Era il 2012 quando due alti funzionari del Dipartimento di Stato americano e del Pentagono tennero una riunione straordinaria in quel di Pechino. Per la prima volta Washington poteva mettere alle strette il Governo cinese, spiattellandogli in faccia le prove inconfutabili delle attività di hackeraggio condotte dal PLA (Esercito popolare di liberazione) ai danni di compagnie statunitensi. Il rapporto illustrava dettagliatamente quali dati erano stati sottratti, come e quando. La reazione? Allibiti e oltraggiati, i padroni di casa pare abbiano risposto qualcosa del tipo: «Ma come? Voi venite qui e ci accusate? Noi queste cose non le facciamo mica!»
Una risposta molto simile è stata rispolverata la scorsa settimana, quando il Grand jury della Pennsylvania ha accusato 5 militari cinesi dell'unità 61398 di aver rubato dati sensibili dai computer di sei società americane operanti nel settore nucleare, solare e siderurgico. Tra le vittime compaiono grandi nomi come Alcoa, United States Steel Corporation, Westinghouse Electric e Solar World AG. «Le attività di hackeraggio sembrano essere state condotte con l'unico scopo di avvantaggiare società e 'altri interessi' in Cina alle spese delle aziende americane», ha scandito in conferenza stampa il Procuratore generale Eric H. Holder, «questa è una tattica che gli Stati Uniti condannano categoricamente».
Le ultime indagini si riferiscono ad attività svolte nel periodo 2006-2014 e arrivano sulla scia del rapporto stilato dall'agenzia di intelligence statunitense Mandiant, la quale lo scorso anno aveva identificato l'origine di tentativi di spionaggio informatico in un palazzo di 12 piani nel cuore finanziario di Shanghai, a Pudong, proprio dove l'unità militare 61398 ha i suoi uffici. Secondo alcune stime, i danni arrecati alle società colpite ammonterebbero a 400 miliardi di dollari l'anno. Il tutto mentre, strangolate dalla crisi, decine di aziende americane sono state costrette a chiudere i battenti e migliaia di impiegati hanno perso il lavoro.
Dal canto suo, Pechino respinge le accuse definendole «fatti inventati», bacchetta il nuovo ambasciatore americano, Max Baucus, entrato in carica da nemmeno sei mesi, e taccia Washington di 'doppiogiochismo'. Letteralmente: «L'arroganza dello 'zio Sam', probabilmente il più grande hacker del mondo, è semplicemente ridicola. Ci sono molte prove del regolare spionaggio americano ai danni di società straniere per trarre benefici economici, avvalorate dalle testimonianze del whistleblower americano Edward Snowden», scriveva sabato l'agenzia di stampa cinese 'Xinhua'.
Sapendo di calpestare un terreno scivoloso, il Governo americano ha tentato fin da subito di fare un chiaro distinguo tra spionaggio 'nobile' e spionaggio 'sleale', dove nella prima categoria rientrerebbero i casi che coinvolgono la sicurezza nazionale, nella seconda tutti quegli episodi rubricabili come furti di proprietà intellettuale e che, pertanto, hanno una natura prettamente economica. In sostanza, la tesi americana ricalca quanto dichiarato da Barack Obama nella Presidential Policy Directive 28, documento confezionato appositamente per ridimensionare lo scandalo innescato dai leaks di Snowden, che vieta «la raccolta di informazioni commerciali private o segreti commerciali di Paesi stranieri...per permettere un vantaggio competitivo alle compagnie e al business statunitense».
"Stati Uniti e Cina hanno politiche economiche profondamente diverse. Lo spionaggio di Washington colpisce l'innovazione tecnologica di altri Paesi, ma i dati non vengono inoltrati alle società americane, che sono aziende private. Nel caso cinese, invece, le conoscenze acquisite illegalmente vengono passate ai colossi di Stato e delle società pubbliche per accrescerne la competitività a livello internazionale", spiega a 'L'Indro' Alice Miller, docente di Storia e Politica cinese presso l'Università di Stanford.
I file di Snowden, d'altronde, comprovano frequenti incursioni americane nei server di Huawei, leader nella produzione e commercializzazione di apparecchiature di rete e telecomunicazioni. Ma se l'interesse di Washington per il colosso cinese nasce sopratutto dalla volontà di fare chiarezza sui rapporti ambigui che intercorrono tra il gruppo e il PLA, allo stesso tempo, il Governo americano avrebbe cercato di trarre vantaggio dall'ingresso nei server di Huawei nel momento in cui la tecnologia dell'azienda fosse stata venduta in altri Paesi. Fattore che rende la paternale del Dipartimento della Giustizia Usa ancora più inconsistente dal punto di vista cinese.
E', tuttavia, ancora poco chiaro quali benefici la Casa Bianca spera di ottenere sottoponendo Pechino alla pubblica gogna. "Le accuse riflettono la frustrazione degli ufficiali americani dopo i molti ed inutili avvertimenti" ci dice David Lampton, Direttore di Studi Cinesi alla Johns Hopkins e Presidente dell'Asia Foundation. Sembrerebbe trattarsi di un atto dimostrativo volto sopratutto a placare la comunità degli affari statunitense, stufa di raccogliere le sfide impossibili della concorrenza sleale cinese. Nessuno si aspetta che Pechino estradi i 5 hacker, né che la smetta di ficcare il naso nel business americano. Ma considerata l'importanza attribuita in Asia 'al salvare la faccia', ci sono buone probabilità che l'umiliazione incassata dalla Cina davanti al mondo intero indisponga ancora di più i leader di Zhongnanhai. Per il momento le accuse del Grand jury hanno avuto come effetto immediato l'interruzione dei lavori del U.S.-China Internet Working Group, primo esperimento di cooperazione tra Pechino e Washington nel settore della sicurezza cibernetica.
Nella giornata di martedì, il Governo cinese ha rilasciato i risultati di una ricerca indipendente dell'Internet Media Reserach Center, che confermerebbero quanto già sostenuto da Snowden. Ovvero che «gli Stati Uniti sono andati ben oltre la legale logica dell'anti-terrorismo». Ancora da confermare le possibili rappresaglie ai danni di IBM, avvertita dalle autorità cinesi come un pericolo per la sicurezza nazionale. Secondo quanto riportava ieri 'Bloomberg', Pechino starebbe facendo pressione sulle proprie banche affinché sostituiscano i server di fascia alta dell'azienda statunitense con surrogati 'made in China'. Mentre la scorsa settimana era già arrivato il no al sistema operativo Windows 8 nei computer utilizzati dagli organi di Stato.
Da anni tra le due sponde del Pacifico è in corso una battaglia commerciale che colpisce trasversalmente vari settori, dagli pneumatici ai servizi di pagamento elettronici, passando per i pannelli solari. United States Steel e Allegheny Technologies, SolarWorld e United Steelworker avevano tutte e quattro pubblicamente chiesto aiuto alla WTO (Word Trade Organization) o al Dipartimento del Commercio americano per far fronte alle politiche commerciali disinvolte di Pechino; pare che soltanto due delle società identificate dai procuratori federali come bersagli degli hacker cinesi non avessero già dispute in corso con il Dragone. A questo punto non è da escludere che il Governo cinese decida di indirizzare la propria vendetta sugli investitori americani in Cina, con costi che si prefigurano salatissimi per i brand a stelle e strisce. Sopratutto alla luce di un 2013 particolarmente turbolento per le molte multinazionali straniere oltre la Muraglia, finite sotto la lente d'ingrandimento della NDRC (National Development and Reform Commission) a causa di presunte irregolarità.
Ma non è soltanto il mondo del business a tremare. Come fa notare Robert Daly, direttore del Kissigner Institute on China, accusando membri dell'Esercito di crimini internazionali (con tanto di manifesti 'wanted'), gli Stati Uniti rischiano di incrinare i rapporti militari tra i due Paesi, reduci da un laborioso processo di distensione che -salvo ripensamenti- dovrebbe culminare la prossima estate nel debutto cinese al Rimpac 2014, l'esercitazione marittima internazionale più grande del pianeta. (Segue su L'Indro)
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