lunedì 3 settembre 2012
"Essere gay è glorioso"
“Non approvare, non disapprovare e non incoraggiare“: è il mantra delle tre negazioni adottato da Pechino in materia di omosessualità. Sufficientemente fumoso da aver permesso negli ultimi anni alla comunità gay dagli occhi a mandorla di driblare i paletti ideologici seminati da secoli di Confucianesimo, Buddhismo e Taoismo, e uscire dallo stato di clandestinità in cui era relegata dalla fondazione della Repubblica Popolare.
Il puritanesimo comunista ha inciso negativamente sulla percezione sociale dell’omosessualità, tanto che al tempo della Rivoluzione culturale (1966-69) non mancarono persecuzioni, con conseguenti lunghi periodi di prigionia e persino esecuzioni. Sin dal 1740 una prima legge contro gli omosessuali tracciò una strada ricca di ostacoli per chi avesse gusti sessuali “diversi”, sino a quando nel 1979 la politica di “Riforma e apertura” non sancì un progressivo allentamento del controllo su tali comportamenti. Non abbastanza, però, da sradicare il pregiudizio che vuole l’omosessualità sinonimo di una dissolutezza figlia dei regimi capitalistici.
Poi a cavallo tra gli anni novanta e l’inizio del XXI secolo le prime vittorie di gay e lesbiche cinesi: nel 1997 la sodomia venne decriminalizzata, mentre nell’aprile del 2001 (ad Hong Kong nel 1980) l’omosessualità fu finalmente rimossa dalla lista delle malattie mentali , sebbene solo un anno prima la corte di Pechino l’avesse definita “anormale e inaccettabile per la Cina“. D’altra parte, nell’estate del 2001, la detenzione di 37 ragazzi gay nella provincia meridionale del Guangdong ha messo in evidenza l’ambiguità con la quale le autorità continuano a trattare l’argomento, riflesso di una politica neutrale, palesemente disinteressata alle problematiche omosessuali che non condanna né tutela la comunità gay. Ciò non ha impedito, tuttavia, agli omosessuali di portare avanti la lotta per l’affermazione dei propri diritti culminata nel 2009 nello Shanghai Pride, primo festival di cultura omosessuale nel Regno di Mezzo.
E nonostante l’opinione pubblica si dimostri accondiscendente verso la libertà sessuale – già all’inizio del nuovo secolo un’indagine su internet rivelava un maggior grado di tolleranza, con il 48,15% dei 10.792 intervistati a favore, 30,9% contrari, 14,46% incerti e 7,26% indifferenti – sulla scia di una campagna volta a ripulire i media mainstream dai contenuti “inadatti”, l’Amministrazione statale di radio, film e televisione, di recente, ha bandito dal grande e piccolo schermo tutte quelle scene alludenti a comportamenti omosessuali, bollandole come “contrarie alla concezione di vita cinese“.
Ultimamente in Cina alcuni episodi hanno calamitato l’attenzione generale sulla questione omosessualità. Lo scorso giugno la stampa internazionale ha mostrato vivo interesse per la storia di Qian Jinfan, ottantenne di Jiaxing, cittadina a 50 chilometri da Shanghai; calligrafo, letterato, funzionario in pensione e da quattro anni “donna”. Nel dicembre del 2008 Qian – che oggi si fa chiamare Yi Ling – ha cominciato ad assumere ormoni e indossare abiti femminili, dando sfogo ad un desiderio nutrito fin da quando era bambino, come ha spiegato al Southern Metropolis Daily.
Il supporto dimostrato dai colleghi e da buona parte del web farebbe pensare ad un cambiamento nella mentalità del Dragone. “Sono stati fatti molti progressi ma la comunità LGBT è ancora alle prese con un sacco di problemi” – ha affermato Wei Jiangang, attivista e fondatore di Queer Comrades, canale televisivo online sulle tematiche omosessuali – “la gente ha ancora paura delle persone ‘diverse’ “.
D’altra parte la tempesta di critiche che si è abbattuta sulla nuova edizione del Contemporary Chinese Dictionary, uscita il 15 luglio, perché priva del termine tongzhi (letteralmente: “compagno”) nella sua accezione più comune di gay, mette in evidenza come la portata del dibattito sui diritti degli omosessuali stia assumendo proporzioni considerevoli anche in Cina.
Oggi il numero dei gay dell’ex Impero Celeste continua ad essere incerto. Se alcune ricerche parlano di un valore compreso tra i 360 mila e i 480mila, le statistiche del governo di Pechino e alcuni studi accademici aggiungono tre zeri, portando il computo a circa 15 milioni. Numeri che, comunque, rapportati alle percentuali ben più elevate degli altri paesi, continuano a non convincere.
La diffidenza riscontrata nella popolazione cinese verso i gay sarebbe da attribuire in parte al fatto che la Cina è venuta a conoscenza dell’omosessualità e dell’Aids più o meno nello stesso periodo, tanto che negli anni ’80, quando entrambi i fenomeni valicarono la Grande Muraglia, “la nazione credeva che essere omosessuale volesse dire avere necessariamente anche l’Aids” ha spiegato ai microfoni del Global Times la nota sessuologa Li Yinhe.
Con una mossa a sorpresa il 1 luglio scorso Pechino ha deciso di rimuovere il bando sulle donazioni di sangue per le lesbiche, introdotto quattordici anni fa nel timore di una possibile trasmissione dell’Hiv. La legge sulle donazioni del 1998, che vieta agli omosessuali di donare il sangue – ancora valida per gli uomini – ha graziato le donne in quanto “meno esposte al contagio”, recita il nuovo emendamento.
Secondo quanto riportato dal South China Morning Post, lo scorso anno un’indagine ha rivelato che più del 50% degli affetti da Aids in Cina è di sesso maschile e ha contratto la malattia attraverso comportamenti omosessuali, mentre molti gay hanno ammesso di avere normalmente rapporti non protetti. Per cercare di tenere sotto controllo il fenomeno le autorità cinesi hanno imposto ai donatori di specificare in un modulo le loro preferenze sessuali; precauzione ritenuta da molti inutile data la facilità con la quale è possibile dichiarare il falso.
Paura, disinformazione o forse tutte e due: un sondaggio condotto dal sito web Sohu.com ha rivelato che il 42% degli 11.540 rispondenti si è detto favorevole al mantenimento dei divieti per motivi di salute pubblica.
Maggior apertura viene, invece, riscontrata a Taiwan, ritenuta da Pechino alla stregua di una “provincia ribelle”. Nel 2011 50.000 persone si riversarono sull’isola per partecipare all’ottava edizione del Gay Pride, ospitato dalla Repubblica di Cina nello stesso anno in cui una cerimonia di massa aveva scandito l’unione simbolica di 80 coppie lesbiche. Poi lo scorso 11 agosto due donne omosessuali di Taipei hanno suggellato il loro amore secondo il rito buddhista presso il seminario Hongshi, nella contea di Taoyuan: primo matrimonio con rito religioso in un paese in cui l’unione civile tra persone dello stesso sesso viene ancora considerata illegale. E’ stato sufficiente il placet della loro guida spirituale e la complicità di una dottrina che tratta l’omosessualità con una certa ambiguità. Quanto basta per aver permesso a Huang Meiyu e You Yating di diventare “marito e moglie“.
(Scritto per Uno sguardo al femminile)
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