscienza della Cina“, è giunta dopo il sospetto licenziamento di altri due pilastri dell’Oriental Daily, messi alla porta lo scorso 18 luglio per motivi non specificati. Si vocifera che le autorità non abbiano gradito l’intervista di maggio nella quale Sheng Hong, presidente del Tianze Economics Institute, aveva criticato apertamente il monopolio delle imprese statali e la politica dirigista messa in atto da Pechino.
Ricambi ai vertici anche per il News Express Daily – il quale, lo scorso 16 luglio, ha invitato alle dimissioni l’editor in chief per aver pubblicato contenuti “sensibili” non meglio specificati – e per l’Oriental Vanguard. Il 23 agosto l’organo di stampa della provincia orientale del Jiangsu ha visto cadere diverse teste a causa di un articolo su Liu Xiang, l’atleta cinese inciampato al primo ostacolo durante i Giochi di Londra, e su quella che è stata definita una debacle “annunciata” (Liu Xiang knew, official knew, CCTV knew, only the audience was waiting vainly for the legendary moment).
Il controllo del governo cinese sui mezzi d’informazione nel 2012 ha raggiunto proporzioni inusuali, stroncando sul nascere le speranze per una “primavera dei media cinesi“, commenta l’Atlantic. All’inizio dell’anno il People’s Daily, megafono del Partito comunista, aveva in più occasioni sottolineato la necessità di riforme (“anche su temi difficili e sensibili”) inducendo molti a credere in un allentamento della stretta delle autorità sugli organi di stampa. Ma l’ondata di ottimismo si è esaurita non appena ha cominciato a delinearsi sempre più chiaramente una strana dicotomia tra liberalizzazione dei media ufficiali e crescente oppressione sugli indipendenti. Secondo la rivista americana, tutti i professionisti del Nanfang Daily sono tenuti a rivelare ai superiori account e password di Weibo, il Twitter cinese.
Lo stridente contrasto tra sintomi di apertura e chiusura – commenta l’Atlantic – potrebbe riflettere l’intensa battaglia tra conservatori e liberali che, secondo diversi analisti, starebbe scuotendo il Pcc in vista del Diciottesimo Congresso, l’evento più importante dell’ultimo decennio che l’8 novembre sancirà il passaggio del testimone a una nuova generazione di leader. Negli ultimi mesi, il conto alla rovescia verso il cambio della guardia al vertice del potere politico è stato accompagnato da una serie di scandali, primo tra tutti quello che ad inizio anno ha travolto Bo Xilai, l’ex Segretario del Partito di Chongqing, sino a febbraio in lizza per uno dei seggi del Comitato permanente del Politburo, la stanza dei bottoni cinese. E ancora, solo nel mese scorso: l’improvvisa destituzione di Ling Jihua, uno degli uomini dell’attuale presidente Hu Jintao, dall’incarico di responsabile del dipartimento dell’Ufficio di amministrazione del Politburo – pare a causa della presunta morte del figlio, schiantatosi a marzo con la sua Ferrari mentre era impegnato in un gioco erotico al volante – e la sparizione misteriosa del vicepresidente e leader in pectore Xi Jinping, ricomparso in pubblico solo sabato 15 settembre dopo ben due settimane di assenza.
Date le circostanze attuali e la necessità di assicurare una transizione morbida del potere, la “stabilità sociale” rimane una priorità per Pechino. Da qui la decisione di eliminare qualsiasi notizia negativa ritenuta potenzialmente destabilizzante, stringendo le maglie della censura. Verso la metà di giugno il capo del Dipartimento per la propaganda, Li Changchun, ha chiamato a rapporto tutti i media: vietato diffondere cattive notizie, almeno fino al mese di ottobre, mentre il tema dominante dovrà essere quello del “decennio d’oro” ormai agli sgoccioli, targato Hu Jintao-Wen Jiabao. Il ritiro del permesso di lavoro sarà la punizione riservata ai trasgressori. Sebbene in un clima di maggior distensione, misure analoghe furono assunte nel 2002, quando le redini del paese passarono dalle mani di Jiang Zemin a quelli di Hu.
Jian Guangzhou è il terzo giornalista investigativo ad aver dato le dimissioni nell’ultimo anno. Lo scorso luglio Liu Jianfeng, noto per aver coperto la morte del dissidente Qian Yunhui e la rivolta di Wukan, ha abbandonato il suo posto presso la redazione dell’Economic Observer. Il novembre del 2011 Yang Haipeng, acclamato come uno dei migliori per quanto riguarda le questioni legali, ha lasciato la nota rivista Caijing, considerata autorevole anche all’estero per il suo impegno nel denunciare casi di corruzione governativa, frodi finanziarie e per aver portato allo scoperto il caso SARS.
Il senso di frustrazione alimentato dalla scarsa libertà di parola non è l’unica scintilla ad aver innescato la catena di dimissioni degli ultimi tempi. Secondo un rapporto citato dall’Atlantic, i timori per la propria sicurezza fisica in seguito a minacce e pestaggi sembrano aver indotto il 55% dei reporter d’assalto a prendere in considerazione l’idea di abbandonare la propria carriera entro i prossimi cinque anni.
Poco più di un anno fa il giornalista televisivo Li Xiang veniva freddato con 10 colpi di arma da taglio nei pressi della sua abitazione. Data la sparizione di portafogli, telecamera e portatile per la polizia locale si trattò di un semplice caso di furto, ma per molti Li avrebbe pagato cara la curiosità con la quale stava seguendo molto attivamente la questione degli scandali relativi alla vendita e al riutilizzo di olio di scolo.
Le cose non vanno poi tanto meglio nemmeno per la stampa straniera. Alcuni mesi fa ha fatto scalpore la chiusura dell’ufficio pechinese di Al Jazeera English, giunta forzatamente dopo che Melissa Chan, brillante e aggressiva corrispondente dell’emittente araba in Cina, non è riuscita ad ottenere il rinnovo del visto. Alla storia della Chan ha fatto seguito l’oscuramento del sito web dell’agenzia di stampa statunitense Bloomberg, autrice di uno scoop sulle attività finanziarie della famiglia di Xi Jinping. Questo e molto altro ha spinto il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ) a rivolgere un appello al Segretario di Stato americano Hillary Clinton – poco prima della sua visita nel Celeste Impero tenutasi il 4 e il 5 settembre – affinché sollevasse il problema libertà di stampa d’innanzi ai dirigenti del Partito. D’altra parte, il 20 agosto scorso i Club dei corrispondenti stranieri di Pechino, Shanghai e Hong Kong avevano già fatto sentire la loro voce diffondendo sul web una comunicazione congiunta nella quale venivano citati quattro casi di molestie ai danni di reporter internazionali. Uno dei più noti quello dell’inviato da Shanghai del quotidiano giapponese Asahi Shimbun, Atsuki Okudera, malmenato dalla polizia cinese il 28 luglio scorso mentre cercava di fotografare le proteste di Qidong.
Tra gli ultimi attriti Pechino – Comunità internazionale, da segnalare l’ondata di polemiche sollevatasi alla vigilia del vertice Cina/Ue del 20 settembre, a causa dell’annullamento dell’abituale conferenza stampa, tradizionalmente tenuta al termine del summit. L’Associazione della stampa internazionale (Api) ha scritto una lettera di fuoco al Consiglio e alla Commissione per protestare contro la richiesta di Pechino di avere una lista dei giornalisti partecipanti, in modo da poterne escludere quelli non graditi.
Una storia infinita
“Sapete perché la Cina non può diventare una potenza culturale? Perchè nella maggior parte dei nostri discorsi i leader vengono sempre prima, e i nostri leader sono tutti illetterati e spaventati dalla cultura. Il loro lavoro consiste nel censurare la cultura, così possono controllarla. Come può un tale paese diventare una potenza culturale?” Lo pensa Han Han, famoso scrittore-blogger, annoverato dal Time tra le personalità più influenti al mondo. “La Costituzione ci garantisce la libertà di stampa, ma la legge assicura ai leader la libertà di impedirci di esercitarla” ha dichiarato Han in un discorso tenuto nel 2010 presso l’Università di Xiamen.
Sono passati più di trent’anni da quando nella primavera del 1979, durante una Conferenza teorica presieduta da Hu Yaobang, al tempo direttore del Dipartimento di propaganda, si parlò dell’esigenza di rinnovare i mezzi di comunicazione cinesi. Renderli “più attivi e originali” per attrarre i lettori. Ma nel corso degli anni, ad alimentare il motore del cambiamento, è stata sempre la ricerca del vantaggio economico, così che lo svecchiamento di linguaggio e contenuti può essere visto come una conseguenza diretta delle novità apportate in ambito commerciale e finanziario. E anche dopo l’ingresso nel mercato delle principali testate ed emittenti cinesi avvenuto nel 2003, i media del Dragone, in realtà, continuano ad essere strettamente controllati dal potere politico.
Nell’ottobre 2002 un discorso tenuto dall’allora presidente Jiang Zemin durante il XVI Congresso del Pcc aveva posto ufficialmente l’industria culturale sotto l’egidia del Partito, separando le funzioni editoriali – sulle quali il governo continuava ad avere l’ultima parola – da quelle amministrative e gestionali aperte all’attività di investitori privati e stranieri. Di più: possibilità di quotazione in Borsa per tutti fuorché per il Quotidiano del popolo, il quale continuò a rimanere escluso dai meccanismi di mercato ricevendo solamente finanziamenti statali sino al 2010.
Ed è proprio presso la redazione del People’s Daily che nel giugno 2008, in occasione del sessantesimo dalla nascita del giornale, Hu Jintao tenne un monologo sul binomio organi d’informazione – società, pronunciando due frasi che avrebbero determinato la strategia mediatica adottata dal Pcc degli ultimi anni: “corretta guida dell’opinione pubblica” e “prendere l’iniziativa nel riportare le notizie” (riassunte nel concetto “incanalare l'opinione pubblica") a sottolineare l’esigenza di armonizzare le notizie con le politiche di Partito. Una decisione maturata in seguito al disastro mediatico verificatosi nel 2003, durante l’epidemia di SARS, e proprio nel 2008 con le rivolte tibetane e le proteste internazionali durante il passaggio della fiaccola olimpica nel Vecchio Continente, in occasione dei Giochi di Pechino.
L’11 ottobre 2010 alcuni veterani del Partito quali Du Daozheng, redattore della rivista liberale Yanhuang Chunqiu ed ex direttore dell’Amministrazione generale della stampa e dell’editoria, Li Rui, ex segretario di Mao Zedong, Hu Jiwei, ex direttore del Quotidiano del Popolo, Li Pu, ex vicedirettore della Xinhua e Yu You, ex redattore capo del China Daily (insieme ad altri) firmarono una lettera indirizzata al Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo nella quale, appellandosi all’articolo 35 della Costituzione, richiedevano l’abolizione della censura su internet, la libera circolazione nella mainland di libri e periodici provenienti da Hong Kong e Macao nonché la riabilitazione dei “non detti” della storia, con conseguente ammissione degli errori commessi dal Partito.
“La fabbrica del consenso”
Una rete capillare di uffici e quadri preposti al lavoro di censura e propaganda controlla la circolazione delle informazioni. Più nello specifico: ogni organo mediatico viene supervisionato dal Dipartimento di propaganda del Partito attivo al proprio livello, mentre la Segreteria generale si occupa della diffusione di documenti e linee guida. Il semaforo verde alla trattazione di determinati argomenti arriva con la concessione di apposite licenze di pubblicazione. Primo comandamento: seguire quanto riportato dalla Xinhua, considerata alla stregua di un organo di Partito, e incaricata di traccia la strada maestra dalla quale è vietato deviare.
“Non esiste quindi, in Cina, un vero e proprio apparato di censura preventiva ma piuttosto una forma di ‘guida’ preventiva praticata attraverso regolamenti, discorsi dei leder, controllo del personale, gestione delle licenze, veline alle redazioni“, spiega la giornalista Emma Lupano nel suo libro “Ho servito il popolo cinese. Media e potere nella Cina di oggi”. Ad assicurare l’infallibilità del sistema, sembra strano ma è proprio l’autocensura, applicata ormai quasi automaticamente dai giornalisti stessi, consci di quali siano i limiti da non valicare. Gli “equilibristi della censura” sfoderano giochi di parole e, sfruttando la flessibilità della lingua cinese – come si è soliti dire prendendo in prestito una metafora tratta dal ping pong – “segnano punti sulla linea di fondo campo”. Comunque sia, un maggiore libertà viene assicurata ai giornali di nicchia, con divulgazione inferiore, mentre il Partito mostra maggior attenzione nei confronti delle testate più rinomate con diffusione a livello nazionale.
Capita a volte che qualcuno, insofferente verso le restrizioni, decida di prendere la porta. E’ il caso di Hu Shuli, che alla fine del 2009 scelse di abbandonare la blasonata rivista economica Caijing, da lei stessa fondata, seguendo altri 70 dirigenti, stanchi di sottostare alle richieste del Partito. Per la sua capacità di toccare tematiche sensibili senza valicare il confine proibito, Hu è stata soprannominata “donna più pericolosa della Cina“.
Ma, dunque, qual’è questo confine? In generale si può dire che la censura tollera insidiose ingerenze fino a livello locale, mentre non è consentito toccare i pezzi da novanta del Partito o gettare ombre sulla correttezza della linea della leadership. Il Ministero della Verità (termine con il quale il web ha ribattezzato l’ufficio della propaganda), inoltre, proibisce ai media locali di riportare notizie riguardanti province differenti dalla propria; una pratica che permetteva di aggirare la censura, dato lo scarso interesse del Dipartimento di propaganda locale nel mettere freno alle storie che non rientravano nella propria area geografica di controllo.
Dalla carta stampata passando per il piccolo schermo…
Nel mese di ottobre 2011, un nuovo regolamento emesso dall’Amministrazione Statale per la Radio, i Film e la Tv (ASRFT) ordinò il taglio di due terzi dei programmi di intrattenimento trasmessi sulle tv satellitari provinciali del Paese, così che oggi ogni canale può trasmettere solo due programmi di svago alla settimana, per un massimo di 90 minuti al giorno nella fascia oraria tra le 19.30 e le 22.00. Allo stesso tempo, tra le 6.00 e le 24.00 due ore devono essere dedicate ai notiziari, di cui almeno due edizioni da mezz’ora ciascuna tra le 18.00 e le 23.00. Il tutto con lo scopo di “promuovere le virtù tradizionali e i valori centrali del socialismo“, come stabilito dalla riforma del sistema culturale lanciata durante la riunione Plenaria del Comitato centrale del Pcc, nell’ottobre 2011.
Quanto può essere importante il controllo sul piccolo schermo lo rivelano i numeri. La TV cinese è quella che vanta il più grande pubblico al mondo, con un’audience domestica che rappresenta il 35% di quella globale. Data la vasta diffusione del mezzo, in grado di raggiungere anche le zone più remote della Cina e gli strati sociali più bassi, poco avvezzi alla carta stampata, la televisione rappresenta per il Partito “il mezzo più efficace e cruciale per la costruzione del consenso” (Lupano, 2012 p.95). Di conseguenza le antenne paraboliche, che permetterebbero l’accesso ad un vasto numero di canali stranieri (potenzialmente forieri di notizie scomode per Pechino) sono ufficialmente bandite dal Paese, sebbene siano in molti a possederne una di straforo. Nel corso degli anni le autorità hanno pubblicato a più riprese direttive e regolamenti volti ad evitare la diffusione di contenuti “volgari” o “sensibili”, come nel caso del tema dell’omosessualità, che nella Repubblica popolare viene ancora considerato tabù e filtra per lo più attraverso i canali di Hong Kong.
L’emittente statale CCTV, l’equivalente sul piccolo schermo del Quotidiano del Popolo, è una suddivisione della ASRFT e pertanto non gode dell’indipendenza editoriale. Trasmette in 120 paesi, raggiungendo circa cento milioni di spettatori ed è il cavallo di battaglia del soft power cinese, attraverso il quale il Dragone vuole esportare la propria cultura oltreconfine. L’austerità che caratterizza il notiziario CCTV News – per molti – è da attribuirsi alla sua posizione di prime time, quando l’occhio della censura è più vigile, mentre in seconda serata i palinsesti si fanno più disinvolti.
…sino al Controllo 2.0
Lo chiamano Great Firewall, è costato l’equivalente di 650 milioni di euro ed è il principale mezzo di controllo 2.0 di cui si avvale il Dragone. Un sistema che provvede a filtrare le parole, bloccando quelle sgradite al governo cinese. Ma nulla di insormontabile. Il bavaglio imposto dalle autorità è facilmente aggirabile attraverso l’uso di vpn e proxy, mentre il popolo del web (che in Cina conta più di 500 milioni di citizen) ha saputo dare sfogo a tutta la propria creatività coniando parole in codice per smarcarsi dai divieti.
Il 16 dicembre 2011 il governo municipale di Pechino rese noto un provvedimento in base al quale tutti gli utenti di Internet – società comprese – devono effettuare la registrazione sui siti di microblogging utilizzando il loro vero nome. Poiché Pechino ospita i gestori delle principali piattaforme di microblogging, di fatto, le nuove norme diramate dalla capitale coinvolsero ben presto tutta la Cina.
La notizia non fece che confermare una tendenza osservata da diverso tempo e in acceleramento dalla primavera 2011, quando il profumo dei “gelsomini” arabi valicò la Grande Muraglia: il governo cinese continua a stringere la morsa sui principali mezzi di divulgazione dell’opinione pubblica, da Internet ai media ufficiali, con occhio particolarmente attento verso il brulicante mondo dei social network e dei microblog. E lo fa con ancora maggior solerzia da quando – come detto sopra - la riunione plenaria del comitato centrale del Partito, lo scorso autunno, diede il via alla “wenhua tizhi gaige”, la riforma del sistema culturale che, tra nuovi e più rigidi regolamenti sui palinsesti televisivi, richiami all’ordine rivolti al mondo della carta stampata e un più severo monitoraggio del web, ha lo scopo di ricondurre la cultura sulla retta via dei dogmi socialisti.
Un episodio in particolare mise in allarme il governo centrale: lo scontro tra due treni sulla linea ad alta velocità Pechino-Shanghai, fresca di inaugurazione, il 23 luglio 2011 costò la vita a 40 persone causando il ferimento di altre 200. Nei dieci giorni successivi all’incidente, oltre 10 milioni di post infuocarono il web cinese, dando sfogo alla rabbia dei netizen, dubbiosi circa la sicurezza della linea e la reale prontezza dei soccorsi. Il 29 luglio il Dipartimento di propaganda intimò a tutti i media, dalla Tv alla stampa, ai siti internet di non occuparsi del caso, limitandosi a riproporre le informazioni emesse dalle autorità.
Ed è così nell’agosto 2011 è stata avviata, non del tutto inaspettatamente, una campagna contro i rumors, guidata da un network di microblogger (teoricamente “indipendenti”) decisi a purificare la rete da notizie false e dicerie infondate. A gettare ombre sulla reale spontaneità del movimento le lodi di Pechino, alle quali ha dato, immancabilmente, voce il People’s Daily con un editoriale del 10 agosto. Non sarebbe, d’altra parte, il primo caso in cui è proprio il governo cinese a muovere i fili dei paladini del web. Dal 2004, infatti, un esercito di smanettoni prezzolati da Pechino, chiamato “partito dei 50 centesimi“, si occupa di pubblicare online commenti favorevoli al Partito, secondo i dogmi imposti dal Ministero della Verità. Il tutto per 50 centesimi di renminbi a post.
Il controllo esasperato della rete, negli ultimi tempi, è sfociato in un serrato giro di vite, segno evidente del nervosismo serpeggiante tra la leadership cinese in un momento di delicata transizione. All’inizio del “caso Bo Xilai” – arricchito di un’ipotesi golpe avanzata proprio dalla rete – le autorità preferirono mantenere il silenzio piuttosto che rispondere con chiarimenti o smentite. Nessuna spiegazione ufficiale, ma la necessità di mettere fine alle congetture di Internet, tra marzo e aprile, portò all’arresto di almeno 6 persone, alla chiusura di circa una quarantina di siti web, nonché alla rimozione di oltre 210 mila post.
I numeri del 2012 sono già da capogiro. Secondo Global Voices, dall’inizio dell’anno il sistema online di pubblica sicurezza della municipalità di Pechino ha proceduto all’eliminazione di 366mila informazioni sul web, punendo 7549 società di internet e mettendo in manette più di 5007 internauti sospettati di crimini, dal commercio illegale alla diffusione di rumors e attacchi alle autorità (dati di fine luglio).
Tra le ultime vittime della mordacchia cinese l’ex-professore di giornalismo, Jiao Guobiao, noto oppositore del Pcc – secondo quanto riportato dal South China Morning Post – preso in consegna il 12 settembre dalle forze dell’ordine dopo aver pubblicato sul suo blog due lettere sarcastiche, indirizzate una al governatore di Tokyo, Shintaro Ishihara, e l’altra al presidente taiwanese Ma Ying-Jeou. I messaggi contenevano una critica serrata contro Pechino (che “viola volontariamente la libertà e i diritti dei cittadini), con riferimento al braccio di ferro tra Cina, Giappone e Taiwan per la sovranità sulle isole contese Diaoyu/Senkaku.
Se, quindi, da una parte Internet rappresenta un fattore destabilizzante per le autorità cinesi – data la rapidità con la quale vengono messe in giro voci scomode e portati alla luce scandali e casi di corruzione – dall’altra costituisce uno strumento di controllo attraverso il quale Pechino può monitorare gli umori del popolo. E fare il proprio gioco: pare che il 2011 sia stata l’anno dei microblog governativi, tanto che nel mese di novembre su Sina Weibo si contavano già 20 mila account facenti capo a ministeri, enti e uffici locali, agenzie governati, in uno sfoggio di ostentata “trasparenza” nei rapporti tra autorità e cittadini.
Una “fabbrica del consenso” ben funzionante, tanto che a quanto pare il sistema di controllo 2.0 “alla cinese” sta facendo scuola tra i regimi più autoritari del globo. Lo riporta un recente studio di Freedom House – Ong americana che effettua ricerche su democrazia, libertà e diritti umani – secondo la quale società di telecomunicazioni e squadre di esperti cinesi sono stati invitati in Etiopia, Libia, Iran, Sri Lanka e Zimbawe per insegnare le loro tecniche di censura e monitoraggio del web. Ma anche per rivelare come realizzare attacchi informatici contro i paesi avversari.
lunedì 24 settembre 2012
Maxi-rissa alla Foxconn, il video
26 set.- China Labour Bulletin ha pubblicato un report sui commenti rilasciati dai lavoratori della Foxconn, una volta riprese le attività. Secondo molti la rissa sarebbe scoppiata non a causa di dissidi tra operai provenienti da differenti province -tesi ufficiale resa nota dalla fabbrica- ma per via di molestie ai danni di un'impiegata da parte di una guardia. Si parla inoltre di mancanza di rispetto da parte dei superiori e della polizia, andando a rimarcare le dure condizioni di lavoro alle quali sono sottoposti gli operai: After the dust has settled: Foxconn workers talk about the riots
25.- Una maxi-rissa da 2.000 persone, 5.000 poliziotti accorsi sul posto e 40 feriti, e sullo sfondo – ancora una volta – la Foxconn. L’azienda taiwanese che assembla prodotti dell’Apple, già tristemente nota per l’ondata di suicidi che nel 2010 interessò 14 dei suoi operai, torna nell’occhio del ciclone dopo un acceso contrasto scoppiato domenica notte nel dormitorio dello stabilimento di Taiyuan, nella provincia dello Shanxi. La lite è esplosa intorno alle 23 e la polizia ha impiegato 4 ore per riportare la situazione sotto controllo. Diversi gli operai arrestati, mentre i feriti sono stati portati in ospedale... (su AgiChina24)
Da diverse ore voci sul web cinese parlano delle morte di 10 persone:
Su ifeng,(in inglese culto of mac), Boxun
mercoledì 19 settembre 2012
Bo Xilai implicato nell'omicidio di Heywood
Le accuse contro l'ex segretario del partito di Chongqing Bo Xilai potrebbero assumere natura penale, andando ben oltre la semplice "violazione della disciplina". E' quanto emerso da un corposo rapporto, rilasciato in serata dall'agenzia di stampa Xinhua, sul processo che lunedì e martedì ha visto alla sbarra il superpoliziotto Wang Lijun, incriminato per diserzione, corruzione, abuso di potere e manipolazione della legge per fini personali.
Occorre però saper leggere tra le righe, perché il nome di Bo non compare nemmeno una volta. Una frase, d'altra parte, non lascia spazio ai dubbi: Wang -si legge nel comunicato- avrebbe tentato di riferire "a colui che al tempo era responsabile del partito di Chongqing" (quindi Bo Xilai!) dell'implicazione di Gu Kailai nell'omicidio del businessmen britannico, Neil Heywood. In cambio l'ex braccio destro di Bo avrebbe ricevuto "critiche e uno schiaffo", secondo quanto testimoniato da un altro agente, la cui deposizione è stata resa nota durante l'udienza tenutasi presso la Corte Intermedia del Popolo di Chengdu.
Sino ad oggi le autorità avevano sempre evitato di collegare la figura del leader caduto in disgrazia all'assassinio di Heywood, per il quale la moglie è stata condannata il mese scorso alla pena di morte con sospensione di due anni (commutata in ergastolo in caso di buona condotta). "Non vedo grandi ragioni per le quali dovrebbero far fuori del tutto Bo Xilai, proprio in questo momento" ha commentato Kerry Brown, esperto di politica cinese presso il Lowy Institute of International Policy di Sidney, suggerendo l'ipotesi che il caso dell'ex astro nascente possa essere gestito a porte chiuse ancora per un po'. Una precauzione volta ad evitare ulteriori scossoni ai piani alti del Pcc, proprio ora che la misteriosa data del Diciottesimo Congresso dovrebbe essere veramente vicina.
Ma che fine ha fatto Bo Xilai? Sparito dalla scena pubblica lo scorso marzo subito dopo essere stato sospeso dall'incarico di capo del partito di Chongqing, secondo molti, sarebbe stato sottoposto ad un sistema di detenzione illegale (un sistema giuridico extra-costituzionale parallelo a quello ufficiale) riservato agli alti quadri corrotti: lo shuanggui.
Per saperne di più sul Guardian
Segue il rapporto comparso sulla Xinhua.
Servizio sul processo a Wang Lijun trasmesso il 19 settembre dalla CCTV
Nota di colore: canzoncina dedicata a Bo Xilai circolante sul web da marzo
薄熙来下台!请听《薄熙来之歌》
martedì 18 settembre 2012
Anniversario dell'incidente di Mukden, sala la tensione tra Cina e Giappone
19 set.- "Il nostro riequilibrio verso il Pacifico non è un tentativo di contenere la Cina. E' un tentativo di interagire con la Cina ed espandere il suo ruolo nel Pacifico". Parola di Leon Panetta.
Il Segretrio alla Difesa Usa, durante un incontro con il vicepresidente Xi Jinping tenutosi mercoledì nella Grande Sala del Popolo a Pechino, ha colto l'occasione per tranquillizzare il Dragone circa la rinnovata assertività di Washington in Estremo Oriente. L'intento non è, dunque, quello di contenere il gigante asiatico quanto, piuttosto, di creare un nuovo modello nelle relazioni tra le due potenze, obiettivo che passa inevitabilmente attraverso rinnovati e più stretti legami militari, ha spiegato il capo del Pentagono.
D'altra parte, la visita di Panetta non è giunta casualmente nei giorni caldi in cui la contesa per la sovranità delle isole Diaoyu (Senkaku in giapponese) rischia di sfociare in una grave crisi diplomatica tra Tokyo e Pechino. La situazione nel Mar Cinese Orientale è degenerata il 10 settembre scorso in seguito all'annuncio dell'acquisto di alcuni degli atolli da parte del governo nipponico. In seguito, il 13 settembre il governo cinese ha spedito nelle acque agitate 6 navi vedette.
Le isole, appartenuti ad una famiglia giapponese che ne detiene i diritti di sfruttamento, sono al centro di un annosa controversia tra Cina, Giappone e Taiwan, desiderose di mettere le mani sulle ricche risorse energetiche nascoste nei fondali circostanti.
E sebbene gli Stati Uniti si dichiarino neutrali nella disputa, l'affermazione rilasciata lunedì dal Segretario alla Difesa americano in visita a Tokyo, secondo la quale il trattato di reciproca difesa tra Stati Uniti e Giappone copre anche le Diaoyu/Senkaku, è suonata alle orecchie cinesi come un chiaro affronto. Così come l'aumento di missili Usa in Asia, giustificato da Washington come una misura preventiva volta a scongiurare azioni ostili da parte della Corea del Nord. "Il nostro ruolo è assicurarci che nessuna disputa o incomprensione possa portare a tensioni o a un conflitto" nella regione” ha ribadito Panetta.
Inutili i tentativi degli Stati Uniti di tenersi fuori dalle schermaglie tra le due potenze asiatiche. Nel pomeriggio di martedì l'auto dell'ambasciatore americano Gary Locke è stata assaltata da un gruppo di cinquanta manifestanti anti-giapponesi che stavano cercando di entrare nella sede diplomatica Usa. Locke è rimasto “illeso” e la macchina “lievemente danneggiata”, ha riferito un funzionario dell'ambasciata ad AgiChina24.
Intanto, proprio nella giornata di ieri, Xi Jinping, probabile sucessore di Hu Jintao al prossimo Congresso, ha definito l'acquisto giapponese delle isole contese “una farsa” e ha intimato a Tokyo di “frenare il proprio comportamento”. D'altra parte, l'atteggiamento del governo cinese, in un primo momento poco risoluto nel reprimere le manifestazioni nazionaliste dilagate ad inizio settimana in oltre 100 città della Cina, sembra aver scelto l'arma della cautela. Pechino “ha capito molto bene che le rivolte nazionaliste possono rivelarsi un'arma a doppio taglio” ha spiegato Joseph Cheng, esperto di Cina presso la City University of Hong Kong Nella giornata di mercoledì sono state riaperte le strade in prossimità dell'ambasciata giapponese di Pechino, mentre in tutto il paese non è stata segnalata nessuna protesta di portata significativa; solo pochi manifestanti nei dintorni del consolato nipponico a Shanghai, come riporta France Presse.
In questo momento, alla vigilia del rimpasto al vertice, la preoccupazione maggiore delle autorità cinesi consiste nell'assicurare la stabilità sociale. Secondo Linda Jakobson, del Lowy Institute for International Policy di Sidney, contrasti tra i piani alti del Pcc complicano il lavoro alla leadership uscente. La fazione che spinge verso una maggior aggressività in politica estera potrebbe cercare di strumentalizzare le manifestazioni anti-nipponiche contro i propri avversari. Da qui la difficoltà del governo centrale nel reprimere l'ondata di proteste, in parte animata dall'insoddisfazione verso un'atteggiamento troppo debole dimostrato da Pechino nei rapporti con i paesi d'oltremare. Un sentimento che i manifestanti hanno espresso rispolverando le immagini di Mao Zedong, leader di polso nelle relazioni con le potenze straniere. Negli ultimi tempi il malcontento popolare ha preso di mira i privilegi della casta e la corruzione endemica che serpeggia tra le stanze del potere cinese. E davanti alle ingiustizie sociali e al divario tra ricchi-poveri, il Grande Timoniere torna ad essere l'icona sbandierata da chi richiede politiche più egualitarie. Non senza sconfinare in un populismo autoritario. Niente di più pericoloso se si tiene presente che tra i cortei degli ultimi giorni alcune voci si sono sollevate in favore del rilascio di Bo Xilai, l'ex segretario di Chongqing caduto in disgrazia, secondo molti, proprio a causa delle sue inclinazioni neo-maoiste.
“Al momento il governo cinese può sperare al massimo di riuscire a placare le ire dell'opinione pubblica e, in seconda battuta, di stabilire una sorta di stallo”, ha affermato Barry Sautman, analista presso la Hong Kong University of Science and Technology.
Video delle proteste sul Wall Street Journal
18 set.- Sale la tensione tra Cina e Giappone per la sovranità territoriale sulle isole Diaoyu/Senkaku. Nella giornata di martedì grandi società nipponiche hanno chiuso centinaia di negozi e impianti, mentre l'ambasciata giapponese a Pechino ha sospeso i suoi servizi in seguito al degenerare delle proteste cinesi contro Tokyo. Lo sbarco di due nazionalisti giapponesi su uno degli atolli contesi -come riferito dalla guardia costiera- rischia di alzare la temperatura nell'area già pattugliata da navi di entrambi i paesi. Nella giornata di ieri una flottiglia di 1.000 pescherecci cinesi ha preso il largo verso le acque agitate; non è chiaro quante imbarcazioni abbiano realmente raggiunto le isole, riporta la Reuters, ma crescono di ora in ora i timori per uno scontro diretto tra le due potenze asiatiche.
Nei giorni scorsi migliaia di manifestanti sono scesi in strada per protestare contro l'annuncio rilasciato dal governo di Tokyo circa l'acquisto di tre delle cinque isole dell'arcipelago da una famiglia giapponese che ne detiene il diritto di sfruttamento. Lo scorso 10 settembre, il segretario di gabinetto Osama Fujimura, ha dato la conferma: "Si tratta solo di un cambio di proprietà della terra, che appartiene al Giappone, da un privato allo Stato, e ciò non dovrebbe causare problemi con altri Paesi. Non vogliamo che la questione delle Senkaku interferisca coi rapporti sino-giapponesi".
Orgoglio nazionalista e sentimenti anti-giapponesi dilagano in tutta la Cina, prendendo di mira attività commerciali e fabbriche del Sol Levante. Circai un centinaio le città del Paese di Mezzo in cui la rabbia contro Tokyo ha raggiunto il livello di guardia, con lancio di oggetti e atti vandalici ai danni di veicoli di marca giapponese. Aziende produttrici di auto, come la Toyoto Motor Co. e la Honda Motor Co. hanno chiuso i battenti, sospendendo temporaneamente le operazioni. Stessa sorte per Mazda, Mitsubishi Motors e Panasonic, con esiti allarmanti, secondo l'agenzia di rating Fitch, per la quale la situazione potrebbe compromettere la capacità di credito di diverse case automobilistiche e giganti dell'hi-tech. La Hitachi ha invitato 25 dipendenti tornare in patria a causa dei disordini, mentre Uniqlo, leader dell'abbigliamento che possiede 145 punti vendita nel Paese di Mezzo, ha sbarrato le porte di circa un quarto dei suoi negozi.
La reazione delle forze dell'ordine cinesi è stata da più parti considerata troppo soft tanto che, secondo quanto dichiarato alla Reuters dall'artista-dissidente Ai Weiwei, le proteste avrebbero ricevuto l'approvazione della polizia. Sulla rete Internet dilagano illazioni circa una possibile complicità delle autorità di Pechino, intente a fomentare l'orgoglio nazionalista con lo scopo di dirottare l'attenzione pubblica dagli ultimi scandali politici, giunti a ridosso del XVII Congresso del Partito, che il mese prossimo sancirà il ricambio al vertice. (link)
Proprio martedì ricorre l'anniversario dell'incidente di Mukden, che nel 1931 diede il via all'occupazione della Manciuria da parte del Giappone. Ritratti di Mao Zedong e striscioni contro Tokyo riempiono le piazze di tutta la Cina, mentre ancora oggi la polizia antisommossa ha circondato la sede diplomatica giapponese a Pechino per difenderla dalle ire dei manifestanti. "Il Giappone è un cane degli americani" recita uno degli slogan apparsi nella città meridionale di Canton.
Le proteste in chiave anti-giapponese hanno raggiunto il picco più alto proprio in concomitanza con la visita in Asia del Segretario alla Difesa americano, Leon Panetta. Il capo del Pentagono ha affermato la neutralità di Washington nella disputa territoriale tra i due cugini asiatici e ha invitato alla "calma e alla moderazione" per evitare un'ulteriore escalation. Mercoledì il Segretario della Difesa Usa incontrerà il vicepresidente e leader in pectore Xi Jinping, riapparso sabato dopo una misteriosa sparizione dalla scena pubblica durata due settimane.
Ma nonostante la diplomazia cinese, per bocca del ministro della Difesa Liang Guanglie, abbia cercato di rilassare i toni, la stampa d'oltre Muraglia sembra essere meno accondiscendente. Mentre lunedì un editoriale del Global Times, spin-off in lingua inglese del People's Daily, ha condannato ogni forma di manifestazione violenta, le testate in caratteri sciorinano una retorica dai toni belligeranti. Per il Quotidiano del popolo "Tokyo non si è sinceramente pentito del suo passato di guerre, invasioni e colonialismo" e la Cina è pronta a combattere, sia che si tratti di una guerra lampo che di un conflitto di lunga durata.
Quella per le Diaoyu/Senkaku, Eldorado di risorse naturali ed energetiche situato nel Mar Cinese Orientale, è una contesa che si protrae da due anni. Nel 2010 la collisione tra un peschereccio cinese e una nave della guardia costiera giapponese aveva portato le relazioni tra i due paesi al minimo storico. Con un comunicato ufficiale dal titolo "Considerazioni fondamentali riguardanti la sovranità territoriale sulle isole Senkaku", lo scorso agosto il Ministero degli Esteri giapponese ha ribadito l'annessione degli atolli al territorio nipponico dal 14 gennaio del 1895. Una serie di indagini in loco avrebbe confermato che "non solo l'arcipelago era disabitato, ma non esistevano nemmeno segni della dominazione cinese". Formalmente il Giappone si appropriò di una terra nullius, incorporandola all'amministrazione di Okinawa senza che il Dragone opponesse resistenza né presentasse alcuna rivendicazione ufficiale. Ma se Tokyo avanza i suoi diritti sulle isole in virtù del Trattato di Shimonoseki stilato al termine della prima guerra sino-giapponese, per Pechino questo è nullo come tutti i trattati ineguali firmati nel diciannovesimo secolo sotto l'incalzare delle potenze straniere.
A complicare ulteriormente la disputa si inserisco le rivendicazioni della Repubblica di Cina, della quale il governo cinese non riconosce l'indipendenza e considera parte integrante del territorio nazionale. Nel 1944, infatti, un tribunale giapponese riconobbe le Senkaku come appartenenti a Taiwan, al tempo ancora sotto l'egemonia nipponica. Con il Trattato di San Francisco del 1951, con il quale cominciò il protettorato degli Stati Uniti sul Giappone,- ma che d'altra parte non venne firmato né dalla Repubblica popolare né da Taiwan- Washington continuò ad occupare diverse isole tra cui proprio l'arcipelago in questione. Sino al 1972, quando Okinawa e i territori circostanti passarono nuovamente al Sol Levante.
E ancora: alcuni documenti risalenti alla dinastia Qing (1944-1911) attesterebbero la sovranità cinese sulle isole a prima del 1895, specificando che le Diaoyu/Senkaku sorgono "entro il confine che separa le terre cinesi da quelle straniere". Da parte sua la Repubblica di Cina chiama a testimone alcuni dizionari geografici nei quali veniva espressamente indicato che "le Diaoyu ospitano dieci o più navi di grandi dimensioni" sotto la giurisdizione di Kavalan, Taiwan.
Nell'intricata rete di rivendicazioni territoriali, nella giornata di ieri, il Segretario alla Difesa americano, in visita a Tokyo, almeno su un punto sembra aver fatto chiarezza: qualora la situazione dovesse degenerare in un conflitto armato, il trattato di reciproca difesa tra Stati Uniti e Giappone copre anche le Diaoyu/Senkaku.
(Pubblicato su Dazebao)
I fatti:
18 settembre, proteste anche a Roma e Milano
1000 pescherecci cinesi verso le Diaoyu
Neo ambasciatore giapponese trovato morto a Pechino
Attaccata auto ambasciatore giapponese
Senkaku, impresa da attivisti
Ricorrenti ostilità Cina-Giappone: Kawamura: "quale massacro del '37?"
venerdì 7 settembre 2012
Clinton in Asia: gli Usa non cedono sul Pacifico
Lo ha detto senza mezzi termini Hillary Clinton: la sua visita nei paesi più poveri dell'Asia rappresenta il "messaggio chiaro e inequivocabile" che gli Stati Uniti rimarranno una potenza del Pacifico. Primo Segretario di Stato americano a raggiungere Timor Est, la nazione più giovane della regione, la Clinton giovedì ha fatto eco ad alcuni commenti già rilasciati durante un summit tenutosi presso le Isole Cook e reiterati a Pechino, in occasione della due giorni che l'ha vista impegnata il 4 eil 5 settembre con i vertici del Partito comunista cinese. "Non siamo qui per opporci a nessun paese" ha affermato l'ex first lady in presenza del primo ministro timorese Xanana Gusmao" riteniamo che l'Asia e il Pacifico siamo sufficientemente grandi da permettere a più nazioni di prendere parte alle attività della regione". Per dirla altrimenti: l'incalzare degli Stati Uniti in Asia non avrebbe lo scopo di contenere l'espansione del Dragone. I due paesi hanno tentato di trovare "un terreno comune" per cercare di sciogliere alcuni nodi insidiosi creatisi intorno a Iran, Corea del Nord e Mar Cinese Meridionale, riuscendo a raggiungere un certo grado di "elasticità" nelle loro relazioni. D'altra parte, ha tenuto a puntualizzare il Segretario americano, "gli Stati Uniti, non eviteranno nemmeno di difendere i propri interessi strategici, dichiarando chiaramente quali sono i punti di divergenza".
Nella piccola Repubblica democratica Washington è andato a "far del bene". Con la costruzione di infrastrutture e l'avvio di progetti di aiuto sociale, l'Aquila intende allungare la mano ad un paese in cui il 40% degli 1,1 milioni di abitanti vive al di sotto della soglia della povertà. Il tutto poco a nord dalla base australiana di Darwin, dove lo scorso anno Barack Obama aveva piantato la bandiera a stelle annunciando l'invio di 2.500 marine. Una mossa che ha messo subito in allerta Pechino.
"Il XXI secolo è il secolo del Pacifico" aveva scandito la Clinton lo scorso novembre tracciando le linee guida della politica estera americana in Estremo Oriente. E dalle parole ai fatti, la Clinton è ad oggi il Segretario di Stato ad aver viaggiato di più nella storia degli Stati Uniti e l'unico ad aver visitato tutti e 10 i paesi membri dell'Associazione delle Nazioni dell'Asia Sud-Orientale (ASEAN). Aveva già messo bene in chiaro le cose l'ex firts lady, quando tre anni e mezzo fa, appena assunto il suo incarico, decise di rompere le convenzioni, scegliendo come meta del suo primo viaggio all'estero l'Asia anziché l'Europa.
Impegnata in un tour di 10 giorni, per un totale di 6 stati asiatici, il 4 settembre la Clinton ha raggiunto la capitale cinese per discutere di alcune questioni spinose, causa di continue tensioni nell'area. Alla settima trasferta nell'Impero di Mezzo (due visite nel 2009, una nel 2010 e nel 2011, due quest'anno), il Segretario di Stato americano mancava da Pechino da maggio, quando a portarla nella capitale cinese furono i dialoghi strategici ed economici sino-americani. Al tempo il rischio di un caso diplomatico, innescato dalla fuga del dissidente cieco Chen Guangcheng presso l'ambasciata Usa a Pechino, aveva fatto schizzare la colonnina di mercurio delle relazioni tra i due paesi, con tanto di sfuriata dei media cinesi.
Anche questa volta l'accoglienza della stampa nazionale è stata a dir poco glaciale, con la Xinhua a fare da apripista: "gli Stati Uniti devono abbandonare l’atteggiamento che li pone al di sopra di alcuni paesi della regione che manovrano come burattini" ha scritto l'agenzia di stampa statale. Sullo stesso spartito il Global Times, spin-off in inglese del Quotidiano del popolo, "lingua e gola" del Partito comunista cinese, secondo il quale Washington starebbe tentando niente meno che di "mantenere l'egemonia sul mondo".
Ad alzare ulteriormente la temperatura tra le due sponde del Pacifico ci ha pensato l'improvvisa defezione del vicepresidente Xi Jinping, supposto erede del "numero uno" Hu Jintao, che a causa di "uno strappo alla schiena"- secondo quanto riportato da alcuni media di Hong Kong- non ha potuto partecipare al meeting come da programma. Una svista che, si sono affrettati a specificare dai piani alti, ha causato anche l'annullamento dell'incontro con il primo ministro di Singapore e un diplomatico russo.
Nonostante le ormai ricorrenti frizioni tra le due superpotenze, la visita della Clinton ha confermato che, sebbene in disaccordo su diverse questioni, i due paesi riescono "a parlare degli argomenti più spinosi senza mettere a repentaglio i rapporti".
In cima all'agenda del Segretario Usa la crisi siriana, riguardo alla quale Pechino, per bocca del ministro degli Esteri Yang Jiechi, ha riaffermato il principio di non ingerenza negli affari interni delle altre nazioni. Posto tre volte il veto ad una soluzione interventista dell'Onu, Cina e Russia si sono dichiarate contrarie ad una condanna verso il regime di Damasco anche se, ha chiarito Yang, Pechino non "favorisce nessun individuo o partito" e "sostiene pienamente" la mediazione del nuovo inviato dell'Onu Lakhdar Brhaimi.
Meno accondiscendente sulle questioni territoriali, il ministro cinese ha voluto ricordare come la sovranità di Pechino sul Mar Cinese Meridionale sia "indiscutibile" e "provata dalla storia". Da tempo la regione è scossa da un contenzioso che vede Cina, Giappone, Vietnam, Filippine, Malesia, Taiwan e Brunei litigarsi una serie di piccoli arcipelaghi ricchi di risorse naturali. E se più a nord il dominio sulle Diaoyu (Senkaku in giapponese), da due anni, sta mettendo a dura prova le capacità diplomatiche di Tokyo e Pechino, la "battaglia" tra i vari stati asiatici per mettere le mani su Huangyan, Paracel e Spartly non fa dormire sonni tranquilli nemmeno alla Casa Bianca, che vede minacciata la stabilità di alcune tra le rotte commerciali più importanti del globo. E' "interesse nazionale" degli Stati Uniti che nel Mar Cinese Meridionale regni pace e stabilità, ha affermato la Clinton durante la sua trasferta pechinese, ponendo ancora una volta l'accento sulla necessità di portare il problema a livello internazionale e di stabilire un "codice di condotta comune da adottare nelle acque contese in base al consenso." Una proposta sulla quale il Dragone continua a temporeggiare, preferendo negoziare con i paesi vicini su base bilaterale.
martedì 4 settembre 2012
Tutti i numeri del Tibet
Entro la fine dell'anno la regione autonoma del Tibet vedrà l'arrivo di oltre 10mila turisti, con guadagni per 12 miliardi di yuan (circa un milione e mezzo di euro), pari al 17% del PIL della regione. Le premesse sono buone: da gennaio ad agosto le bellezze locali hanno richiamato 7 milioni di persone, tra cinesi e stranieri, mettendo a segno un aumento del 25% rispetto allo scorso anno. Le entrate dal turismo negli ultimi otto mesi sono salite a 7,5 milioni di yuan (poco più di 940mila euro), evidenziando una crescita del 30% su base annua, scrive il China Daily riportando le parole di Yu Yungui, funzionario per il turismo locale. Merito dell'ottima campagna pubblicitaria realizzata per valorizzare la cultura e le varie festività locali, prosegue il quotidiano in lingua inglese, sottolineando come gli affari sul Tetto del Mondo vadano molto meglio da quando nel 2006 è stata messa in funzione la linea ferroviaria Qinghai-Tibet. E c'è grande attesa per il parco tematico di 800 ettari dedicato alla "cultura tibetana", i cui lavori, iniziati l'8 luglio, costeranno alle autorità cinesi oltre 4 miliardi di euro.
Snocciola tutti i numeri scintillanti del business nella terra dei lama il China Daily, e bypassa quelli in continua crescita delle proteste contro Pechino. Dal 2009 sono state 51 le auto-immolazioni tibetane, due soltanto la scorsa settimana. Le autorità cinesi sono intervenute in questi giorni inviando forze di sicurezza nei pressi del monastero di Zilkar, provincia orientale di Tridu, dove l'1 settembre cinque monaci sono finiti agli arresti per ragione non chiare. A febbraio erano scattate le manette per altri tre coinvolti in una massiccia protesta che aveva scosso la regione, mentre a giugno il governo cinese aveva inviato 800 uomini per impedire la commemorazione della morte Tenzin Khedup, immolatosi il 20 giugno per chiedere l'indipendenza del Tibet e il ritorno del Dalai Lama, in esilio dal 1959.
Aumento dei controlli anche presso il monastero di Kirti, situato nella regione di Ngaba, provincia cinese del Sichuan, dove sarebbero avvenute almeno 31 delle 51 immolazione.
La questione tibetana ha raggiunto la scrivania del Segretario di Stato americano Hillary Clinton, in questi giorni nella capitale cinese per incontrare esponenti del governo di Pechino: The International Campaign for Tibet (ICT), organizzazione per la tutela dei diritti dei tibetani, ha inviato una lettera appositamente per sollecitare l'ex first lady a prendere le difese del Tibet durante la sua trasferta nel Paese di Mezzo; e con più fermezza rispetto a quanto non abbia già fatto in passato.
Bacchettata anche la stampa internazionale -si salvano Guardian ed Economist- contro la quale Asia Sentinel ha puntato il dito lunedì con un lungo articolo al vetriolo. Le autocombustioni tibetane sembrano essere un topic da social network, dove sempre più spesso circolano foto e video di corpi avviluppati dalle fiamme, ma scarsamente trattate dai media mondiali. Forse per mancanza di fonti dirette a causa dell'inaccessibilità di molte zone, forse per paura di pestare i piedi ad una superpotenza che, sebbene criticata quanto a diritti umani, rimane pur sempre un partner commerciale da non farsi sfuggire.
Non ebbe altrettante remore il New York Times a raccontare la storia del monaco vietnamita Thich Quang Duc, datosi fuoco nel 1963 per protestare contro la persecuzione del Buddhismo messa in atto dal presidente cattolico Ngô Đình Diệm. Al tempo la notizia rimase in prima pagina per diversi giorni, commenta l'autore del pezzo, un giornalista tibetano trasferitosi negli Usa.
Spesso ci si chiede se le auto-immolazioni tibetane siano un rituale religioso o una protesta politica -scriveva a giugno sul Washington Post Lobsang Sangay, Primo Ministro del governo tibetano in esilio- senza capire che è "a causa della negazione del diritto a mettere in atto forme di rimostranza meno estreme che i tibetani scelgono l'autocombustione." "Abbiamo più volte chiesto al nostro popolo di non ricorrere a gesti tanto drastici come le immolazioni, ma il fenomeno continua anche oggi" ha affermato il capo del governo di Dharaamsala.
All'inizio di settembre un alto funzionario cinese ha ribadito che la fase di stallo in cui vertono i dialoghi sino-tibetani continuerà almeno sino alla fine di quest'anno. Se verrà ripresa la questione Tibet, ha spiegato Xu Zhitao, del United Front Work Dipartment, ufficio che dal 2002 rappresenta Pechino davanti agli emissari tibetani - sarà soltanto per intimare al Dalai Lama di "smetterla con i suoi discorsi separatisti e conquistare la fiducia del governo e del popolo cinese".
La guida spirituale tibetana in una recente intervista alla Reuters aveva parlato di "segni incoraggianti" riferendosi alla prossima generazione di leader che assumerà le redini del paese al prossimo Congresso del Partito, previsto per ottobre. Grandi attese sono riposte nella figura di Xi Jinping, salvo colpi di scena futuro presidente della Repubblica popolare e figlio di Xi Zhongxun, uno dei leader più liberali della Rivoluzione cinese, noto per il suo approccio meno intransigente verso il Tibet.
L'ultimo round dei colloqui tra Pechino e Dharamsala risale al gennaio 2010, da allora il governo cinese si è rifiutato di incontrare la delegazione tibetana. Ma ci sono novità nell'aria: il primo settembre il ricambio al vertice del United Front Work Department ha visto salire alla direzione Ling Jihua, uno degli uomini di Hu Jintao, fino al 31 agosto capo dell'Ufficio Generale del Comitato Centrale del Partito e da alcuni giorni al centro di uno scandalo che vedrebbe coinvolto il figlio. Una "retrocessione", di fatto, quella di Ling -la cui corsa per una delle poltrone del Comitato Permanente del Politburo, il gotha cinese, è ora tutta in salita- sulla quale Dharamsala non può che riporre grandi speranze.
(Pubblicato su Dazebao)
lunedì 3 settembre 2012
"Essere gay è glorioso"
“Non approvare, non disapprovare e non incoraggiare“: è il mantra delle tre negazioni adottato da Pechino in materia di omosessualità. Sufficientemente fumoso da aver permesso negli ultimi anni alla comunità gay dagli occhi a mandorla di driblare i paletti ideologici seminati da secoli di Confucianesimo, Buddhismo e Taoismo, e uscire dallo stato di clandestinità in cui era relegata dalla fondazione della Repubblica Popolare.
Il puritanesimo comunista ha inciso negativamente sulla percezione sociale dell’omosessualità, tanto che al tempo della Rivoluzione culturale (1966-69) non mancarono persecuzioni, con conseguenti lunghi periodi di prigionia e persino esecuzioni. Sin dal 1740 una prima legge contro gli omosessuali tracciò una strada ricca di ostacoli per chi avesse gusti sessuali “diversi”, sino a quando nel 1979 la politica di “Riforma e apertura” non sancì un progressivo allentamento del controllo su tali comportamenti. Non abbastanza, però, da sradicare il pregiudizio che vuole l’omosessualità sinonimo di una dissolutezza figlia dei regimi capitalistici.
Poi a cavallo tra gli anni novanta e l’inizio del XXI secolo le prime vittorie di gay e lesbiche cinesi: nel 1997 la sodomia venne decriminalizzata, mentre nell’aprile del 2001 (ad Hong Kong nel 1980) l’omosessualità fu finalmente rimossa dalla lista delle malattie mentali , sebbene solo un anno prima la corte di Pechino l’avesse definita “anormale e inaccettabile per la Cina“. D’altra parte, nell’estate del 2001, la detenzione di 37 ragazzi gay nella provincia meridionale del Guangdong ha messo in evidenza l’ambiguità con la quale le autorità continuano a trattare l’argomento, riflesso di una politica neutrale, palesemente disinteressata alle problematiche omosessuali che non condanna né tutela la comunità gay. Ciò non ha impedito, tuttavia, agli omosessuali di portare avanti la lotta per l’affermazione dei propri diritti culminata nel 2009 nello Shanghai Pride, primo festival di cultura omosessuale nel Regno di Mezzo.
E nonostante l’opinione pubblica si dimostri accondiscendente verso la libertà sessuale – già all’inizio del nuovo secolo un’indagine su internet rivelava un maggior grado di tolleranza, con il 48,15% dei 10.792 intervistati a favore, 30,9% contrari, 14,46% incerti e 7,26% indifferenti – sulla scia di una campagna volta a ripulire i media mainstream dai contenuti “inadatti”, l’Amministrazione statale di radio, film e televisione, di recente, ha bandito dal grande e piccolo schermo tutte quelle scene alludenti a comportamenti omosessuali, bollandole come “contrarie alla concezione di vita cinese“.
Ultimamente in Cina alcuni episodi hanno calamitato l’attenzione generale sulla questione omosessualità. Lo scorso giugno la stampa internazionale ha mostrato vivo interesse per la storia di Qian Jinfan, ottantenne di Jiaxing, cittadina a 50 chilometri da Shanghai; calligrafo, letterato, funzionario in pensione e da quattro anni “donna”. Nel dicembre del 2008 Qian – che oggi si fa chiamare Yi Ling – ha cominciato ad assumere ormoni e indossare abiti femminili, dando sfogo ad un desiderio nutrito fin da quando era bambino, come ha spiegato al Southern Metropolis Daily.
Il supporto dimostrato dai colleghi e da buona parte del web farebbe pensare ad un cambiamento nella mentalità del Dragone. “Sono stati fatti molti progressi ma la comunità LGBT è ancora alle prese con un sacco di problemi” – ha affermato Wei Jiangang, attivista e fondatore di Queer Comrades, canale televisivo online sulle tematiche omosessuali – “la gente ha ancora paura delle persone ‘diverse’ “.
D’altra parte la tempesta di critiche che si è abbattuta sulla nuova edizione del Contemporary Chinese Dictionary, uscita il 15 luglio, perché priva del termine tongzhi (letteralmente: “compagno”) nella sua accezione più comune di gay, mette in evidenza come la portata del dibattito sui diritti degli omosessuali stia assumendo proporzioni considerevoli anche in Cina.
Oggi il numero dei gay dell’ex Impero Celeste continua ad essere incerto. Se alcune ricerche parlano di un valore compreso tra i 360 mila e i 480mila, le statistiche del governo di Pechino e alcuni studi accademici aggiungono tre zeri, portando il computo a circa 15 milioni. Numeri che, comunque, rapportati alle percentuali ben più elevate degli altri paesi, continuano a non convincere.
La diffidenza riscontrata nella popolazione cinese verso i gay sarebbe da attribuire in parte al fatto che la Cina è venuta a conoscenza dell’omosessualità e dell’Aids più o meno nello stesso periodo, tanto che negli anni ’80, quando entrambi i fenomeni valicarono la Grande Muraglia, “la nazione credeva che essere omosessuale volesse dire avere necessariamente anche l’Aids” ha spiegato ai microfoni del Global Times la nota sessuologa Li Yinhe.
Con una mossa a sorpresa il 1 luglio scorso Pechino ha deciso di rimuovere il bando sulle donazioni di sangue per le lesbiche, introdotto quattordici anni fa nel timore di una possibile trasmissione dell’Hiv. La legge sulle donazioni del 1998, che vieta agli omosessuali di donare il sangue – ancora valida per gli uomini – ha graziato le donne in quanto “meno esposte al contagio”, recita il nuovo emendamento.
Secondo quanto riportato dal South China Morning Post, lo scorso anno un’indagine ha rivelato che più del 50% degli affetti da Aids in Cina è di sesso maschile e ha contratto la malattia attraverso comportamenti omosessuali, mentre molti gay hanno ammesso di avere normalmente rapporti non protetti. Per cercare di tenere sotto controllo il fenomeno le autorità cinesi hanno imposto ai donatori di specificare in un modulo le loro preferenze sessuali; precauzione ritenuta da molti inutile data la facilità con la quale è possibile dichiarare il falso.
Paura, disinformazione o forse tutte e due: un sondaggio condotto dal sito web Sohu.com ha rivelato che il 42% degli 11.540 rispondenti si è detto favorevole al mantenimento dei divieti per motivi di salute pubblica.
Maggior apertura viene, invece, riscontrata a Taiwan, ritenuta da Pechino alla stregua di una “provincia ribelle”. Nel 2011 50.000 persone si riversarono sull’isola per partecipare all’ottava edizione del Gay Pride, ospitato dalla Repubblica di Cina nello stesso anno in cui una cerimonia di massa aveva scandito l’unione simbolica di 80 coppie lesbiche. Poi lo scorso 11 agosto due donne omosessuali di Taipei hanno suggellato il loro amore secondo il rito buddhista presso il seminario Hongshi, nella contea di Taoyuan: primo matrimonio con rito religioso in un paese in cui l’unione civile tra persone dello stesso sesso viene ancora considerata illegale. E’ stato sufficiente il placet della loro guida spirituale e la complicità di una dottrina che tratta l’omosessualità con una certa ambiguità. Quanto basta per aver permesso a Huang Meiyu e You Yating di diventare “marito e moglie“.
(Scritto per Uno sguardo al femminile)
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