lunedì 9 settembre 2013
Cina, allarme rosso?
"Il potere deve essere limitato da una gabbia di regolamenti", aveva sentenziato Xi Jinping lo scorso gennaio davanti alla Commissione centrale di ispezione e disciplina. Tra il dire e il fare, però, ci sono di mezzo centinaia di blogger arrestati, decine di attivisti incarcerati, e nuove restrizioni alla libertà di parola. Da ultima la notizia fresca di giornata che chi pubblica commenti diffamatori online potrà essere arrestato nel caso in cui i post incriminati siano stati visualizzati da oltre 5000 utenti o ripostati più di 500 volte (China Daily)
In Cina è allarme rosso. Il giro di vite messo in atto dalla nuova leadership, la cui transizione al potere si è conclusa soltanto nel mese di marzo, ha il sapore di una notte dai lunghi coltelli (ne avevo già parlato qui). Il potere al quale si riferiva il presidente cinese sembra essere tutt'altro che ingabbiato, anzi agisce a briglia sciolta travalicando anche i limiti dettati dalla Costituzione. Le speranze di quanti auspicavano una virata liberale del neosegretario generale sono state travolte da una serie di discorsi di Xi e direttive segrete interne al Partito, usciti allo scoperto sulla scia di una fuga di notizie sempre meno controllabile da parte di Zhongnanhai. I contenuti sono inquietanti; ultima in ordine di tempo una dichiarazione di guerra al web (link), tornata sotto i riflettori appena pochi giorni dopo la pubblicazione sul New York Times di nuovi dettagli circa il controverso Documento numero nove.
La situazione non è delle migliori. Non giova di certo la composizione fortemente conservatrice del Comitato permanete del Politburo, il sancta sanctorum del potere cinese. Eppure non mi sembra del tutto corretto attribuire a Xi Jinping la paternità della stretta sull'opinione pubblica cinese. Come se sulla quinta generazione di leader non pesasse una lunga tradizione di governo con il pungo di ferro. Sono passati soltanto sei mesi da quando Xi ha assunto l'incarico di presente della Repubblica popolare; forse è troppo presto per dare dei giudizi, negativi o positivi che siano. Prima di tutto perché, come si dice da tempo, sarà la riunione plenaria di novembre a chiarire il corso del nuovo governo. Non sembrano esserci in cantiere riforme politiche, almeno come le intendiamo dalle nostre parti, ma per la prima volta si è parlato in maniera insistente di una riforma della politica del figlio unico, dell'hukou e dei campi di lavoro (il sistema verrà presto sospeso, per tre tipi di reati politici, nelle province dello Yunnan e del Guangdong).
In secondo luogo, perché -come accennato sopra- alcune questioni ritenute allarmanti non sono certo una novità in Cina.
Guerra al web
Non ci dimentichiamo che i dati per lo scorso anno -quando a guidare il paese erano ancora Hu Jintao e Wen Jiabao- non sono stati migliori. Il sistema online di pubblica sicurezza della municipalità di Pechino ha proceduto all’eliminazione di 366mila informazioni sul web, punendo 7549 società di internet e mettendo in manette più di 5007 internauti sospettati di crimini, dal commercio illegale alla diffusione di rumors e attacchi alle autorità (dati di fine luglio 2012). All’inizio del “caso Bo Xilai” – arricchito di un’ipotesi golpe avanzata proprio dalla rete – le autorità avevano preferito mantenere il silenzio piuttosto che rispondere con chiarimenti o smentite. Nessuna spiegazione ufficiale, ma la necessità di mettere fine alle congetture di Internet, tra marzo e aprile, portò all'arresto di almeno 6 persone, alla chiusura di circa una quarantina di siti web, nonché alla rimozione di oltre 210 mila post.
Dissidenti
Liu Xiaobo, Yao Lifa, Ai Weiwei, Chen Guangcheng, Yang Hengjun sono solo alcuni dei nomi degli attivisti vittime del giro di vite messo in atto da Pechino negli ultimi anni. Nel marzo 2011 il sito web China Geeks individuava i nomi di 24 dissidenti tra blogger, scrittori e avvocati dei quali si erano perse le tracce. A sei settimane dalla "rivoluzione dei gelsomini", ondata di proteste su ispirazione della "primavera araba", ammontava già a 47 il totale delle voci di dissenso messe a tacere dal governo cinese; numeri destinati a salire a 140 entro il mese di giugno.
Documento numero 9
"Se avessi ricevuto un dollaro per ogni volta che ho letto una dichiarazione simile su un giornale americano nel corso degli ultimi trent'anni, adesso potrei comprarmi un nuovo smartphone". Così Gregory Kulacki, China project manager e senior analyst con alle spalle un ventennio di esperienza in Cina, commentava il report del NYT sul già citato Documento n.9; una nota dell'Ufficio generale del comitato centrale del Pcc rilasciata nel mese di aprile, "contenete una noiosa litania di frasi familiari per incoraggiare i quadri a proteggere l'integrità ideologica."
"Alcuni osservatori cinesi e stranieri sembrano interessati agli appelli populisti di alcuni leader, quali Bo Xilai (...) e scorgono nell'apparente assunzione da parte di Xi Jinping di una propaganda 'rossa' i segnali di una nuova Rivoluzione Culturale", scrive Gulacki, "Quando nel 1984 mi recai per la prima volta in Cina da laureato, la campagna di Deng Xiaoping contro "l'inquinamento spirituale" era appena all'inizio. Nell'autunno del 1989, quando ottenni il mio primo impiego in Cina, la lotta contro la 'liberalizzazione borghese' di Jiang Zemin era agli albori. Proprio come la recente nota (il Documento n.9, ndr), queste precedenti campagne ideologiche si scagliavano contro i valori occidentali (marxismo escluso, ovviamente) e mettevano in guardia dal fatto che forze straniere stavano cercando di cambiare la politica interna della Cina attraverso 'un'evoluzione pacifica'. D'altra parte, la 'società armoniosa' dell'ex Segretario del partito Hu Jintao sembra essere stato un mezzo meno stridente per sottolineare i medesimi concetti: l'importanza del Partito unico e i pericoli delle nozioni liberali di un governo diviso, di un giusto processo con contraddittorio e di una stampa indipendente. Mentre è possibile una rettifica politica da parte di Xi Jinping per mezzo del Documento numero 9, non sono tuttavia visibili i segnali di uno spostamento significativo a sinistra. Piuttosto sembra una manovra molto simile a quelle adottate dai predecessori dell'era post-Mao."
Costituzionalismo
In Cina, il 2013 è cominciato con un aperto dibattito sul costituzionalismo, inaugurato dall'ormai celebre editoriale del Yanhuang Chunqiu (per approfondimenti). Negli ultimi mesi, i media di stato hanno osteggiato questo concetto ritenendolo una minaccia per l'integrità politica e ideologica del Paese. Tuttavia un'eccellente ricerca condotta da China Media Project rivela come le maggiori critiche contro il costituzionalismo non derivino dalla stampa ufficiale quanto piuttosto dalla rete internet, con un'andamento crescente in seguito alla pubblicazione da parte del Partito di una lista di sette argomenti tabù da evitare (valori universali, libertà di parola, società civile, diritti civili, errori storici del Pcc, borghesia, indipendenza della magistratura).
"Personalmente ho assistito a molti cambiamenti politici dalla Rivoluzione Culturale, attraverso gli anni '80, fino ad oggi", scrive Qian Gang, direttore di CMP, "I miei ricordi delle passate campagne ideologiche del Pcc sono molto freschi, ma osservando la polemica sul costituzionalismo, partita a maggio, mi vengono parecchi dubbi. Non mi sembra un movimento preparato e organizzato con cura".
Qian fa poi notare come gli strali avvelenati contro costituzionalismo e valori occidentali siano partiti principalmente dalla versione "overseas" di People's Daily e da Red Flag, mentre -da maggio ad agosto- il People's Daily e Seeking Truth (che gestisce Red Flag) non si sono mai pronunciati a riguardo. A ciò si aggiunge un'ulteriore costatazione: gli scrittori che hanno sostenuto il costituzionalismo hanno firmato gli articolo con il loro vero nome. Si tratta di persone già note nel panorama culturale cinese per le loro posizioni particolarmente aperte. Quanto ai loro detrattori, sembrano invece essere caratterizzati da una scrittura irregolare e povera, piena zeppa di reminiscenze della Rivoluzione Culturale. "Trovo davvero difficile credere che questi possano far parte di una squadra messa a punto dal Partito per osteggiare la corrente reazionaria" chiosa Qian.
Xi Jinping un nuovo Mao?
"Fin dall'inzio del suo mandato in molte occasioni ufficiali ha diffuso un'immagine di frugalità, evitando lo sfarzo cerimonioso e rispolverando l'umiltà essenziale dello stile maoista." No, non stiamo parlando di Xi Jinping, ma bensì di Hu Jintao che Marina Miranda, in "La Cina dopo il 2012", accosta per principi ispiratori niente meno che alla Nuova Sinistra, il simbolo del conservatorismo cinese. Alle frange di estrema sinistra Hu avrebbe strizzato l'occhio più che altro per ragioni di realpolitik, scrive Miranda, dando un enorme impulso allo sviluppo del nazionalismo a partire dal 2002. Vi dice niente?
Ultimamente si parla di preoccupanti richiami di Xi Jinping alla retorica e alla terminologia maoista; lezioni di marxismo per i giornalisti cinesi e rinvigorimento della "linea di massa". Ma non dimentichiamo che nel 2003, durante il discorso di commemorazione dei 110 anni dalla morte del Grande Timoniere, Hu Jintao sottolineava - allineandosi al giudizio ufficiale del Partito- come gli errori commessi da Mao negli ultimi anni della sua vita fossero da considerarsi secondari rispetto ai suoi grandi meriti. Nel 2009, poi, in occasione delle celebrazioni per i sessant'anni della fondazione della Rpc, Hu non è comparso in abiti occidentali come gli altri otto membri del Comitato permanente del Politburo, ma bensì in'uniforme di foggia maoista.
E se alla stampa statale piace ritrarre Xi Jinping come "l'uomo del popolo", l'agenda politica di Hu Jintao si proponeva ugualmente di dare "impulso ad un nuovo programma caratterizzato sulla carta da una grande attenzione ai problemi sociali e ai molti squilibri causati dalla strabiliante, ma selvaggia, crescita economica degli ultimi anni".
Chinaleaks
Un'ultima considerazione. Fin dai primi mesi del 2013 le aspettative riformiste riposte in Xi Jinping erano franate con la diffusione di un discorso pronunciato durante il viaggio al Sud. In quell'occasione il (non ancora) presidente aveva rammentato gli errori commessi dall'Unione Sovietica, collassata a causa del lassismo ideologico del riformista Mikhail Gorbaciov. Concetto poi ripreso ai primi di maggio in un discorso in cui ha predetto la morte del Partito comunista cinese qualora venga rinnegata la figura di Mao, così come la condanna di Stalin è costata cara all'URSS, riportava il Guangming Daily. Allo stesso modo l'invettiva caustica scagliata contro i rumors è apparsa in tutta la sua crudezza soltanto di recente, sebbene il 19 agosto la Xinhua avesse già riportato l'incontro tra Xi e i funzionari della propaganda sorvolando sul linguaggio bellicista adottato dal presidente.
Sembra, insomma, che il lato più conservatore dell'uomo forte di Pechino sia emerso più che altro per vie traverse, attraverso fonti anonime -arresti degli attivisti a parte. La facilità con la quale stanno affiorando sempre nuovi leaks rompe con una tradizione che vuole il Partito ammantato nel più totale riserbo. Potrebbe, forse, avere senso chiedersi quante direttive minacciose non sono riuscite a venire a galla sotto le precedenti amministrazioni.
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