mercoledì 14 marzo 2018

In Cina e Asia




Pechino annuncia una mega riforma degli apparati amministrativi

Pechino ha annunciato una massiccia ristrutturazione di uffici, agenzie e ministeri, la più radicale dal rimpasto diretto nel 1998 dall’allora premier Zhu Rongji. Al vaglio del parlamento, la riforma prevede una riduzione dei ministeri sotto il Consiglio di Stato a 26 (8 in meno) e la chiusura di sette agenzie non ministeriali. A uscirne ridimensionata nelle sue funzioni sarà la potente National Development and Reform Commission, l’agenzia fin’oggi incaricata di sviluppare e gestire le politiche economiche e di sviluppo. Tra le novità più rilevanti va citata la fusione della China Banking Regulatory Commission (CBRC) e la China Insurance Regulatory Commission (CIRC) che dovrebbe di riflesso assegnare più potere decisionale alla banca centrale a capo della quale — si vocifera — verrà piazzato il braccio destro di Xi Jinping Liu He. Dal rimescolamento nascono anche, tra gli altri, i nuovi ministeri per la Gestione delle Emergenze, delle Risorse naturali, dell’Agricoltura e gli Affari rurali, e dell’Ambiente ecologico. La Commissione per la pianificazione delle nascite (incaricata in passato di supervisionare la politica del figlio unico) verrà rimpiazzata da una Commissione per la Salute. Nascono inoltre un ufficio per la Gestione dell’Immigrazione, un’agenzia per lo Sviluppo e la Cooperazione internazionale e un’altra dedicata a supervisionare la condizione dei veterani dell’esercito. Il tutto servirà — come spiega oggi lo stesso Liu He sul People’s Daily — a eliminare la sovrapposizione delle funzioni dei vari enti governativi con il fine ultimo di “rafforzare la governance di lungo termine del partito”. Ecco che l’accentramento degli organi amministrativi si inserisce in un piano di più ampio respiro volto a cementare la presa della guida comunista “su ogni aspetto della vita”.

Pechino allenta la presa sull’Europa?

La Cina avrebbe intenzione di ridurre la portata del controverso summit “16+1” lanciato nel 2012 per rafforzare i rapporti con l’Europa centro-orientale nell’ambito del progetto Belt and Road. Secondo fonti diplomatiche della Reuters, il vertice di quest’anno — che si dovrebbe tenere a Sofia — potrebbe essere posticipato, mentre in futuro potrebbe essere organizzato con cadenza biennale anziché annuale. La decisione sembrerebbe rispondere alle preoccupazione dell’Ue sull’assertività cinese nel quadrante attraverso l’iniezione di capitali in settori sensibili. Ma, stando alle indiscrezioni, giocherebbe a sfavore anche la lentezza con cui procedono gli accordi sotto il format “16+1”. Tanto che qualcuno ipotizza un ritorno alle negoziazioni più su base bilaterale. Negli ultimi anni la generosità cinese è stata vista di buon grado dai partner al di fuori dell’Ue (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Macedonia, Montenegro e Serbia) incapaci di accedere ai fondi comunitari. Ma lo tsunami finanziario non si è verificato ovunque come sperato e i costi politici annessi agli investimenti cominciano a infastidire i partner regionali. Il tutto mentre l’Ue ha al vaglio un nuovo quadro mirato a bloccare le acquisizioni cinesi nei segmenti strategici.

Il braccio di ferro tra Cina e Usa rilancia la vendita di armi

La rivalità tra Cina e Stati Uniti fa volare la vendita di armi sui mercati internazionali. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute(SIPRI), nel periodo 2013–17 l’export cinese è arrivato a contare per il 5,7% del commercio globale, in salita di più di un terzo rispetto al 4,6% del 2008–12. Il report segue di pochi giorni l’approvazione dell’aumento della spesa militare dell’8,1% passando dai 151 miliardi di dollari del 2018 ai 175, annunciati, per il 2018, pari al 1,26% del Pil. Il gigante asiatico è il secondo paese a investire di più nella difesa dopo gli Usa. Secondo il SIPRI, la vendita di armi ai paesi asiatici è oggi uno dei mezzi più utilizzati da Washington per contenere l’avanzata cinese, come dimostrano le recenti partire di armi consegnata a India, Giappone e Vietnam, due delle nazioni con cui Pechino è ai ferri corti per questioni di sovranità. Specularmente, i paesi con cui gli States hanno raffreddato i rapporti — come Venezuela, Pakistane Thailandia — si sono progressivamente direzionati verso Cina e Russia. Secondo quanto lasciato intuire pochi giorni fa da Zhu Huarong, presidente del fornitore statale China South Industries, l’industria della difesa punta a sfruttare il progetto Belt and Road per incrementare le proprie vendite lungo oltreconfine. Un piano che vede la megalopoli di Chongqing rivestire un ruolo di primo piano grazie alla sua posizione strategica in prossimità degli snodi logistici verso Ovest.

Xi presidente sine die: La principale fonte di dissenso arriva dalle università straniere

Li abbiamo fin’oggi considerati la testa di ponte del nazionalismo cinese nel mondo. Eppure, gli studenti cinesi si stanno rivelando una delle principali fonti di dissenso nei confronti della riforma della costituzione, che — approvata domenica con oltre il 99% dei consensi — prevede la rimozione del limite dei due mandati. Prima ancora che il parlamento ufficializzasse la manovra, nelle principali università estere, dagli Stati Uniti all’Australia passando per l’Europa, sono cominciati ad apparire manifesti con su scritto “Xi non è il mio presidente”. La campagna è stata ripresa su Twitter dall’account @StopXiJinping, curato da anonimi studenti cinesi. Fatta eccezione per pochi coraggiosi come Wu Lebao, iscritto all’Australian National University, che alla BBC motiva il proprio gesto con la necessità di sensibilizzare i propri coetanei sui cambiamenti in corso oltre la Grande Muraglia. Anche se la riforma ha innescato diversi commenti sarcastici sul web cinese, è piuttosto raro che il disaccordo verso le autorità scaturisca dalla giovane diaspora cinese. Sopratutto perché molti degli espatriati sono destinati presto a tornare in Cina per attingere alle crescenti prospettive lavorative. Proprio negli ultimi tempi, i riflettori mediatici si sono spostati sulla Chinese Students and Scholars Association, organizzazione ufficiale incaricata di supportare gli studenti durante il loro soggiorno oltreconfine ma che gli analisti sospettano sia sempre più coinvolta nell’esportazione del soft power cinese nel mondo, come messo in rilievo da un’accesa campagna contro il Dalai Lama. Secondo Foreign Policy, alcune delle manifestazioni pro-Pechino sarebbero state finanziate direttamente dal governo cinese.

Amnesty: “l’esercito birmano militarizza lo stato Rakhine”

L’esercito birmano sta militarizzando le aree dello stato Rakhine colpite dalla campagna di bonifica volta a stanare i militanti dell’Arsa, la sigla autrice degli attacchi terroristici dello scorso agosto. Lo ha dichiarato Amnesty international citando come prova nuove immagini satellitari. 350 villaggi sono stati dati alle fiamme durante le operazioni del Tatmadaw mentre alcuni sarebbero stati rasi al suolo dai bulldozer in tempi molto più recenti, tra dicembre e febbraio. Secondo l’organizzazione internazionale, case e moschee avrebbero lasciato il posto a basi e strutture militari. In un caso, la popolazione locale è stata appositamente allontanata dalle proprie abitazioni in quella che Amnesty definisce un’operazione di “land grabbing”. Circa 700mila rohingya sono stati costretti a fuggire oltre il confine con il Bangladesh nel 2017. Mentre l’accordo raggiunto tra Naypyidaw e Dacca difficilmente sfocerà in un rimpatrio dei rifugiati in tempi brevi, non si placano le accuse di connivenza dirette dalla comunità internazionale contro il governo di Aung San Suu Kyi. E non solo. Secondo gli esperti di diritti umani presso le Nazioni Unite, Facebook ha rivestito “un ruolo determinante” nella diffusione di “acrimonia, dissenso e conflitto tra la popolazione” dando voce al nazionalismo buddhista.

1 commento:

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