venerdì 9 marzo 2018

In Cina e Asia



La via del debito


La via della seta (aka Belt and Road) crea dipendenza. E’ quanto emerge da un report del Centre for Global Development, secondo il quale gli investimenti infrastrutturali seminati da Pechino rischiano di lasciare i paesi ospitanti con montagne di debiti da ripianare. Il problema si pone sopratutto nel caso di Djibouti, Kyrgyzstan, Laos, Maldive, Mongolia, Montenegro, Pakistan e Tajikistan. Secondo un rapporto pubblicato da Bloomberg a ottobre, dei 68 paesi inclusi nel progetto a guida cinese, 27 hanno un debito sovrano in territorio “junk”. Altri 14, tra cui l’Afghanistan, l’Iran e la Siria, non sono stati valutati o hanno ritirato le loro richieste di rating. Il think tank consiglia di incrementare le sinergie con gli istituiti di credito internazionale come la World Bank. Nel suo rapporto presentato al parlamento in questi giorni, Pechino ha rivelato di aver firmato più di 100 accordi con 86 paesi e organizzazioni nell’ambito dell’iniziativa.

Cina: la spesa per la sicurezza interna continua a crescere

Pechino ha incrementato consistentemente la propria spesa per la sicurezza interna. A un ritmo maggiore rispetto alla crescita economica e all’aumento del budget per la difesa. Secondo quanto rivelato dal ministero delle Finanze a margine dell’Assemblea nazionale del popolo, nel 2017 agli apparati interni è andato il 6,1% della spesa pubblica, ovvero circa 1,24 trilioni di yuan (196 miliardi di dollari) contro gli 1,02 trilioni andati all’esercito, in crescita del 12,6% su base annua. A fare la parte del leone è la regione autonoma dello Xinjiang, dove sono stati spesi oltre 90 miliardi di dollari tra posti di blocco, telecamere di videosorveglianza, scanner facciali e tutto quanto necessario a scongiurare nuovi attacchi di matrice islamica. Le autorità hanno smesso di pubblicare i numeri della sicurezza nazionale nel rapporto annuale a partire dal 2013, a causa dei commenti spinosi della stampa sulle implicazioni della spesa nella repressione della società civile (il dato dello scorso anno compare soltanto in un grafico relativo al budget complessivo anziché nel testo)

A quanto ammontano davvero gli investimenti cinesi in Africa?


Cina e Africa. Un binomio ormai quasi scontato quando si parla dell’attivismo imprenditoriale cinese in giro per il mondo. Ma a quanto ammontano davvero gli investimenti cinesi nel continente? Gli esperti mettono in dubbio l’attendibilità di una delle fonti più citate negli ultimi tempi: l ‘Africa Investment Report‘ pubblicato dal Financial Times a settembre. Secondo lo studio nel 2016 Pechino ha iniettato nel continente 36 miliardi di dollari, pari al 39% degli investimenti cinesi all’estero per quell’anno. Ma secondo gli esperti si tratterebbe di conclusioni inesatte. I dati risultano sovrastimati, come dimostrano i casi del porto di El Hamdania, in Algeria, e di una “nuova capitale” egiziana a est del Cairo, dove le compagnie cinesi sono pronte a costruire ma non necessariamente a investire e dove non entra in gioco la cessione della proprietà come nel caso del porto del Pireo. In realtà, secondo Thierry Pairault, gli IDE cinesi in Africa sono modesti e stanno diminuendo di anno in anno. Le cifre del ministero del Commercio cinese, parlano di 2,4 miliardi nel 2016, in calo del 19% rispetto ai 2,9 miliardi nel 2015. Ma difficilmente i numeri basteranno a placare i sospetti della comunità internazionale.

Proprio pochi giorni fa, prima di recarsi in visita in Chad, Djibouti, Ethiopia, Kenya e Nigeria, il segretario di stato americano Rex Tillerson ha criticato l’operato cinese in Africa accusandolo di creare dipendenza e mettere a rischio le risorse naturali locali.

L’ Holocaust Memorial Museum revoca il premio ad Aung San Suu Kyi


L’ Holocaust Memorial Museum di Washington ha revocato il premio per i diritti umani consegnato ad Aung San Suu Kyi nel 2012. Allora la leader birmana, reduce da 15 anni di domiciliari, è diventata la seconda persona ad essere insignita del riconoscimento dopo Elie Wiesel, sopravvissuta all’Olocausto. La decisione è stata resa nota alla Lady per lettera nella giornata di martedì e riportata dal New York Times nella giornata di ieri. Nella comunicazione, la Lega nazionale per la democrazia viene accusata di aver ostacolato l’intervento delle Nazioni Unite nello stato Rakhine e aver incentivato “una retorica dell’odio contro la minoranza rohingya”. Mentre Suu Kyi si trova a spartire il potere con i militari, la comunità internazionale ritiene che gli sforzi del governo da lei informalmente guidato siano insufficienti a placare la crisi umanitaria. 700mila rohingya sono fuggiti in Bangladesh in seguito alle operazioni messe in campo dall’esercito per contrastare le attività dei presunti terroristi islamici nello stato Rakhine. Ad oggi, la revoca del premio costituisce l’ammonimento più duro diretto contro la leader birmana.

Nello Sri Lanka è stato di emergenza

Lo Sri Lanka ha dichiarato lo stato di emergenza per 10 giorni dopo che nelle ultime settimane lo storico odio settario tra buddhisti e musulmani è riesploso nelle zone centrali del paese. La goccia ad aver fatto traboccare il vaso sarebbe stata la morte di un autista singalese in una rissa con quattro musulmani. Da allora i nazionalisti buddhisti hanno preso di mira moschee e negozi islamici. Facebook, Viber e Whatsapp sono stati bloccati in seguito alla pubblicazione di post innegianti all’odio religioso. Mentre i rapporti sono tesi dal 2012, l’arrivo di rifugiati rohingya dal Myanmar sembra aver acuito la crisi tra i due gruppi religiosi. Reduce da 26 anni di guerra civile, tra gennaio e dicembre 2013 lo Sri Lanka ha assistito a 241 attacchi contro obiettivi musulmani. Molti sono stati fomentati dal gruppo estremista con base a Colombo Buddhist Power Force.

1 commento:

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