venerdì 30 maggio 2014

Il Dragone guarda all'energia marina


Con l'ambizioso obiettivo di raggiungere i 2000 megawatt entro il 2020, al momento la Gran Bretagna è il motore trainante del settore dell'energia marina a livello mondiale. La Cina la insegue con un progetto che ha, non a caso, 'proporzioni cinesi': una Grande Muraglia subacquea del costo di 30 miliardi di dollari, lunga 30 chilometri e con una potenza installata di 1 gigawatt. La struttura a forma di T, nel Mar Giallo, è dotata di turbine a pale che generano energia sfruttando le correnti di marea e progettate in modo da consentire alla fauna marina di nuotargli attorno senza rischi. Come scrive il 'Wall Street Journal', Pechino ha già speso 3 milioni di dollari in studi di fattibilità, ma i tempi di costruzione si aggirerebbero sui dieci anni, nonostante il piano abbia ricevuto il sostegno del Governo dell'Aia e di otto compagnie olandesi. Nel caso in cui andasse tutto per il verso giusto, l'impianto sarebbe in grado di fornire elettricità superiore a quella generata da 2 reattori nucleari di grandi dimensioni.

Non solo. La Cina sta anche lavorando in joint venture con la statunitense Lockheed Martin per sviluppare al largo della costa meridionale un impianto per la conversione dell'energia termica oceanica da 10 megawatt, che dovrebbe costare tra i 300 milioni e i 500 milioni di dollari. Funziona così: come, nella maggior parte dei sistemi OTEC (Ocean Thermal Energy Conversion) l'ammoniaca -che ha un basso punto di ebollizione- viene vaporizzata grazie all'acqua calda di superficie e utilizzata per mettere in moto una turbina. L'acqua fredda è utilizzata per raffreddare l'ammoniaca affinché ritorni liquida, cioè si condensi. Questo restituisce ammoniaca alla fase iniziale del ciclo e spinge il vapore attraverso la turbina (quando l'ammoniaca condensa si crea un vuoto) rendendo il ciclo più efficiente. Se l'energia così prodotta venisse poi usata per potenziare auto elettriche o produrre idrogeno, sarebbe sufficiente per eliminare 1,3 milioni di barili di petrolio all'anno e ridurre le emissioni legate al carbone di mezzo milione di tonnellate.

Il punto è proprio che, dopo trent'anni di crescita a tappe forzate, l'ex Impero Celeste oggi si ritrova avvolto quasi quotidianamente da una fitta coltre grigia a causa della sua dipendenza cronica dal carbone, il mezzo più economico e più facilmente reperibile di cui Pechino dispone per produrre energia. La Cina è ancora alle prime armi, ma le prospettive future rendono l'energia pelagica particolarmente 'ghiotta', sopratutto in virtù dei suoi 14500 chilometri di costa, a cui si aggiungono 6900 isole con superficie maggiore ai 500 metri quadrati. Il 1 aprile 2010, la Repubblica popolare ha emendato la Legge sull'Energia Rinnovabile, compiendo un 'grande balzo in avanti' nella ricerca e nello sviluppo delle rinnovabili. Nello stesso anno la capacità teorica di energia oceanica off-shore era superiore a 2750 gigawatt, tre volte la capacità elettrica installata nel 2009, si legge in un rapporto del PECC (Pacific Economic Cooperation Council). La capacità attualmente sviluppabile è concentrata per il 50% nella provincia meridionale del Zhejiang, che vanta 37 corsi d'acqua lungo la sua linea costiera, mentre Fujian e Liaoning messi insieme contano per un 42%. (Segue su L'Indro)

mercoledì 28 maggio 2014

Pechino ci (ri)mette la faccia


Era il 2012 quando due alti funzionari del Dipartimento di Stato americano e del Pentagono tennero una riunione straordinaria in quel di Pechino. Per la prima volta Washington poteva mettere alle strette il Governo cinese, spiattellandogli in faccia le prove inconfutabili delle attività di hackeraggio condotte dal PLA (Esercito popolare di liberazione) ai danni di compagnie statunitensi. Il rapporto illustrava dettagliatamente quali dati erano stati sottratti, come e quando. La reazione? Allibiti e oltraggiati, i padroni di casa pare abbiano risposto qualcosa del tipo: «Ma come? Voi venite qui e ci accusate? Noi queste cose non le facciamo mica!»

Una risposta molto simile è stata rispolverata la scorsa settimana, quando il Grand jury della Pennsylvania ha accusato 5 militari cinesi dell'unità 61398 di aver rubato dati sensibili dai computer di sei società americane operanti nel settore nucleare, solare e siderurgico. Tra le vittime compaiono grandi nomi come Alcoa, United States Steel Corporation, Westinghouse Electric e Solar World AG. «Le attività di hackeraggio sembrano essere state condotte con l'unico scopo di avvantaggiare società e 'altri interessi' in Cina alle spese delle aziende americane», ha scandito in conferenza stampa il Procuratore generale Eric H. Holder, «questa è una tattica che gli Stati Uniti condannano categoricamente».

Le ultime indagini si riferiscono ad attività svolte nel periodo 2006-2014 e arrivano sulla scia del rapporto stilato dall'agenzia di intelligence statunitense Mandiant, la quale lo scorso anno aveva identificato l'origine di tentativi di spionaggio informatico in un palazzo di 12 piani nel cuore finanziario di Shanghai, a Pudong, proprio dove l'unità militare 61398 ha i suoi uffici. Secondo alcune stime, i danni arrecati alle società colpite ammonterebbero a 400 miliardi di dollari l'anno. Il tutto mentre, strangolate dalla crisi, decine di aziende americane sono state costrette a chiudere i battenti e migliaia di impiegati hanno perso il lavoro.

Dal canto suo, Pechino respinge le accuse definendole «fatti inventati», bacchetta il nuovo ambasciatore americano, Max Baucus, entrato in carica da nemmeno sei mesi, e taccia Washington di 'doppiogiochismo'. Letteralmente: «L'arroganza dello 'zio Sam', probabilmente il più grande hacker del mondo, è semplicemente ridicola. Ci sono molte prove del regolare spionaggio americano ai danni di società straniere per trarre benefici economici, avvalorate dalle testimonianze del whistleblower americano Edward Snowden», scriveva sabato l'agenzia di stampa cinese 'Xinhua'.

Sapendo di calpestare un terreno scivoloso, il Governo americano ha tentato fin da subito di fare un chiaro distinguo tra spionaggio 'nobile' e spionaggio 'sleale', dove nella prima categoria rientrerebbero i casi che coinvolgono la sicurezza nazionale, nella seconda tutti quegli episodi rubricabili come furti di proprietà intellettuale e che, pertanto, hanno una natura prettamente economica. In sostanza, la tesi americana ricalca quanto dichiarato da Barack Obama nella Presidential Policy Directive 28, documento confezionato appositamente per ridimensionare lo scandalo innescato dai leaks di Snowden, che vieta «la raccolta di informazioni commerciali private o segreti commerciali di Paesi stranieri...per permettere un vantaggio competitivo alle compagnie e al business statunitense».

Viene da sé che una tale distinzione risulta pressocché incomprensibile in un Paese dove potere militare e civile sono separati da un confine poroso, dove lo Stato coincide con il Partito, e dove le aziende statali - principali beneficiarie dello spionaggio cinese- contribuiscono alla sicurezza nazionale e incarnano il rapporto perverso che intercorre tra il mondo degli affari e i poteri forti. In occasione del Terzo Plenum del Pcc, lo scorso autunno la dirigenza cinese ha annunciato al mondo 'riforme epocali' e la nascita di una Commissione di Sicurezza Nazionale presieduta da Xi Jinping, che oltre a ricoprire il ruolo di Presidente della Repubblica Popolare e Segretario generale del Partito, è anche capo della Commissione Militare Centrale. Il nuovo consiglio -che risponde direttamente al Comitato permanente del Politburo e non è da considerarsi un organo governativo in senso proprio- ha il compito principale di far fronte alle 'minacce non convenzionali' (forze estremiste e contaminazioni ideologiche in stile occidentale) con un particolare focus sulla cybersicurezza. Più recentemente Xi Jinping ha assunto anche la guida di un gruppo centrale per la sicurezza di internet e dell'informatizzazione, a rimarcare come tra i palazzi del potere il cyberspazio sia ormai ampiamente ritenuto una delle maggiori fonti di instabilità.

"Stati Uniti e Cina hanno politiche economiche profondamente diverse. Lo spionaggio di Washington colpisce l'innovazione tecnologica di altri Paesi, ma i dati non vengono inoltrati alle società americane, che sono aziende private. Nel caso cinese, invece, le conoscenze acquisite illegalmente vengono passate ai colossi di Stato e delle società pubbliche per accrescerne la competitività a livello internazionale", spiega a 'L'Indro' Alice Miller, docente di Storia e Politica cinese presso l'Università di Stanford.

I file di Snowden, d'altronde, comprovano frequenti incursioni americane nei server di Huawei, leader nella produzione e commercializzazione di apparecchiature di rete e telecomunicazioni. Ma se l'interesse di Washington per il colosso cinese nasce sopratutto dalla volontà di fare chiarezza sui rapporti ambigui che intercorrono tra il gruppo e il PLA, allo stesso tempo, il Governo americano avrebbe cercato di trarre vantaggio dall'ingresso nei server di Huawei nel momento in cui la tecnologia dell'azienda fosse stata venduta in altri Paesi. Fattore che rende la paternale del Dipartimento della Giustizia Usa ancora più inconsistente dal punto di vista cinese.

E', tuttavia, ancora poco chiaro quali benefici la Casa Bianca spera di ottenere sottoponendo Pechino alla pubblica gogna. "Le accuse riflettono la frustrazione degli ufficiali americani dopo i molti ed inutili avvertimenti" ci dice David Lampton, Direttore di Studi Cinesi alla Johns Hopkins e Presidente dell'Asia Foundation. Sembrerebbe trattarsi di un atto dimostrativo volto sopratutto a placare la comunità degli affari statunitense, stufa di raccogliere le sfide impossibili della concorrenza sleale cinese. Nessuno si aspetta che Pechino estradi i 5 hacker, né che la smetta di ficcare il naso nel business americano. Ma considerata l'importanza attribuita in Asia 'al salvare la faccia', ci sono buone probabilità che l'umiliazione incassata dalla Cina davanti al mondo intero indisponga ancora di più i leader di Zhongnanhai. Per il momento le accuse del Grand jury hanno avuto come effetto immediato l'interruzione dei lavori del U.S.-China Internet Working Group, primo esperimento di cooperazione tra Pechino e Washington nel settore della sicurezza cibernetica.

Nella giornata di martedì, il Governo cinese ha rilasciato i risultati di una ricerca indipendente dell'Internet Media Reserach Center, che confermerebbero quanto già sostenuto da Snowden. Ovvero che «gli Stati Uniti sono andati ben oltre la legale logica dell'anti-terrorismo». Ancora da confermare le possibili rappresaglie ai danni di IBM, avvertita dalle autorità cinesi come un pericolo per la sicurezza nazionale. Secondo quanto riportava ieri 'Bloomberg', Pechino starebbe facendo pressione sulle proprie banche affinché sostituiscano i server di fascia alta dell'azienda statunitense con surrogati 'made in China'. Mentre la scorsa settimana era già arrivato il no al sistema operativo Windows 8 nei computer utilizzati dagli organi di Stato.

Da anni tra le due sponde del Pacifico è in corso una battaglia commerciale che colpisce trasversalmente vari settori, dagli pneumatici ai servizi di pagamento elettronici, passando per i pannelli solari. United States Steel e Allegheny Technologies, SolarWorld e United Steelworker avevano tutte e quattro pubblicamente chiesto aiuto alla WTO (Word Trade Organization) o al Dipartimento del Commercio americano per far fronte alle politiche commerciali disinvolte di Pechino; pare che soltanto due delle società identificate dai procuratori federali come bersagli degli hacker cinesi non avessero già dispute in corso con il Dragone. A questo punto non è da escludere che il Governo cinese decida di indirizzare la propria vendetta sugli investitori americani in Cina, con costi che si prefigurano salatissimi per i brand a stelle e strisce. Sopratutto alla luce di un 2013 particolarmente turbolento per le molte multinazionali straniere oltre la Muraglia, finite sotto la lente d'ingrandimento della NDRC (National Development and Reform Commission) a causa di presunte irregolarità.

Ma non è soltanto il mondo del business a tremare. Come fa notare Robert Daly, direttore del Kissigner Institute on China, accusando membri dell'Esercito di crimini internazionali (con tanto di manifesti 'wanted'), gli Stati Uniti rischiano di incrinare i rapporti militari tra i due Paesi, reduci da un laborioso processo di distensione che -salvo ripensamenti- dovrebbe culminare la prossima estate nel debutto cinese al Rimpac 2014, l'esercitazione marittima internazionale più grande del pianeta. (Segue su L'Indro)

domenica 25 maggio 2014

Russia e Cina, una tortuosa rinascita



100 miliardi di dollari di scambi bilaterali nell'arco di due anni, 200 miliardi entro il 2020. E forniture di gas siberiano per un valore stimato di 400 miliardi di dollari. Le relazioni sino-russe vivono un periodo di rinascita, sono i numeri a dirlo. Eppure c'è ancora chi tra i due intravede gli strascichi di una circospezione risalente ai tempi della labile alleanza tra Sun Yat-sen e il Comintern (1923), poi degenerata a causa della riluttanza di Mao Zedong ad accettare le direttive del "grande fratello socialista". Toccò aspettare il 16 maggio del 1989 per vedere un segno di disgelo tra i due giganti d'Eurasia: Repubblica popolare e Unione Sovietica ricominciavano da una stretta di mano. Quella tra Deng Xiaoping e Mikhail Gorbachev, che portò alla normazione dei rapporti sino-sovietico dopo trent'anni di stallo.

La crisi Ucraina ha contribuito a riavvicinare le due potenze, ora che le storiche frizioni sono ormai alle spalle e le pretese dirigiste di Washington in Asia necessitano di essere contrastate da un fronte coeso. Come scrive Stefano Vernole sulla rivista di geopolitica Eurasia, "il gioco 'duro' attuato da Washington tramite i suoi satelliti di Bruxelles ha costretto il capo del Cremlino ad abbandonare le sue storiche esitazioni verso l’Ostopolitik e a virare in maniera decisa a favore dell’asse eurasiatico Russia-Cina-Iran prospettato già all'inizio degli anni Novanta da Evgenij Primakov e dalla sua dottrina geopolitica".

Le dispute territoriali con le Nazioni asiatiche vicine rendono la liaison con Mosca particolarmente importante per Pechino; allo stesso tempo l'isolamento in cui è piombata la Russia, dopo i fatti di Crimea, rende l'alleanza con il Dragone non più soltanto vantaggiosa, ma addirittura necessaria. La speciale intesa che intercorre tra i rispettivi leader ha finora contribuito a rafforzare la partnership strategica. Nel marzo 2013, la Russia fu scelta dal neo-presidente cinese Xi Jinping come meta del suo primo viaggio di Stato. Xi vi ritornò più tardi ben altre due volte in occasione del G-20 e all'inizio dell'anno per prendere parte alla cerimonia d'apertura dei Giochi olimpici invernali di Sochi. Soltanto pochi giorni fa i due leader hanno fir­mato una una richie­sta con­giunta per­ché la comu­nità inter­na­zio­nale "ces­si di usare il lin­guag­gio delle san­zioni uni­la­te­rali e di inco­rag­giare atti­vità tese a cam­biare il sistema costi­tuzionale di un Paese stra­niero". Chiara allusione ai fatti in Ucraina.

Il 20 maggio Putin è volato a Shanghai per presenziare al CICA (Conference on Interaction and Confidence Building Measures in Asia), summit sulla sicurezza asiatica che riunisce 26 Stati asiatici. Lo stesso giorno Mosca e Pechino hanno dato il via alla "Joint-Sea 2014", esercitazioni navali congiunte nelle acque agitate del Mar Cinese Orientale dove il Dragone ha una causa in sospeso con Tokyo per la sovranità delle isole Diaoyu/Senkaku, mentre - più a nord - l'arcipelago delle Curili è aggetto di una disputa molto più 'soft' tra il governo russo e quello nipponico. E' la terza volta in tre anni che le rispettive marine tengono esercitazioni lungo la costa cinese. Da quando la presidenza della Repubblica popolare è passata nelle mani di Xi, Mosca ha mostrato una maggiore disponibilità a condividere la propria tecnologia militare. A ridosso della prima visita del presidente cinese nella capitale russa, girarono voci di importanti accordi per l'acquisto di ben quattro sottomarini a propulsione indipendente Classe Lada, così come di ventiquattro caccia multiruolo Su-35. Mentre più di recente Putin parrebbe aver approvato anche la vendita del più avanzato sistema di difesa antimissile S-400.

Qualcuno ha fatto notare che la politica estera muscolare di Xi Jinping nell'Asia Pacifico potrebbe essere addirittura incoraggiata dall'aggressività russa in Crimea, nonostante la Cina professi 'la non ingerenza negli affari altrui', considerate le pretese indipendentiste/separatiste che Pechino si trova a gestire in casa propria (leggi: Taiwan, Xinjiang e Tibet) e sulle quali non vuole si metta bocca. Il China Daily, uno dei quotidiani di norma più soft della Repubblica popolare, commentava la visita di Putin a Shanghai auspicando una maggiore collaborazione tra Pechino e Mosca nel "preservare l'ordine internazionale e la sicurezza globale", sopratutto in chiave anti-giapponese. "La cooperazione tra i due Paesi è particolarmente urgente alla luce dei tentativi allarmanti da parte del Premier nipponico Shinzo Abe di calpestare la storia della Seconda Guerra Mondiale e ribaltare l'ordine stabilito nel dopoguerra".

Tuttavia, finora, Pechino ha mostrato una maggiore cautela nel muoversi sullo scacchiere internazionali. Lo dimostra l'astensione avanzata in occasione del referendum sulla Crimea, un vero e proprio tradimento per Mosca, che invece esercitò il suo diritto di veto al Palazzo di Vetro bloccando la risoluzione di Usa & Co., pur venendo mollata dal suo più prezioso alleato. Oltre la muraglia molti ricordano ancora i due "pseudo-referendum" russi che costarono alla Cina la perdita della Mongolia (1945) e del Tannu Uriankhai (1921) per complessivi 2 milioni di chilometri quadrati di territorio.

Allo stesso tempo, i numeri sul commercio bilaterale snocciolati dal presidente russo alla stampa cinese rimangono ancora molto lontani dalle cifre macinate da Repubblica popolare ed Europa (540 miliardi di dollari), suo primo partner commerciale. I 200 miliardi preannunciati per il 2020 sono ancora lontani dagli attuali 330 miliardi totalizzati da Pechino negli scambi con il "nemico" giapponese. Restano diversi dubbi anche riguardo lo storico accordo sul gas, raggiunto mentre Putin si trovava a Shanghai, dopo dieci anni di trattative sul prezzo e che dovrebbe assicurare alla Cina 38 miliardi di metri cubi di gas russo per trent'anni a partire dal 2018. La segretezza dei dettagli non chiarisce la natura dell'intesa, né fa luce sul prezzo finale. Pare comunque che Pechino sia riuscito a ottenere uno sconto offrendo un prestito di circa 50 miliardi di dollari per lo sviluppo dei giacimenti di gas e la costruzione del gasdotto dalla Russia al confine cinese.

Come ricorda la rivista economico-finanziaria Caixin, i precedenti ci insegnano che quando si ha a che fare con accordi energetici le inversioni a U non sono una rarità. E' già avvenuto con la russa Yukon, che ne 2003 si impegnò a coprire un terzo delle importazioni di petrolio del Dragone entro il 2030. Soltanto un anno dopo il piano saltò a causa dell'arresto "per evasione fiscale" del proprietario della società, Mikhail Khodorkovsky, acerrimo nemico di Putin rimesso in libertà con un gesto di magnanimità pre-Sochi. Ugualmente, il sistema di pipeline che avrebbe dovuto pompare oro nero dai giacimenti di Angarsk, in Siberia, fino a Daqing, nella Cina settentrionale, non è mai entrata in funzione. A complicare i giochi, parrebbero esserci una serie di gruppi liberali filoccidentali, ultranazionalisti e burocrati del Far East russo ostinatamente contrari ad un'eccessiva dipendenza dalla Cina.

Da parte sua, Pechino ha già provveduto a diversificare i suoi fornitori e a coltivare più intensamente le proprie amicizie in Medio Oriente, senza troppo entusiasmo da parte di Mosca. Nel 2009 è stata completata una prima parte del gasdotto costruito in joint venture da Cina, Kazakistan, Uzbekistan e Turkmenistan. Lo scorso autunno, durante il suo tour in Asia Centrale, Xi ha presenziato all'inaugurazione del giacimento turkmeno di Galkynish, il secondo al mondo per riserve di gas, dal quale Pechino attingerà 25 miliardi di metri cubi di gas a partire dal 2025. Mentre in Kazakistan, il presidente cinese si è portato a casa accordi di cooperazione energetica per trenta miliardi di dollari, con tanto di ingresso nei giacimenti di petrolio di Kashagan da parte del colosso di stato China National Petroleum Corporation.

(Scritto per Uno sguardo al femminile)



mercoledì 21 maggio 2014

Se Mosca fa sul serio e Pechino l'appoggia


Mentre la Seconda Guerra Mondiale volgeva al termine, i rappresentanti delle 44 Nazioni alleate si riunirono a Bretton Woods, New Hampshire, nel tentativo di creare un nuovo ordine mondiale. Con gran parte delle economie decimate dai conflitti internazionali, gli Stati Uniti emersero come nuovi leader globali; relativamente giovani ed economicamente agili, si apprestavano a rimpiazzare una potenza ormai morente: la Gran Bretagna lasciava il suo storico primato piena di debiti e devastata dalla guerra.
Nasceva un sistema 'gold exchange', basato su rapporti di cambio fissi tra le valute, tutte agganciate al dollaro a sua volta agganciato all'oro. Fino quando, in una notte d'agosto del 1971, il Presidente americano Richard Nixon decise di interrompere la convertibilità dei biglietti verdi in oro. Due anni più tardi nascevano i 'petrodollari': l'Arabia Saudita e gli Stati Uniti raggiungevano un accordo in base al quale ogni barile di petrolio acquistato dai sauditi sarebbe dovuto essere pagato in dollari; qualsiasi Paese che avesse voluto comprare oro nero da Riyad avrebbe dovuto prima cambiare la propria moneta in valuta statunitense. Per dimostrare la propria gratitudine, Washington offrì al fidato partner armi e protezione dai vicini, Israele compreso. Nel 1975 il sistema venne esteso a tutte le Nazioni OPEC: la bilancia commerciale veniva sostenuta dal ruolo della moneta americana come riserva di valuta e il dollaro diventava la moneta sovrana delle transazioni petrolifere. E' stato proprio il ruolo egemonico dei biglietti verdi come valuta globale ad assicurare agli Stati Uniti la leadership economica mondiale, nonostante deficit e debito pubblico alle stelle.

Ma per qualcuno è arrivato il momento di cambiare un sistema che non rispecchia più gli equilibri geopolitici, ormai visibilmente sbilanciati a Oriente. Se ne parla ormai da tempo. Nel 2011, lo stesso Fondo Monetario Internazionale sostenne, per bocca di Dominique Strauss-Kahn, la necessità di utilizzare come nuova moneta internazionale per il commercio globale i cosiddetti 'diritti speciali di prelievo', il cui valore viene calcolato giornalmente sulla base di un paniere delle valute internazionali più importanti, ovvero dollaro americano, euro, sterlina e yan giapponese, ai quali si punta di aggiungere in futuro anche lo yuan/renminbi cinese. (Segue su L'Indro)


lunedì 19 maggio 2014

Crisi identitaria di una 'vittima accidentale'


Negli ultimi tempi, si sta facendo strada l'ipotesi di un fil rouge tra un capo e l'altro dell'Eurasia. Come se l'aggressività russa in Ucraina abbia indirettamente ispirato o parzialmente giustificato l'escalation muscolare di Pechino in Estremo Oriente ai danni di Paesi più piccoli e militarmente deboli. Schermaglie nate da mire energetiche, ma in grado di rimescolare le carte dell'assetto geopolitico mondiale, se coniugate ad una buona dose di patriottismo. Sopratutto nel Mar Cinese, dove alleanze storiche e intese più recenti legano diversi attori della regione ad una potenza del calibro degli Stati Uniti. L'ultima vittima dell'assertività cinese è stato il Vietnam, per l'appunto uno della cerchia dei 'deboli' in quanto -a differenza di Giappone, Filippine, Corea del Sud e Taiwan- non protetto da alcun trattato di mutua difesa con Washington. Ma che recentemente, ricuciti gli strappi ereditati dalla Guerra Fredda, si è lentamente spinto verso l'orbita americana proprio in funzione anti-Pechino. 

Tutto è cominciato il 1 maggio con lo spostamento di una piattaforma petrolifera della CNOOC (China National Offshore Oil Corporation) dalle acque a sud di Hong Kong al controverso tratto di mare che circonda le isole Paracel,strappate dalla Repubblica popolare ad Hanoi nel 1974. Cinque anni dopo, sullo sfondo della guerra cambogiana, il Vietnam filosovietico e la Cina, tradizionale alleata dei Khmer Rossi, si affrontavano in un breve conflitto nel solco della lotta fratricida all'interno dello schieramento comunista internazionale. Le relazioni sino-vietnamite cominciarono a migliorare soltanto in seguito al ritiro delle truppe di Hanoi dalla Cambogia (1989) e con il crollo dell'Unione Sovietica (1991). Nel 1999, dopo lunghe negoziazioni, i due paesi siglarono un trattato per la delimitazione dei rispettivi confini, ma il nodo delle isole Paracel (così come quello delle vicine Spratly) rimase irrisolto. La controversa piattaforma petrolifera si trova proprio a 15 miglia dall'atollo più a sud dell'arcipelago e 130 miglia a largo dalla costa vietnamita, ovvero all'interno della piattaforma continentale e della Zona economica esclusiva controllata da Hanoi. Secondo l'Unclos (Convenzione Onu sul diritto del mare), la Zee può raggiungere un'estensione massima di 200 miglia nautiche e garantisce allo Stato costiero di riferimento una serie di diritti tra cui quelli di esclusività in materia di esplorazione, sfruttamento, conservazione e gestione delle risorse naturali. Facendosi scudo dei numeri, il Governo vietnamita ha definito le esplorazioni della CNOOC nelle sue acque "illegali". Pechino, da parte sua, ha replicato che la piattaforma si trova a 17 miglia nautiche da Triton, una delle Paracel che la Repubblica popolare occupò nel '74. La tenzone verbale è sfociata in un confronto navale a cannonate d'acqua, che è costato al Dragone le critiche americane. (Segue su L'Indro)

giovedì 15 maggio 2014

Ombre cinesi sul Continente Nero


Cinquant'anni fa la Cina guardò al terzo Mondo per cercare di uscire dal suo isolamento diplomatico. Tra il dicembre 1963 e il febbraio 1964, il Premier Zhou Enlai gettò le basi delle relazioni sino-africane con una visita storica nel Continente Nero; primo leader cinese a metter piede su suolo africano dal 1949, con lo scopo conclamato di sostenere i movimenti rivoluzionari di liberazione nazionale e dei giovani governi socialisti usciti dalla decolonizzazione. Nasceva così un'intesa tra il più grande Paese in via di sviluppo e il Continente che oggi ospita i Paesi con i più elevati tassi di crescita economica al mondo.

Fin dal 2000, Pechino si è impegnato a firmare accordi commerciali e a elargire prestiti in cambio di materie prime nell'ambito della strategia del 'go-out', di cui è segno tangibile l'incremento nel volume di scambi tra i due partner, schizzato dagli iniziali 10 miliardi di dollari ai 210 miliardi del 2013. Nel 2009 la Cina ha scavalcato gli Stati Uniti, divenendo il principale partner commerciale del Continente Nero. Oggi oltre 2500 società cinesi operano in Africa con investimenti diretti che lo scorso anno hanno toccato i 25000 milioni di dollari. Ma la convivenza non è sempre stata idilliaca e negli ultimi cinque anni diverse opere infrastrutturali 'made in China', dai bacini idrici agli stadi di calcio, sono state bersagliate dal risentimento delle comunità locali.

Non sono nemmeno mancati episodi di violenza. Nel 2010, in Zambia, due manager cinesi furono accusati di avere sparato ai minatori per una controversia di lavoro. Scontri successivi causarono la morte di un operaio cinese e il ferimento di altri due. Lo scorso anno, il governo dello Zambia ha sequestrato una miniera di carbone cinese a gestione privata accusando il management di aver trascurato sicurezza, salute dei lavoratori e impatto ambientale. Soltanto nel mese di marzo lavoratori del petrolio in Chad e Niger hanno incrociato le braccia in segno di protesta per i magri salari retribuiti dalle compagnie cinesi per le quali lavoravano.

Il rischio è che il degenerare della situazione possa inficiare il business cinese. Come fa notare il 'Wall Street Journal', dopo una fortunata serie di accordi, sembra che negli ultimi anni la Cina sia diventata più oculata nelle sue spese in Africa, forse risentita da qualche cattivo affare. Risulta infatti che gli investimenti diretti cinesi nel Continente Nero siano calati dalla cifra record di 5,5 miliardi del 2008, ai 3,2 miliardi di dollari del 2011, per poi attestarsi sui 2,5 miliardi dello scorso anno. (Segue su L'Indro)


lunedì 12 maggio 2014

Il Porto Profumato assediato dai rifiuti


Per la seconda volta nel giro di un mese, critiche e divergenze hanno nuovamente spaccato a metà il Consiglio Legislativo di Hong Kong (Legco). La questione è quella -letteralmente- opprimente delle montagne di rifiuti che sovrastano l'ex colonia britannica. Entro il 2019 tutte e tre le discariche situate nei Nuovi Territori raggiungeranno la loro massima capacità; una prospettiva, questa, che agli occhi di molti rende la risoluzione del problema non più procrastinabile.

Da diverso tempo un sottocomitato del Legco è alle prese con un piano di studio per l'estensione di 13 ettari dell'impianto di Tseung Kwan O, il più piccolo dei tre, che dovrebbe arrivare acquisire ulteriori 6,5 milioni di metri cubi di spazio, per un costo di 1,9 miliardi di HK$. A ciò si aggiunge la proposta per la costruzione di un inceneritore da 18 miliardi di HK$ sull'isola di Shek Kwu Chau, a sud di Lantau, che -secondo stime del Governo- brucerà 3000 tonnellate di rifiuti al giorno. Lo scorso anno la commissione aveva già destinato 35 milioni di HK$ per uno studio di fattibilità sull'ampliamento dell'impianto di Tuen Mun, e 9 miliardi di HK$ sono stati stanziati per l'estensione della discarica di Ta Kwu Ling. Entrambi i budget sono in attesa dell'approvazione da parte della Commissione per le Finanze, mentre i timori dei residenti e dei legislatori dell'Alleanza Democratica per l'impatto ambientale continuano a ritardare i lavori. Ma di tempo non c'è n'è più.

Per il Segretario per l'Ambiente Wong Kam-sing si tratta di "un'ultima risorsa". Tirando le somme, "qualcuno dei membri del consiglio ha soluzione alternative per risolvere il problema dell'igiene pubblica?" ha domandato al montare delle polemiche tra il pubblico presente, preoccupato per le ripercussioni ambientali.
(Segue su L'Indro)

venerdì 9 maggio 2014

Libertà religiosa 'in salsa cinese'


12 anni di lavoro e 30 milioni di yuan (4,7 milioni di dollari) ridotti in macerie. Dopo un mese di inutili proteste da parte dei fedeli, la scorsa settimana la chiesa protestante Sanjiang di Wenzhou, nel Zhejiang, è stata rasa al suolo dalle ruspe. Per le autorità l'edificio era 'illegale' a causa delle sue dimensioni mastodontiche, 7.928 metri quadrati contro i soli 1.881 previsti dalle autorità. Per giorni migliaia di devoti avevano tentato di salvare il luogo di culto, formando uno scudo umano a protezione dell'edificio e marciando nelle strade di Wenzhou, nota come la 'Gerusalemme d'Oriente' per il suo nutrito numero di cristiani -circa il 15% della popolazione cittadina.

Un accordo sembrava essere stato raggiunto quando alla chiesa fu intimato di provvedere ad una 'autorettifica' entro il 22 aprile. Scaduta la deadline, tuttavia, gli operai erano riusciti a ridurre le dimensioni dello stabile soltanto di 500 metri quadrati, sforando ugualmente i limiti previsti dai regolamenti edilizi. Secondo quanto riferito alla 'CNN' dal portavoce del Dipartimento della propaganda della contea di Yongjia, cinque funzionari sono finiti sotto inchiesta in relazione alla costruzione 'illegale', precedentemente approvata dall'Associazione patriottica cattolica cinese; l'unica chiesa ufficialmente accettata oltre la Muraglia dal 1957 che, non riconoscendo la Santa Sede, nomina i suoi vescovi e ordina i suoi sacerdoti in base ai voleri del Partito.

In un Paese occidentale e democratico, probabilmente, quello della Sanjiang sarebbe passato per un semplice caso di abuso edilizio. Ma non in Cina, dove dietro ogni mattone si nasconde il sentore di un sopruso, di un'espropriazioni forzate, di una violazione dei diritti umani. La demolizione della chiesa giunge sulla scia delle polemiche per un rinnovato giro di vite ai danni della comunità cristiana del Zhejiang. Secondo i fedeli, il Partito locale avrebbe in mente di demolire  «completamente o parzialmente» almeno dieci luoghi di culto, dopo che il Segretario del partito provinciale, Xia Baolong, perlustrando la regione ha giudicato le sue chiese  «troppo vistose». Considerazioni che acquistano peso se sommate alle precedenti critiche di Feng Zhili, capo del Comitato per gli Affari etnici e religiosi del Zhejiang, allarmato da una diffusione del Cristianesimo  «eccessiva e troppo confusa».

Insomma, la distruzione della Sanjiang non sarebbe altro che la conferma di una grave escalation contro la libertà religiosa. Ne è convinto Bob Fu, fondatore e Presidente di China Aid, associazione con base nel Texas che dal 2002 fornisce assistenza ai cinesi cristiani e mantiene stretti legami con l'ala repubblicana americana.  «Il regime cinese ha scelto di ignorare le proprie leggi e la volontà dei suoi migliori cittadini», ha dichiarato al 'Telegraph' l'attivista. Sullo stesso spartito Yang Fenggang, tra i massimi esperti di questioni religiose in Cina e direttore del Center on Religion and Chinese Society presso la Purdue University: "Tutte le informazioni mi portano a credere che siamo davanti a un nuovo round repressivo contro le comunità cristiane cinesi", racconta a L'Indro, "vi è una grande carenza di chiese in Cina ed è molto difficile ottenere i permessi per gli edifici di culto, così normalmente si comincia a costruire mentre si cerca di fare di tutto per portarsi in regola. D'altra parte, sebbene molti edifici governativi e templi buddhisti siano stati eretti in violazione di alcuni codici, è raro che questi vengano abbattuti. Se poi si trattasse di una questione di regolamenti edilizi, come vogliono far credere, non ci sarebbe ragione di tirare giù le croci dalle chiese, cosa che sta avvenendo sempre più spesso".

Nelle ultime decadi l'evangelizzazione nella Repubblica popolare ha macinato numeri da capogiro. Se nel 1949 in Cina i protestanti erano appena 1 milione e l'intera comunità cristiana contava grossomodo 3 milioni di membri, stando alle stime del Pew Research Center, nel 2010 la comunità cristiana cinese riuniva già 67 milioni di membri, rappresentando il 5% della popolazione cristiana mondiale. Di contro nel 2011 il Governo registrava ancora 25 milioni di seguaci di Cristo (18 milioni protestanti e 6 milioni cattolici) -secondo alcuni- esonerando dal computo i sostenitori della Chiesa sotterranea che, legata al Vaticano, opera in condizioni di clandestinità. In pratica nei conteggi ufficiali comparirebbero soltanto i fedeli della Chiesa Patriottica, manovrata dal Partito. La realtà dei fatti e dei numeri, però, parrebbe essere un'altra. (Segue su L'Indro)

martedì 6 maggio 2014

Esperimenti economici nel Delta del Fiume delle Perle


Oltre 1000 chilometri quadrati per «attraversare il fiume tastando le pietre». Dopo sei mesi di studi sulla fattibilità del progetto, in Cina una nuova zona di libero scambio potrebbe presto vedere la luce nel Delta del Fiume delle Perle, la culla del manifatturiero cinese. Si tratterebbe di una zona sperimentale comprendente le regioni amministrative speciali di Hong Kong e Macao con le tre zone pilota della provincia meridionale del Guangdong Qianhai (nella città di Shenzhen) l'isola di Hengqin (a Zhuhai), e Nansha (distretto di Canton). Qui «investitori e residenti avranno vita facile come nell'ex colonia britannica», promette Zhu Xiaodan, Governatore del Guangdong, il quale alcuni giorni fa ha annunciato di aver riscontrato 'feedback positivi' da parte di Pechino. Senza rilasciare informazioni dettagliate, si è poi limitato ad auspicare la realizzazione del progetto in tempi brevi: «Spero non dovremo aspettare fino alla fine dell'anno».

L'idea era stata lanciata nel 2012 dal neosegretario del Partito del Guangdong, Hu Chunhua, a sole due settimane dall'approvazione da parte del Consiglio di Stato della Free Trade Zone di Shanghai. Primo membro del Politburo a proporre ufficialmente l'integrazione tra la provincia meridionale cinese e le due regioni amministrative speciali, forte dei precedenti autorevoli. Prima di lui il vicepremier Wang Yang, ex capo del Partito del Guangdong, aveva caldeggiato una maggiore interconnessione tra le varie economie concentrate nel Delta del Fiume delle Perle, avvertendo: «Sulla scia del rapido sviluppo delle altre aree della mainland, la regione rischia di venire surclassata se non riesce ad andare avanti». Il progetto ha poi ricevuto un'ulteriore spinta quando durante il Terzo Plenum del Partito dello scorso novembre la dirigenza ha rimarcato l'esigenza di riformare il sistema finanziario e riconoscere al mercato un «ruolo decisivo nell'allocazione delle risorse». A sei mesi dal taglio del nastro della FTZ di Shanghai, anche Tianjin, Qingdao e Xiamen si candidavano a zone pilota. (Segue su L'Indro)


Hukou e controllo sociale

Quando nel 2012 mi trasferii a Pechino per lavoro, il più apprezzabile tra i tanti privilegi di expat non era quello di avere l’ufficio ad...