sabato 22 dicembre 2012

Il 'Word power' vi conquisterà


Continua l'avanzata del Dragone nel Continente Nero. Questa volta non si tratta di miniere, elargizioni governative, né di ambiziosi progetti infrastrutturali, ma di un altro mattoncino che va ad ampliare l'impero mediatico cinese, sempre più tentacolare e internazionale.

E' con grande orgoglio che il China Daily, principale quotidiano cinese in lingua inglese, la scorsa settimana ha annunciato la nascita della sua versione africana, con base a Nairobi, capitale del Kenya. Il China Daily Africa Weekly, che sarà disponibile anche in formato digitale, si propone di spiegare "il rapporto tra la Cina e il continente africano", andando a integrare il lavoro già svolto dalla televisione statale CCTV e dall'agenzia di stampa Xinhua, anch'essa controllata dal governo.

"Il rapporto tra Cina e Africa è tra i più significativi al mondo" ha commentato il caporedattore Zhu Ling " è complesso e in crescita, ma non sempre compreso...speriamo di riuscire a fornire questo diritto". Il nuovo giornale costituirà una piattaforma in grado di migliorare la conoscenza reciproca tra i due Paesi, secondo l'augurio del ministro dell'Informazione keniota Samuel Poghisio, citato dai media locali.

Alcuni mesi fa, quando fu inizialmente diffusa la notizia del progetto, il vice-caporedattore del China Daily, Gao Anming, dichiarò che la nuova edizione ha lo scopo di "introdurre la Cina al mondo e raccontare le notizie da una prospettiva cinese". Forse presagendo le reazione che le sue parole avrebbero potuto suscitare, Gao si è affrettato ad aggiungere che, sebbene di proprietà del governo, la testata segue una politica editoriale indipendente e che i membri del consiglio interno non sono funzionari statali. "Facciamo anche circolare report contro il governo e suggeriamo alcune misure per migliorarli" ha spiegato.

Come riporta City Press, il China Daily vende in patria 250 mila copie al giorno, alle quali vanno aggiunte le 170 mila edizioni settimanali distribuite in America e le 150 mila in Europa. Secondo le stime iniziali, la versione africana dovrebbe riuscire a vendere 10 mila copie, grazie alla presenza sempre più massiccia di cinesi espatriati nel Continente Nero, il cui numero si aggira ormai attorno al milione.

L'arrivo del China Daily in Africa è stato accolto con entusiasmo anche da Jinghao Lu, analista a Johannesburg presso il desk della società di consulenza Frontier Advisory, il quale ha notato come "i giornalisti cinesi in questo continente siano ancora relativamente pochi". "E' una buona cosa che i cinesi sappiano di più di quello che accade in Africa, dato il crescente coinvolgimento della Cina qui" anche se -ha spiegato Jinghao- molti dei lettori saranno probabilmente gente del posto.

Gli scambi tra mezzi di comunicazioni cinesi e africani si sono intensificati negli anni 2000, con la distribuzione di supporto tecnico, forniture dei contenuti, sino all'offerta di una formazione giornalistica da parte di Pechino. All'inizio di quest'anno la China Central Television ha lanciato CCTV Africa, con quartier generale in Kenya, mentre Xinhua e China Radio International, già presenti nel continente dagli anni '50, continuano a consolidare la propria posizione.

Proprio la CCTV africana, che trasmette giornalmente un telegiornale della durata di un'ora, un talk show e diversi documentari alla settimana, "ha fatto incetta di presentatori noti a livello locale e personale vario di altre emittenti televisive" riporta eXpressionToday, rivista pubblicata da The Media Institute, ong che si batte per la libertà d'espressione in Kenya. Circa cento i dipendenti assunti dalla tv di stato cinese, molti dei quali kenioti.

Nonostante la dinamica dell'insediamento siano poco trasparenti, come sottolinea l'ong 'watchdog', "fonti del ministero degli Esteri e dell'Informazione rivelano che l'ingresso della CCTV in Kenya è stato sancito dal Forum della cooperazione sino-africana (Focac) del 2006"; occasione che ha visto il presidente Mwai Kibaki volare a Pechino accompagnato da una delegazione di 40 capi di Stato e di Governo africani per cementare le relazioni tra i due Paesi.

Se all'inizio la penetrazione dei mass media d'oltre Muraglia ha avuto lo scopo di esportare la 'fabbrica del consenso' di Pechino e dare supporto ai movimenti di liberazione africani, adesso il ruolo degli organi d'informazione cinesi è, piuttosto, quello di un 'cavallo di Troia'; una testa di ponte del 'soft power' con il quale il Dragone punta a scalzare colossi internazionali quali CNN e BBC.

"Questa espansione arriva in coda al flusso" commentava a maggio Tom Rhodes, del Comitato per la tutela dei giornalisti "la maggioranza dei media occidentali si stanno ritirando dall'Africa orientale: la BBC è stata costretta a licenziare molti corrispondenti e France 24, per contenere i costi, ha reso nota la fusione con France Internationale".

Così, mentre l'informazione 'made in Occidente' batte in ritirata, la Cina ne approfitta per fare il proprio gioco e dare una nuova immagine di sé. Lo confermano le parole di Song Jianing, direttore di CCTV Africa il quale tempo fa ha criticato apertamente la cattiva pubblicità messa in giro dai big dell'informazione internazionale. "I media internazionale descrivono costantemente la Cina come un monolite, ne denunciano le ambizioni coloniali ed enfatizzano alcune circostanze, con scarse spiegazioni storiche del rapporto China-Africa" ha commentato Song.

Per combattere la diffamazione nel Continente Nero, Pechino sembra aver intrapreso una strategia ben nota in patria: quella del bavaglio. Lo dimostra il generoso sostegno fornito alle emittenti statali, (piuttosto che a quelle private) molte delle quali, come la radio nazionale della Guinea Equatoriale e la Zimbawe Broadcast Holdings Company, sono note per la loro scarsa libertà di stampa. Non solo. In Etiopia la multinazionale cinese ZTE sta investendo 1,7 miliardi di dollari per effettuare una revisione del sistema delle telecomunicazioni, dal quale -secondo uno studio dell'Università di Oxford- trarranno grande giovamento i censori locali.

Ma le vie del 'soft power' sono infinite e, come riporta la BBC, Pechino avrebbe già provveduto a piazzare un maxischermo ad Addis Abeba, in Etiopia, oltre ad aver promosso migliaia di borse di studio per giornalisti africani. La Xinhua ha, inoltre, collaborato con una società di telefonia mobile keniota per la distribuzione di news service sui cellulari. Chiari segnali che il Dragone non si accontenta più di essere 'soltanto' il primo partner commerciale dell'Africa.

Gli scambi bilaterali sono cresciuti dai 10,6 miliardi di dollari del 2000 ai 160 miliardi del 2001. Lo scorso luglio, durante il quinto Focac, il governo cinese ha stanziato prestiti di natura concessionale per 20 miliardi di dollari da erogare nei prossimi tre anni, mentre il presidente uscente Hu Jintao ha chiesto una maggior cooperazione con gli stati africani anche sul piano delle relazioni internazionali.

Pechino non bada a spese per propagare la propria voce nel mondo. Dall'inaugurazione di CCTV America, all'apparizione del China Daily come supplemento pubblicitario nel New York Times e Washington Post. Sino al debutto a Broadway. Nel maggio 2011 la Xinhua si è aggiudicata uno degli spazi più esclusivi della Grande Mela: l'ultimo piano di un grattacielo nel cuore di Times Square, sul quale campeggia uno schermo al LED di 18 metri per 12. Il tutto, pare, per 400 milioni di dollari al mese.

(Leggi anche Ombre cinesi sul Continente Nero)
(Pubblicato su Dazebao)
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giovedì 20 dicembre 2012

Maya, sette religiose e persecuzioni


La fine del mondo è vicina. In Cina sono in molti a pensarlo. Troppi per il Partito che ha già proceduto all'arresto di circa 1.000 membri della 'Chiesa di Dio Onnipotente', setta che va predicando l'imminente giorno del giudizio universale e la reincarnazione di Gesù Cristo nel corpo di una donna cinese.

Il gruppo, come riportano i media locali, è stato accusato di diffondere messaggi apocalittici, apparentemente, ricollegandosi alla predizione dei Maya che individua nel prossimo 21 dicembre l'ultimo giorno per il pianeta Terra. Secondo la profezia della 'Chiesa di Dio Onnipotente', considerata una congregazione cristiana eretica, seguiranno tre giorni di buio totale e una nuova Era, scandita da calamità naturali quali terremoti e tsunami, avrà inizio. Una sorte -avvertono i seguaci- alla quale si può sfuggire soltanto eliminando 'il Grande Drago Rosso', che nella simbologia della setta starebbe a indicare niente meno che il Partito, caricando di forti significati sovversivi il movimento. 

La diffusione di questo 'culto malvagio', come è stato bollato dalla stampa d'oltre Muraglia, ha innescato un giro di vite su tutto il territorio nazionale. 350 sono finiti dietro le sbarre nella provincia sud-ovest del Guizhou, oltre 400 nel Qinghai, regione nord-occidentale, dove sono stati confiscati più di 5000 oggetti illegali, tra dvd, volantini, libri, pc e cellulari, ai quali vanno aggiunti arresti di minore entità anche in altre aree del Paese. Per evitare che il culto si propaghi ulteriormente, la macchina della propaganda ha impartito ai media nazionali l'ordine di "rafforzare una guida positiva delle notizie e di evitare la diffusione di rumors, cercando inoltre di lavorare sui sentimenti di panico", come scandisce un leak intercettato e pubblicato dal sito China Digital Times. Le parole 'Dio Onnipotente' e 'Lampo d'Oriente', altro nome con il quale è conosciuta la setta, risultano bloccate sul Twitter cinese Sina Weibo.

Gli organi d'informazione statali, tra i quali il China Yought Daily, hanno condannato il gruppo, sottolineando come esso faccia uso di pratiche spaventose, come la richiesta ai membri femminili di "sfoderare tutto il loro sex appeal per attrarre nel gruppo nuovi adepti". Tra le esche adottate anche promesse di droga e denaro.

Nata nei primi anni '90 nella provincia dello Henan, la 'Chiesa di Dio Onnipotente' è rimasta nell'ombra per lungo tempo data l'intolleranza dimostrata dal governo verso le congregazioni religiose non ufficiali. Tanto da spingere il suo padre fondatore Zhao Weishan a lasciare la Cina dodici anni fa per cercare asilo negli States. 

"Dicono che la Bibbia sia superata" ha spiegato al Guardian uno dei leader di una chiesa di Pechino non riconosciuta dal governo "sono convinti che la loro interpretazione meglio si adatti alla cultura cinese, cosicché risulta più facile per i cinesi comprendere ciò che vanno predicando". 
Per Hu Xingdou, esperto di società cinese  ed economista presso il Beijing Institute of Technology, come si esce dalle grandi città è piuttosto frequente riscontrare la formazione di piccoli gruppi religiosi. Colpa del vuoto etico creato dal degrado morale e della corruzione dilagante. "La corruzione è terribile, il divario di ricchezze enorme: tutti vogliono soltanto fare più soldi. Queste brutte cose stabiliscono le condizioni ideali per la diffusione di un culto" ha spiegato Hu. 

Alla proliferazione di credenze, ritenute minaccia per la stabilità politica e sociale del Paese, il Partito  risponde da sempre con il pungo di ferro. Nel caso della 'Chiesa di Dio onnipotente' non è ben chiaro quale dipartimento governativo abbia orchestrato la catena di arresti degli ultimi giorni. Secondo quanto denunciato dalle organizzazioni per la difesa dei diritti umani, le autorità cinesi gestiscono una rete capillare di agenzie extragiudiziali che agiscono in maniera poco trasparente nella repressione di dissidenti e gruppi religiosi. Più nota tra queste l'Ufficio 610, istituito nel 1999 per tenere sotto controllo la setta spirituale della Falun Gong, ritenuta illegale dopo una protesta silenziosa che radunò migliaia di seguaci davanti a Zhongnanhai, quartier generale del Pcc. 

"Sebbene la Falun Gong rimanga l'obiettivo primario, a questa ora si sono aggiunte la 'chiesa sotterranea', i buddhisti e altre sette religiose e spirituali" si legge nel rapporto sull'Ufficio 610 stilato nel 2011 dalla Jamestown Foundation, think tank con base a Washington "oggi, sulla base di quanto estrapolato dai siti web delle amministrazioni locali a livello distrettuale, crediamo che l'Ufficio impieghi almeno 15mila funzionari". 

Il Regno di Mezzo ha una lunga tradizione di movimenti millenaristi in chiave antigovernativa. Verso la metà del XIX a scuotere il Paese fu il 'Regno Celeste della Grande Pace', setta cristiana sincretista guidata da Hong Xiuquan, autoproclamatosi fratello minore di Gesù Cristo. Il movimento, impegnato in una radicale riforma sociale, viene comunemente ritenuto uno dei fattori destabilizzanti che hanno condotto alla caduta dell'ultima dinastia cinese, quella dei Qing. 

Una pagina della storia nazionale che il regime cinese deve aver tenuto bene a mente nella sua maniacale ricerca della 'stabilità a tutti i costi', perseguita rinforzando l'apparato di sicurezza interna, il cui budget nel 2011 ha superato quello destinato all'Esercito. 

In teoria la Costituzione cinese garantisce la libertà di culto, ma dagli anni '50 le relazioni tra il Dragone e la Chiesa hanno visto un rapido declino con l'espulsione del nunzio apostolico Antonio Riberi: i rapporti diplomatici tra Pechino e il Vaticano sono congelati dal 1951, anno in cui la Santa Sede riconobbe l'indipendenza di Taiwan, per Pechino nient'altro che una 'provincia ribelle'. Da quel momento il governo cinese dide il via alla pratica delle ordinazioni autogestite. In altre parole, l'Associazione patriottica cattolica cinese, incaricata di gestire i rapporti tra la Cina e i cattolici, riconosce l'autorità spirituale del Papa ma non il suo potere di nominare i vescovi. Fattore che ha innescato un lungo braccio di ferro con il Vaticano, culminato alcuni giorni fa nell'esautorazione di Mons. Taddeo Ma Daqin, uscito dall'Associazione il giorno della sua ordinazione dopo aver rifiutato, in obbedienza al Papa, la comunione con un vescovo scomunicato.

La stretta sui movimenti religiosi si è fatta più serrata a partire dalla primavera del 2011, sulla scia della psicosi post-rivolta dei gelsomini cinesi; una protesta ispirata a quanto avvenuto nei Paesi del Maghreb, ma di fatto ridottasi ad un gruppo di manifestanti anonimi e ad alcuni appelli su internet. Secondo quanto riportato da AsiaNews, il 10 aprile dello scorso anno circa 200 cristiani sono finiti in manette nel distretto pechinese di Haidian, per aver tentato di celebrare una liturgia in una piazza pubblica. L'episodio diede il via ad una lunga sequela di arresti per la Chiesa di Shouweng, una delle diocesi più importanti del Paese che conta oltre mille membri.

Un comunicato di sedici pagine, emesso il 15 maggio 2011, ma reso noto solo questo mese dall'ong texana ChinaAid, utilizza un linguaggio da guerra fredda nel denunciare una cospirazione attuata da "forze ostili d'oltremare". Queste 'talpe', infiltrate nei campus universitari cinesi con il pretesto di semplici scambi culturali, utilizzerebbero in realtà la religione per "occidentalizzare e dividere la Cina". Come suggerisce il documento -citato dal Washington Post- nonostante i timidi segnali di una crescente tolleranza religiosa negli ultimi decenni, il Partito continua a nutrire forti sospetti verso ogni tipo di culto, considerato una potenziale leva volta a scardinare l'autorità del regime. Ancora più pericolosa se maneggiata dall'Occidente.

Nel 1999 il Dipartimento di Stato americano ha definito la Cina "un paese particolarmente preoccupante" per quanto riguarda "gravi violazioni della libertà religiosa". E con una transizione del potere in pieno svolgimento e una nuova leadership in cerca di credibilità/stabilità, sono molti a credere che la politica della repressione non smetterà in tempi brevi.


martedì 18 dicembre 2012

Il perdono può esacerbare la corruzione


                     
(Anche la polizia protesta contro la corruzione. Succede nello Shandong. Video comparso su Shanghaiist)

Sin dai primi passi come segretario generale del Partito Comunista Cinese, Xi Jinping ha subito dedicato molta attenzione alla lotta contro la corruzione, da lui paragonata a "vermi che si nutrono di sostanze in decomposizione". Nelle scorse settimane sono stati varati provvedimenti per evitare gli sprechi dei manager delle imprese di Stato, ai quali è stata aggiunta una norma "anti-stravaganze" per evitare le spese inutili dei funzionari durante i loro viaggi all'interno del Paese. Il tutto per evitare che gli stravizi della casta possano alimentare lo sdegno popolare mettendo a repentaglio la stabilità sociale e politica. Senza pietà la Xinhua che in un editoriale del 18 dicembre, ripreso da altre testate cinesi tra cui , non concede il perdono ai quadri depravati.


(Non riesco più a ritrovare il testo sul quale mi sono basata, che non era quello della Xinhua. Alcune cose all'inizio sono differenti..).


Di fronte lotta alla corruzione, la ricerca di un perdono come compromesso, volto a promuovere progressi sostanziali nella riforma politica, può essere considerato un inutile "lambicarsi il cervello per trovare un soluzione". Non si può negare che il più grande ostacolo alla pubblicazione delle ricchezze dei funzionari provenga da quei funzionari che hanno qualche inganno da nascondere e abbattere questo ostacolo, evitando di diffondere timori nelle retrovie, può essere accettato come una sorta di 'politica dello struzzo' pragmatica. Ma ciò che potrebbe scaturire da questa strategia dei compromessi è sostanzialmente un danneggiamento del principio di imparzialità dello Stato di diritto. Il metodo discriminatorio utilizzato nell'amministrazione del potere pubblico mina quella lotta alla corruzione ormai da tempo intrapresa.

Promettere il perdono a chi ha infranto la legge non porterà giovamenti, anzi, rafforzerà il senso di fiducia dei funzionari, arrivando persino a causare la diffusione a macchia d'olio di casi di corruzione 'legalizzata'.
Ma, allora, la lotta alla corruzione ha o no bisogno della 'politica dello struzzo'? Sarebbe necessario dare un ampio giudizio sulle condizioni del Paese, restando fedeli ai criteri di base dello Stato di diritto. Il 'debito della corruzione' accumulato dalla Cina ha raggiunto livelli preoccupanti, le scorte ammassate, sempre maggiori, rischiano di rendere le proteste via via più agguerrite. In questo contesto, dare una via d'uscita a quei funzionari corrotti e avidi, tornati sulla retta via, potrebbe sembrare essere utile a mitigare la loro resistenza alla lotta alla corruzione. Il problema è che un pensiero così positivo in realtà finisce per sovrastimare la consapevolezza dei quadri corrotti. Per il momento non parliamo di quanti funzionari, raggiunta la redenzione, decidono di tornare alla giustizia, ne è importante nello specifico il modo in cui viene applicata l'amnistia. Partendo dall'analisi delle cause, a creare un terreno difficile per la lotta alla corruzione sono state principalmente l'assunzione di punizioni morbide e la mancanza di rigore e universalità nell'applicazione del codice penale. Alla luce delle falle emerse durante l'applicazione della legge, come la strategia del 'lasciare una via d'uscita' (ai quadri corrotti ndr) potrebbe non rivelarsi irrealistica?

La negligenza dimostrata nella supervisione della giustizia, così come nella gestione di casi di corruzione, ha condotto lo Stato di diritto ad una perdita di autorità e credibilità. Tollerare una volta il perdono, può minare alla base la lotta alla corruzione fino a spingere i funzionari a chiedere un 'sollievo temporaneo' per portare avanti le loro malefatte. Questa promessa di perdono, non migliorerà la situazione, anzi accrescerà il senso di fiducia dei funzionari, dando origine a sempre più casi di corruzione 'legalizzata'.

Il giusto corso della lotta alla corruzione consiste nel somministrare al malato la medicina appropriata, rimodellando l'autorità dello stato di diritto. E' bene risolvere il problema delle sacche di corruzione,  e lo è anche contenere la diffusione di nuovi casi, ma il punto centrale sta nel riuscire a tornare sulla via dello Stato di diritto, cosicché una legge penale ben ponderata e senza zone d'ombra possa dare una logica inevitabile a corruzione e responsabilità penali.
Forse grazie a questo potere dello stato di diritto che consiste "nell'afferrare la mano di chi ha rubato", quegli elementi corrotti saranno in grado di soppesare vantaggi e svantaggi. Allora alcuni decideranno spontaneamente di rigettare i profitti acquisiti con mezzi illegali.


 突破法治原则的“赦免”许愿,弄不好反会强化官员的侥幸心理,甚至衍生出更多“合法腐败”的漏洞来。
  基于当前严峻的反腐形势,“有条件赦免”企图以一种有限妥协的方法,推进政治体制改革的实质进展,可谓用心良苦。不可否认,官员财产公开最大的阻力来自有猫腻的官员,通过免除部分官员的后顾之忧来分解这种阻力,不失为务实的“鸵鸟政策”。但是这种妥协的背后,在根本上容易伤害法治的公平性原则,法律对公权治理区别对待,给长远的法治反腐带来损害。

  反腐究竟需不需要“鸵鸟政策”?这需要充分的国情判断,也需要坚守法治的底线标准。如建议者所言,我国的“腐败呆账”比较严重,存量越来越大致使抵抗也越来越顽强。在这种背景下,对那些将全部贿赂匿名清退的贪官“网开一面”,看似能减轻他们对反腐败的抵抗。问题是,如此良好的愿望似乎高估了腐败官员的自觉性。暂且不谈有多少官员会自觉清退,也不论“赦免”的具体可操作性;单从原因分析,造成今日反腐严峻形势,根本上就是由于惩治偏软,没有确立起刑事执法的普遍性、严密性。在执法已存偏漏的情况下,再行“网开一面”的方案,岂不是“与虎谋皮”?

  对权力缺乏常态化的法治监督,对腐败案件查处的疏漏让法治缺乏权威性和公信力。一旦容忍“赦免”,便会在社会上造成反腐底线的突破,甚至怂恿更多的官员为求“一时之需”而先行贪腐。这种突破法治原则的“赦免”许愿,弄不好反会强化官员的侥幸心理,甚至衍生出更多“合法腐败”的漏洞来。

  反腐的正途就是对症下药,重塑法治的权威。解决旧的腐败存量也好,遏制新的腐败增量也罢,关键是要回归到法治轨道上,以严密无缺的刑事执法确立起腐败与罪责的必然逻辑。或许在这种“伸手必被捉”的法治威力下,那些腐败分子才会权衡利弊,生出几分主动退赃的自觉性来。(傅达林)

mercoledì 12 dicembre 2012

Usa e Manila, una "rinascita"


Un ritorno di fiamma tra due vecchi alleati (Washington e Manila) e un convitato di pietra (Pechino) che da lontano sbuffa e mette in mostra i propri muscoli. L'incontro ai vertici di Stati Uniti e Filippine, tenutosi mercoledì nella capitale dell'arcipelago asiatico, ha avuto lo scopo di cementare i rapporti tra i due paesi in un momento di grandi tensioni per le nazioni della regione Asia-Pacifico, la cui stabilità è continuamente minacciata dalle schermaglie territoriali con il Dragone nel Mar cinese meridionale. Carlos Sorreta, alto funzionario del ministero degli Esteri filippino, ha dichiarato che i due paesi sono molto vicini alla conclusione di un accordo che aumenterà consistentemente la presenza di navi, truppe e portaerei Usa nell'ex colonia.
Un piano di esercitazioni congiunte della durata di cinque anni dovrebbe essere approvato entro questa settimana. Non è chiara l'entità della mobilitazione militare americana sull'isola, ma Pio Lorenzo Batino, vice ministro della Difesa filippino ha affermato che si sono tenute "importanti discussioni" sull'eventuale presenza armata di Washington nel paese del sud-est asiatico: "Non c'è stato ancora nessun accordo specifico" ha spiegato Batino durante una conferenza stampa "si è trattato di consultazioni politiche; i dettagli verranno stabiliti da gruppi tecnici di lavoro".

Meno tiepide le affermazioni di Kurt Campbell, assistente del Segretario di Stato Usa per l'Asia Orientale e il Pacifico, il quale si è pronunciato sulle relazioni con Manila parlando esplicitamente di una "rinascita".
I colloqui con l'alleato filippino coronano un periodo di rinnovato attivismo degli Stati Uniti in Estremo Oriente. Quel connubio di politica estera, economica e di sicurezza in salsa orientale -annunciato in pompa magna da Barack Obama lo scorso anno- che porta il nome di "Pivot to Asia".
Pechino avverte l'assertività americana come una manovra di contenimento ai propri danni e diffida dalle nuove amicizie Usa nella regione. Soprattutto quando si tratta di paesi con i quali da tempo è ai ferri corti per via delle dispute pendenti sul Mar cinese meridionale. Vietnam, Brunei, Filippine, Taiwan e Malaysia hanno messo gli occhi proprio su quelle acque (racchiuso entro la 'linea dei nove tratti' che per il Dragone delimita la propria sfera d'influenza, sino quasi a lambire Singapore), crocevia di rotte marittime tra le più lucrose al mondo ed Eldorado di risorse naturali ed energetiche.

Allarmato forse un po' per le recenti provocazioni dei cugini asiatici, forse un po' per il progressivo spostamento delle truppe americane dal Medio Oriente a quello che considera il proprio giardino di casa,  Pechino è corso ai ripari. A poco meno di un mese dalla sua nomina a Segretario generale del Partito e capo della Commissione Militare Centrale, Xi Jinping, durante un'ispezione presso la guarnigione militare del Guangdong, sabato ha chiamato agli ordini l'Esercito popolare di liberazione spronandolo a portare avanti "i preparativi per una guerra armata". Taciuta l'identità del/i nemico/i, il presidente in pectore ha parlato di "modernizzazione" delle truppe, facendo eco a quanto già espresso dal presidente uscente Hu Jintao durante il Diciottesimo Congresso.

Per Washington il riavvicinamento all'ex colonia non dovrebbe destare le preoccupazioni della Cina.  Non ci sarebbe, infatti, in programma nessuna nuova base militare permanente: l'ultima è stata smantellata nel 1992. Trattasi piuttosto di un allungare la mano ad una popolazione sovente vittima di disastri naturali, come nel caso del il tifone Bopha che ha portato via oltre settecento vite.

Un funzionario Usa, citato dalla Reuters, avrebbe escluso un intervento americano immediato nel Mar cinese meridionale, ipotizzando piuttosto un rinvigorimento dei rapporti di sicurezza con gli amici di lunga data. Le controversie territoriali con la Cina dovranno essere risolte dagli stessi Paesi implicati. Magari grazie a quel Codice di condotta marittimo sul quale gli ultimi vertici Asean (l'Associazione delle nazioni del sud-est asiatico della quale Pechino e Washington sono 'dialogue partners' ) non sono ancora riusciti a trovare un accordo.

(Articoli correlati: Clinton in Asia: gli Usa non cedono sul Pacifico
 La 'guerra dei passaporti' e la 'nuova' politica estera di pechino
Anniversario dell'incidente di Mukden, sale la tensione tra Cina e Giappone)



La Corea del Nord festeggia il lancio del missile

                                    (Dal Telegraph)


(Special news bulletin broadcast at just before 12:05pm local time on December 12, 2012, announcing launch of an Unha 3 rocket carrying a satellite.)


                                    (Da Al Jazeera)

martedì 11 dicembre 2012

Ricchi e poveri, un binomio che spaventa Pechino


In Cina la forbice tra ricchi e poveri ha superato la soglia di rischio (rivolte). Lo rivela una ricerca pubblicata lo scorso 9 dicembre dal Centro Ricerche e Statistiche di China Household Finance, promossa dall'Istituto di Ricerche Finanziarie di People's Bank of China e dalla Southwestern University. Effettuato su 8.438 famiglie, lo studio mostra un coefficiente di Gini -che misura la diseguaglianza del reddito- allo 0,61 nel 2010, con uno 0,56 per i residenti urbani e gli abitanti delle zone rurali che si attestano allo 0,60.

Il coefficiente di Gini calcola il divario di ricchezza su una scala da 0 a 1. Maggiore è il valore, maggiore è l'ineguaglianza tra i redditi. Normalmente un indice al di sopra dello 0,4 contrassegna una forte disuguaglianza; quando arriva a 1 indica che tutte le ricchezze sono nelle mani di una sola persona. La totale riserbatezza adottata da Pechino sulla questione non consente di effettuare un confronto con i dati ufficiali, ma per avere un'idea basta considerare che la media di tutti i paesi monitorati dalla Banca Mondiale (BM) nel 2010 si è attestata allo 0,44. Sempre la BM nel 2005 aveva stimato l'indice per la Cina al 42,48, in questo caso riferendosi ad un scala di valutazione tra 0 e 100. Quanto a Pechino, nasconde i propri numeri dal 2000, quando il coefficiente si piazzò allo 0,412, anche se lo scorso marzo l'ex segretario di Chongqing, Bo Xilai, aveva rivelato una leggera lievitazione sino a 0,46. Nel 2011 l'Ufficio nazionale di Statistica si era tenuto sul vago, accennando ad un leggero aumento del gap tra ricchi e poveri rispetto all'anno precedente, senza rivelare le cifre esatte.

Negli ultimi venti anni il coefficienti di Gini è cresciuto nel Regno di Mezzo più che in qualsiasi altra nazione asiatica, aveva fatto notare a febbraio Murtaza Syed, rappresentante del Fondo Monetario Internazionale in Cina. All'inizio del 2012 il Centro di Ricerca e Statistiche aveva evidenziato che il 57% di tutto il reddito disponibile è detenuto dal 10% delle famiglie cinesi. A livello regionale, secondo il rapporto, l'indice è più alto nei luoghi in cui la concorrenza di mercato è più forte. Il reddito complessivo di tutte le famiglie residenti nelle provincie orientali è risultato circa 2,7 volte quello degli abitanti nelle regioni dell'ovest e del centro del Paese, come sottolinea la rivista economica cinese Caixin. A fare luce sul divario tra famiglie urbane e suburbane sono soprattutto i redditi pensionistici. Nel 2010 solo il 34,5% della popolazione rurale ha beneficiato dell'assicurazione per la vecchiaia, ricevendo 12 milioni di yuan all'anno (poco meno di 2 milioni di dollari), contro l'87% delle città per le quali è stato stanziato un budget annuo di 33 milioni di yuan (circa 5 milioni di dollari). Il rapporto suggerisce che rafforzare i sussidi alle famiglie a basso reddito potrebbe aiutare nel breve periodo a ridurre le disparità.

"In Cina il gap tra provincie, diversi settori, città e campagne è talmente predominante da rendere impossibile ipotizzare un calo del coefficiente di Gini in tempi brevi" ha spiegato Gan Li, direttore del Centro Ricerche e Statistiche, il quale ha anche sottolineato come il problema non potrà essere risolto soltanto attraverso le forze di mercato. Urge, piuttosto, "cambiare la struttura della distribuzione del reddito, basandosi su massicci trasferimenti fiscali". Maggiori entrate fiscali e una quota più rilevante dei profitti delle imprese statali "potrebbero fornire al governo circa 3,8 trilioni di yuan (610 miliardi di dollari) all'anno da spendere per la ridistribuzione del reddito." Nel lungo periodo "la Cina ha bisogno di rinforzare i finanziamenti per l'istruzione e ridurre le disuguaglianze di opportunità per diminuire il divario reddituale". D'altra parte, "un alto coefficiente di Gini è molto comune nei processi di sviluppo rapidi" ha aggiunto Gan.

Nella sua relazione, il Centro Ricerche e Statistiche ha inoltre fatto luce su un preoccupante incremento del tasso di disoccupazione nei centri urbani, passato dall'8% del luglio 2011 all'8,05% dell'anno in corso; circa il doppio rispetto al 4,1% dichiarato dal governo cinese a settembre, valore di poco inferiore al 4,3% riscontrato nel 2009, al culmine della crisi finanziaria mondiale. Ancora più allarmante la situazione dei migranti senza lavoro -estromessi dalle valutazioni ufficiali che risultano pertanto sottostimate- saliti dal 3,4% del luglio 2011 all'attuale 6%. Una bella gatta da pelare per Pechino che si era riproposto di mantenere il tasso di disoccupazione al 4,6% nel 2012. Giusto nelle scorse settimane l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico aveva visto a ribasso le stime per la crescita del 2013 e del 2014. Ad incidere sulla revisione proprio il tasso di disoccupazione, oltre all'andamento poco incoraggiante dell'export cinese che risente della crisi della Eurozona e della stagnazione Usa.

L'allargamento della forbice tra ricchi e poveri rischia di alimentare il malcontento di chi sospetta che i benefici dell'iperbolica crescita economica degli ultimi vent'anni siano andati a gonfiare le tasche dei soliti noti. Le conseguenze potrebbero essere disastrose, alla luce della crescente insofferenza manifestata dal popolo nei confronti della corruzione e dell'ingiustizia dilaganti tra i ranghi del Partito comunista cinese. Situazione alla quale dovrà far fronte Wang Qishan, nominato capo della commissione per la disciplina in seguito al turnover politico sancito dall'ultimo Congresso del Pcc. Secondo Sun Liping, professore di sociologia presso l'Università Tsinghua di Pechino, gli 'incidenti di massa' -termine con il quale Pechino etichetta scioperi, tumulti e proteste varie- sarebbero raddoppiati tra il 2006 e il 2010, raggiungendo almeno quota 180 mila.

In un rapporto di gennaio la Banca Mondiale aveva messo la riduzione delle ineguaglianze sociali in cima all'agenda della nuova leadership del Dragone. Lo stesso presidente in pectore Xi Jinping al suo debutto da Segretario generale aveva posto l'accento sul problema, facendo un uso generoso delle parole "popolo" e "corruzione" nel suo discorso in chiusura del XVIII Congresso.

Il nuovo modello di sviluppo delineato nell'11° Piano quinquennale (2006-2011) doveva comprendere una riduzione del divario reddituale tra città e campagna, nonché una ristrutturazione delle istituzioni sociali nelle aree rurali. In generale, il progetto prevedeva la ricostruzione del sistema di welfare andato in pezzi durante il processo di riforma economica cominciato alla fine degli anni '70. L'amministrazione Hu Jintao-Wen Jiabao, dal canto suo, ha provveduto al supporto dell'istruzione primaria rurale, intraprendendo i primi passi verso un sistema di assistenza sanitaria pubblica nelle campagne, il tutto grazie ad un sostanzioso aumento delle risorse allocate alla creazione del welfare (con budget per i servizi sociali più che raddoppiato nel periodo 2005-2010).
D'altra parte, l'innegabile discrepanza tra gli obiettivi inseriti nei piani di sviluppo e gli strumenti a disposizione si è tradotta in uno scollamento crescente tra quanto promesso dal governo è quanto alla fine realizzato. Da non sottovalutare gli effetti di un potere statale fortemente centralizzato: le decisioni di natura economica sono sostanzialmente nelle mani di chi ne controlla le risorse del Paese, in un conflitto d'interessi che stritola qualsiasi 'democratizzazione economica' e un modello di crescita maggiormente inclusivo. Più welfare e meno slogan vuoti è quanto dovrà somministrare la nuova dirigenza per sanare una delle piaghe più dolenti del Dragone.

Sempre più spesso il legame indissolubile tra grandi conglomerati statali e organi politici è fonte di insoddisfazione popolare, ma anche spunto di riflessione e dibattito tra l'intellighenzia del gigante asiatico. Lo scorso anno il Quotidiano del popolo, 'lingua e gola' del Partito, ha ospitato sulle sue colonne un coraggioso editoriale a firma di Cui Peng: "L'irrazionalità estrema del sistema di distribuzione del reddito non solo ha prodotto il particolare fenomeno di un 'paese forte fatto di povera gente', ma ha fatto sì che tutta una serie di importanti misure essenziali alla trasformazione del modello di sviluppo, come l'ampliamento della domanda interna, siano diventati meri simulacri" scrive Cui "In questo senso ci troviamo davanti ad una sfida oggi simile a quella che abbiamo affrontato trent'anni fa all'inizio della riforma: se vogliamo che lo sviluppo continui, allora è essenziale eliminare dal sistema i difetti e le istituzioni che si sono stratificate in un periodo di tempo molto lungo e dobbiamo essere pronti anche ad affrontare alcuni gruppi di pressione, le cui radici sono molto profonde".

(Pubblicato su Ghigliottina)

giovedì 6 dicembre 2012

Nude contro le violenze domestiche



Il volto deformato in un urlo e il corpo nudo, cosparso di segni rosso sangue. E' una delle foto comparse sulla rete nell'ambito della campagna contro le violenze domestiche lanciata lo scorso 6 novembre da alcune ragazze cinesi. Xiong Jing, 24 anni, web editor e una laurea in studi di genere, ha firmato una petizione online indirizzata all'Assemblea nazionale del popolo (Anp), il 'parlamento' cinese, per chiedere una legge che tuteli le donne anche tra le mura di casa. Una foto senza veli carica di significato il suo messaggio, trasformando il corpo in un 'campo di battaglia'.

"Questa è un'immagine molto potente, qualcosa che infrange un tabù. Spero che possa indurre le persone a riflettere sul rapporto tra violenza domestica e corpo nudo" ha spiegato Xiong al South China Morning Post alcuni giorni fa "ho voluto utilizzare questo approccio per mostrare il mio supporto alla causa femminile e accrescere la consapevolezza sulla violenza alla quale sono sottoposte le donne".

L'iniziativa ha già raggiunto un vasto consenso con oltre 5.000 firme raccolte, ma ci si aspetta di arrivare ad ottenere circa il doppio delle adesioni. Tra le richieste delle firmatarie una maggiore trasparenza del processo legislativo per consentire una più vasta partecipazione della gente comune, un meccanismo giuridico che assicuri la responsabilità (nei confronti delle vittime di abusi) e la concessione di fondi per le Ong che si occupano dei diritti delle donne.

La decisione di ricorrere all'uso del proprio corpo in segno di protesta nasce da una scelta personale; le donne che hanno preso parte alla campagna provengono da ogni parte della Cina e spesso non si conoscono tra loro. Mostrano slogan in inchiostro rosso sul petto, senza provare imbarazzo per il  proprio aspetto fisico. "Orgogliosa di essere piatta; vergogna per le violenze domestiche", "Non picchiarla; ama il mio corpo" e "Liberate la sessualità; eliminate la violenza" sono alcuni dei messaggi espressi dalle firmatarie attraverso la propria nudità.

"All'inizio ero molto impacciata...ma quando ho visto la prima foto di una ragazza dal seno piatto ho pensato fosse veramente coraggiosa a sfidare le critiche in una società dominata dagli uomini. Ritengo sia davvero ammirevole" -ha commentato Dian Dian, una 23enne di Hong Kong che dopo le prime esitazioni ha deciso di mostrarsi senza veli- "l'utilizzo del corpo è un linguaggio potente. Posare svestite potrebbe sembrare irrilevante per il problema della violenze familiari, ma in realtà il nostro corpo è strettamente legato alla lotta."

Dopo essersi scontrati in un primo momento con i censori di Sina Weibo, principale piattaforma di microblogging in salsa di soia, gli scatti senza veli hanno ricominciato ad alluvionare il web cinese con l'aumentare delle adesioni.

Gli ultimi dati ufficiali mostrano che un donna sposata su quattro subisce qualche tipo di sopruso tra le mura di casa. Ma le violenze non si verificano soltanto tra le coppie sposate, come nel caso delle figlie omosessuali sottoposte a stupro per volere dei genitori. Secondo i risultati di un'indagine condotta da All-China Women's Federation -pubblicata dal South China Morning Post nell'ottobre dello scorso anno- nel Regno di Mezzo circa un quarto delle donne ha subito abusi durante il matrimonio, e per più del 5% le violenze familiari sono ancora una realtà di tutti i giorni. Il 24,7% è stato sottoposto ad umiliazioni verbali, abusi sessuali e restrizioni della libertà, perdendo il controllo delle proprie finanze; il 5,5% è vittima di maltrattamenti fisici, con un tasso del 7,9% nelle zone rurali e del 3,1% nelle aree urbane.

Le violenze domestiche vengono spesso ancora ritenute un 'problema di coppia', risolvibile semplicemente attraverso il dialogo tra i coniugi, piuttosto che con il coinvolgimento delle Corti di giustizia. Le autorità competenti stanno ancora lavorando alla stesura di un progetto di legge autonomo che copra nello specifico questi crimini, al momento trattati ancora in maniera superficiale dalla legge sul matrimonio. Sebbene una normativa contro le violenze familiari compaia nell'agenda del Comitato permanente dell'Anp dall'agosto 2011, secondo Feng Yuan, presidentessa di China Anti-Domestic Violence Network, occorreranno ancora due o tre anni perché venga promulgata una legge in materia.

L'iniziativa delle 'petizioniste senza veli', giunge a pochi giorni da un'altra protesta rosa, guidata da una decina di universitarie di Wuhan, nella Cina centrale. La richiesta di informazioni sul proprio ciclo mestruale (oltre ai normali controlli fisici) per poter lavorare nell'amministrazione pubblica ha indignato non solo le candidate, ma anche buona parte della rete. Come può la regolarità del ciclo o la sua entità avere qualche influenza sulla professionalità di un'impiegata? A Xiochun e le altra la cosa non è andata giù e così si sono ritrovate davanti al Dipartimento delle Risorse umane e della Sicurezza sociale per protestare con tanto di mutandoni di carta recanti su scritto l'ideogramma jian (esaminare) barrato in rosso.

Nel mese di giugno era stata la volta delle donne di Shanghai, furibonde per il messaggio pubblicato dalla metropolitana della città sul proprio account Weibo, il Twitter cinese. Sotto alla foto di una ragazza in abiti succinti una didascalia sentenziava: "vestirsi in questo modo renderebbe insolito per una donna non essere molestata. Ci possono essere pervertiti sulla metro ed è difficile allontanarli. Per favore signore abbiate rispetto di voi stesse". Il post scatenò una raffica di commenti, pro e contro il diritto delle donne a scegliere liberamente cosa indossare, anche se estremamente sexy. "Posso essere volgare ma tu non mi puoi molestare" è stata la risposta di una delle passeggere.

Sempre durante l'estate, a Canton le manifestazioni 'femministe' avevano assunto una piega quasi paradossale con l'occupazione dei bagni maschili, a causa del numero irrisorio delle toilette per donne, mentre, in varie parti del paese, una ventina di ragazze si sono rasate i capelli per dire no agli standard discriminatori per l'ammissione universitaria, adottati ufficialmente allo scopo di bilanciare le iscrizioni.

"Le discriminazioni di genere sono molto comuni in Cina e, in un certo senso, anche istituzionalizzate" ha dichiarato al Guardian Geoff Crothall direttore per la comunicazione di China Labour Bulletin, organizzazione non governativa con base ad Hong Kong che si batte per i diritti dei lavoratori cinesi "negli ultimi anni, comunque, si è riscontrata una presenza femminile più massiccia nei gruppi di attivismo sociale per chiedere che le cose cambino".

La situazione giuridica delle cinesi dei nostri giorni -ha affermato tempo fa la nota artista performativa Li Xinmo- può essere paragonata a quella delle donne americane degli anni '70. Abusi sul lavoro e violenze in famiglia; la legge cinese non tutela sufficientemente 'l’altra metà del Cielo', in un paese in cui è assai arduo rinvenire tra le pieghe della storia tracce di un movimento femminista. "In Europa e negli Stati Uniti il femminismo esiste da cinquant’anni, ma in Cina nessuno ha il coraggio di parlare dei diritti delle donne, senza contare che i diritti umani sono ancora un tabù" ha dichiarato Li in un'intervista a margine della mostra "Bald Girls", tenutasi a Pechino la scorsa primavera presso l'Iberia Center of Contemporary Art del distretto artistico 798.
Ma femminismo non vuol dire battaglia dei sessi, né si traduce nell’odio verso la figura maschile, piuttosto – ha dichiarato l’artista – "ciò che bisogna odiare è il maltrattamento delle donne e l’incomprensione mostrata nei loro confronti".

(Pubblicato su Dazebao)

lunedì 3 dicembre 2012

Nuovo missile nordcoreano preoccupa l'Asia


Otto mesi posson bastare? Dopo il fallimentare lancio del vettore Unha-3 (Via Lattea) rimasto in volo poco più di un minuto per poi colare a picco nel Mar Giallo, la Corea del Nord ci riprova. Come reso noto da un comunicato del Comitato coreano per la tecnologia spaziale ripreso dall'agenzia di stampa statale Kcna, tra il 10 e il 22 dicembre Pyongyang procederà al lancio di un nuovo missile a lungo raggio analogo a quello precipitato nel mese di aprile. Secondo le dichiarazioni del governo nordcoreano, il razzo dovrebbe portare in orbita un satellite per l'osservazione terrestre, ma sono in molti a sospettare che dietro lo scopo conclamato si nascondano  piuttosto motivazioni militari. Il nuovo vettore, come il suo sfortunato predecessore, è in grado di portare testate atomiche a migliaia di chilometri, minacciando la costa occidentale degli Stai Uniti, e attraverso la rotta Artica, anche l'Europa.

Dopo i test atomici del 2006 e del 2009, una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu vieta alla Corea del Nord test missilistici o legati ad attività nucleari. Otto mesi fa Washington e Palazzo di Vetro si erano scagliati contro Pyongyang denunciando il test di un nuovo razzo, una versione a tre stadi del missile balistico Taepodong-2, il quale avrebbe un raggio d'azione tra i 3 mila e i 10 mila chilometri. Al tempo la Casa Bianca reagì allo sfoggio di muscoli di Pyongyang sospendendo gli aiuti alimentari e non è da escludere che la nuova provocazione sia soltanto un bluff con lo scopo di aprire i negoziati per la ripresa degli aiuti umanitari internazionali; indispensabili ad arginare il problema delle carestie che affligge il popolo nordcoreano da quando, con il crollo dell'Unione Sovietica, è rimasto orfano del benefattore russo.

Ma molte altre sono le motivazioni che potrebbero aver riacceso l'entusiasmo della Nord Corea per le 'missioni spaziali'. Le date previste per il lancio, oltre a coincidere con l'anniversario della morte di Kim Jong-Il (17 dicembre), padre dell'attuale leader nordcoreano Kim Jong-Un, cadono in concomitanza delle elezioni della Corea del Sud, in agenda per il 19 del mese. Il ministero degli Esteri sudcoreano ha bollato l'iniziativa del vicino di casa "un grave atto provocatorio", contrario alla risoluzione delle Nazioni Unite. Nel corso di un conferenza stampa, il numero uno di Seul, Lee Myung-Bak, ha chiarito che le nuove manovre della Corea del Nord non influenzeranno le presidenziali sudcoreane. "Questa non è la prima volta che la Corea del Nord tenta di distruggere la nostra transizione politica" ha affermato Lee, il quale ha anche invitato il leader in pectore cinese, Xi Jinping, a stringere il guinzaglio al 'caro alleato' che con lo sviluppo di armi nucleari rischia di destabilizzare l'intera regione.

Più cautela sui test missilistici è, invece, quanto consiglia Taiwan in una nota rilasciata dal Ministero degli Esteri che invita Pyongyang a "contribuire a mantenere la pace e la stabilità nella penisola coreana e nell'Asia Orientale, in linea con le normative in materia stabilite dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu 1874." L'alt è arrivato anche da Mosca e Washington, che per bocca della portavoce del Dipartimento di Stato Victoria Nuland ha definito la decisione della Nord Corea "una grave provocazione che minaccia la pace e la sicurezza della regione".

Non si è perso in chiacchiere Tokyo: la marina militare giapponese ha già provveduto a trasferire una batteria di missili Patriot Advanced Capability-3 (Pac-3) verso la prefettura di Okinawa, la più a rischio per la prevista traiettoria del missile, mentre il Ministro della Difesa, Satoshi Morimoto, nella giornata di sabato ha emesso l'ordine di intercettare il razzo nordcoreano e, se necessario, abbatterlo. Il Giappone ha, inoltre, annunciato il rinvio dei dialoghi con l'interlocutore nordcoreano, che si sarebbero dovuti tenere mercoledì e giovedì nella capitale cinese.

Pericolo anche oltre la Grande Muraglia. Secondo quanto riportato dal quotidiano taiwanese Want China Times, un funzionario di Seul intervistato dall'agenzia di stampa sudcoreana Yonhap, avrebbe messo in guardia Pechino rivelando che i missili a nord del 38° parallelo minacciano la sicurezza nazionale della Cina: proprio il nuovo vettore è stato sistemato nella base di lancio Dongchang-ri, nel nord-ovest, a pochi chilometri dal confine con l'Impero di Mezzo. "Non ha importanza se l'Unha-3 porta un razzo o un satellite" ha affermato il funzionario che ha chiesto di rimanere nell'anonimato "ciò che conta è il fatto che il missile possa essere utilizzato per scagliare testate nucleari contro i paesi vicini, ed è pertanto da considerarsi una minaccia per la sicurezza cinese".

Nel corso di una conferenza stampa tenutasi il 2 dicembre, il portavoce del Ministero degli Esteri cinese, Qin Gang, ha dichiarato che Pechino riconosce il diritto di Pyongyang ad un uso pacifico dello spazio esterno, ma che tale uso debba essere 'armonizzato' con le restrizioni stabilite dal Consiglio di Sicurezza dell'Onu. "Speriamo che tutte le parti interessate agiscano in modo da assicurare la pace e la stabilità nella penisola coreana e mi auguro che risponderanno con calma in modo da evitare l'aggravarsi della situazione" ha affermato Qin. Apparentemente, l'alleato cinese era stato informato del nuovo lancio alcuni giorni fa, durante l'ultima visita a Pyongyang di Li Jianguo, vice presidente dell'Assemblea Nazionale del Popolo, come riporta Want China Times.

E mentre ormai sulla rampa è già stato istallato il primo stadio del missile intercontinentale, rimangono molti dubbi sul fatto che gli scienziati nordcoreani possano essere riusciti, in soli otto mesi, a correggere i difetti che in aprile fecero fallire il primo lancio. Così come altrettante incertezze permangono sul fatto che Pyongyang sia disposto a rischiare di perdere nuovamente la faccia, oltre a ricevere la condanna delle Nazioni Unite e altre pesanti sanzioni.

(Pubblicato su Dazebao)

domenica 2 dicembre 2012

Meno parole, più azioni per smuovere la Cina


La Cina ha bisogno di 'farsi sentire' rimanendo con i piedi per terra. Quello del Global Times, tabloid in lingua inglese, costola del filogovernativo Quotidiano del Popolo, è un consiglio preso a prestito dal nuovo Segretario del Partito e futuro presidente Xi Jinping. "I discorsi vuoti sono inutili, solo il duro lavoro può promuovere il rinnovamento della nazione" ha sentenziato il leader in pectore durante un discorso tenuto il 29 novembre presso il Museo Nazionale Cinese mentre era in corso la mostra "La strada verso il rinnovamento". Il concetto è stato rielaborato dal quotidiano-bulldozer, il quale si è espresso con preoccupazione sul progressivo allontanamento del popolo cinese dal proverbiale pragmatismo che da sempre lo contraddistingue. Letteralmente: "la Cina un tempo era un paese di 'facitori', ma ora sta diventando un paese di 'chiacchieroni'. Questo vuol dire che se discutere, di per sé, è sintomo di democrazia, discutere troppo può condurre la patria nella trappola della democrazia. I Paesi occidentali sono da sempre i più grandi venditori di parole, fattore che suscita molte invidie tra i cinesi". Pertanto occorre trovare un equilibrio tra 'parole' e 'azioni' -prosegue il Global Times- e sopratutto far si che internet, megafono del popolo (nel Regno di Mezzo più che altrove), eserciti un potere positivo, facendo progredire la Cina. Nel corso degli ultimi trent'anni le riforme sono avvenute a porte chiuse, senza la partecipazione dell'opinione pubblica. Oggi sono stati fatti molti passi avanti, ma continua ad esserci chi propone richieste idealiste, cercando di sfruttare la vox populi a proprio vantaggio invece che per risolvere i problemi del paese. A questo punto i 'facitori' debbono ingegnarsi se vogliono che la loro voce venga ascoltata; in caso contrario le azioni volte a promuovere la democrazia e l'uguaglianza avranno effetti opposti. Un tempo i discorsi vuoti erano prerogativa dei funzionari, adesso, invece, riempiono la bocca dell'opinione pubblica. Non siamo contro la vivacità del dibattito e il pluralismo delle idee ma, quando le parole diventano più pesanti delle azioni e quando la società viene addomesticata a suon di slogan seducenti, il rischio è quello che il paese intraprenda una strada sbagliata. La Cina ha bisogno di una modernizzazione a tutto campo e di un pluralismo di idee. Ma la Cina ha anche bisogno di restare con i piedi per terra.

(Articolo integrale: China needs more action, less talk)

mercoledì 28 novembre 2012

La 'guerra dei passaporti' e la 'nuova' politica estera di Pechino



E' stata soprannominata la 'guerra dei passaporti' e adesso rischia di esacerbare le tensioni tra la Cina e alcuni paesi asiatici. Con una mossa indisponente, alcuni giorni fa Pechino ha emesso nuovi passaporti in cui a pagina 8 compare una mappa della Repubblica popolare particolarmente estesa; comprensiva di una serie di zone contese al centro di dispute territoriale tra il Dragone e diversi vicini di casa. L'Arunachal Pradesh, l'Aksai Chin, Taiwan e tutte le isole del Mar Cinese Meridionale- comprese all'interno della 'linea dei nove trattini' che dal 1953 delimita l'estensione del Regno di Mezzo arrivando quasi a Singapore- vengono reclamate come territorio cinese in un puntare i piedi che ha già visibilmente irritato India, Taipei, Vietnam e Filippine.

E se Taiwan ha definito la manovra di Pechino 'inaccettabile', Manila 'una violazione del diritto internazionale' e Hanoi ha deciso di rilasciare nuovi visti a parte, rifiutandosi di timbrare i passaporti  'made in China' con le isole contese, Delhi ha preso provvedimenti più risoluti: l'ufficio che a Pechino gestisce le pratiche consolari per conto dell'ambasciata indiana ha cominciato ad emettere visti con una propria versione della mappa dove Arunachal Pradesh e Aksai Chin risultano a tutti gli effetti indiani.

Nella geografia dei passaporti cinesi non compaiono invece le famigerate Diaoyu (Senkaku in giapponese), isole contese del Mar Cinese Orientale responsabili di un deterioramento dei rapporti tra Sol Levante e Impero di Mezzo, precipitati nel mese di settembre ad un nuovo minimo storico dopo l'annuncio dell'acquisto da parte di Tokyo di tre degli atolli da un famiglia giapponese che ne deterrebbe formalmente la proprietà. Forse troppo piccole per essere visibili in filigrana o forse, semplicemente, ancora fuori dall'occhio del ciclone quando a maggio furono, inizialmente, emessi i passaporti 'incriminati'. Al tempo l'attenzione di Pechino era rivolta più a sud, nel Mar Cinese Meridionale, le cui acque continuano tutt'oggi ad essere agitate da dispute territoriali tra Cina, Vietnam, Filippine, Brunei, Malaysia e Taiwan, autoproclamatasi indipendente dalla Cina fin dal 1949.
Al culmine della tensione, nel mese di settembre, il governo aveva inasprito le sanzioni per le case editrici di mappe che non avessero incluso tutte le isole periferiche rivendicate dal Dragone. "L'attuale normativa, redatta nel 1995 -riportava l'agenzia di stampa statale Xinhua- consente una multa massima di 10.000 yuan (1.500 dollari), che potrebbe salire a 100mila yuan (16mila dollari) se la nuova legge passasse."

Adesso la nuova mappa rischia di "innescare un'escalation abbastanza seria perché la Cina sta rilasciando milioni di questi passaporti, che per gli adulti hanno validità di dieci anni. Così se in futuro cambierà idea dovrà ritirarli tutti" ha commentato un alto diplomatico di base a Pechino.
Ma il governo cinese ha già provveduto a rilassare i toni. "Non bisogna equivocare la storia delle mappe sui nuovi passaporti cinesi" ha affermato il portavoce del ministero degli Esteri Hong Lei "la Cina è disposta a rimanere in contatto con i paesi interessati e promuovere uno sviluppo sano degli scambi tra il popolo cinese e il resto del mondo". Una spiegazione che non ha tranquillizzato uno degli interlocutori più presenti nell'area, gli Stati Uniti, che per bocca della portavoce del Dipartimento di Stato, Victoria Nuland, si sono detti preoccupati per la 'tensione e l'ansia' che i nuovi passaporti potrebbero creare tra i paesi del Mar Cinese Meridionale.

Il Mar Cinese Meridionale
Negli ultimi mesi è stato teatro di accese dispute territoriali tra Cina, Vietnam, Filippine, Brunei, Malaysia e Taiwan, tutte impegnate a mettere le mani sulle isole Spratly (Cina, Vietnam, Malaysia, Brunei, Filippine e Taiwan), Paracel (Vietnam, Taiwan e Cina) e lo Scarborough Shoal (Cina e Filippine). Oltre ad alcune tra le rotte commerciali più lucrose al mondo, a fare gola ai paesi della regione è soprattutto la ricchezza delle sue acque che, oltre ad essere molto pescose, secondo le stime dell'Energy Information Administration, potrebbero ospitare fino a 16 miliardi di metri cubi di gas e 213 miliardi di barili di petrolio. Da parte sua Pechino considera la propria sovranità sugli atolli 'indiscutibile' - e garantita da alcuni documenti storici- così come su quasi tutto il Mar Cinese Meridionale, per un'area complessiva di circa 1,7 milioni di chilometri. Periodicamente le ostilità tra i vari cugini asiatici si riaccendono, in un tendere i muscoli che, sino ad oggi, ha dato vita 'soltanto' ad un via vai di navi da guerra, minacce e ritorsioni commerciali.

Quanto pesano le schermaglie nell'area lo dimostra il vertice che quest'estate ha riunito i ministri degli Esteri dell'Asean (l'Associazione delle nazioni del Sud Est asiatico) conclusosi, per la prima volta in 45 anni, senza un accordo né un comunicato di chiusura dei lavori. Manila avrebbe voluto un testo che menzionasse esplicitamente la situazione pendente sulla secca di Scarborough, ma la Cambogia, ospite del summit e tra i principali alleati della Rpc, si è opposta. Di fatto, l'esito del vertice diplomatico di Phom Penh è stato letto come una vittoria diplomatica del Dragone. Nella stessa occasione, infatti, sarebbe dovuto essere redatta una bozza del Codice di condotta tra i paesi membri e la Cina, legalmente vincolante per il Mar Cinese Meridionale.

Esito insoddisfacente anche per l'ultimo East Asia Summit (Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico più le loro controparti statunitense, cinese, giapponese e australiana), tenutosi sempre nella capitale cambogiana a metà novembre, durante il quale il presidente filippino Benigno Aquino ha smentito un raggiunto consenso per non 'internazionalizzare' le dispute territoriali. Da sempre il Dragone si ostina a trattare i contenziosi su base bilaterale con i vari paesi implicati, evitando un' internazionalizzazione delle questioni che comporterebbe il coinvolgimento degli Stati Uniti, sempre più propensi a rivendicarsi il ruolo di gendarme della regione. Se “Per gli Stati Uniti il Ventunesimo Secolo sarà il secolo del Pacifico” -come dichiarato dal Segretario di Stato Usa Hillary Clinton alla fine del 2011 all’apertura del vertice APEC (Asia- Pacific Economic Cooperation) che riunisce 21 Paesi dell’Asia-Pacifico-  al suo secondo mandato da presidente, Barack Obama ha ribadito il concetto ponendo il Sud-Est asiatico in cima alla propria agenda estera.

Di pari passo con il progressivo allontanamento dai teatri di guerra del Medio Oriente, il rinnovato dinamismo americano in Estremo Oriente viene avvertito da Pechino, non del tutto a torto, come una manovra di containment politico, economico, e militare ai propri danni. Il progetto di una task force marittima Usa in Australia da 2.500 soldati è uno dei campanelli che hanno fatto scattare l'allarme oltre la Muraglia. Ma se da una parte Washington non vuole lasciare soli i propri alleati asiatici (Giappone, Filippine, Taiwan, Corea del Sud e adesso anche Vietnam) ai quali è legato da vincoli storici, dall'altra manca di credibilità richiedendo alla Cina di attenersi al diritto internazionale, quando proprio gli Stati Uniti non hanno ratificato la Convenzione dell'Onu sul diritto del mare, il documento legale più rilevante in materia.

Pechino, d'altronde, non è rimasto a guardare, rispondendo all'assertività Usa con un budget per la Difesa che, secondo le dichiarazioni ufficiali del governo cinese, nel 2012 ha raggiunto i 670,7 miliardi di yuan (circa 106 miliardi di dollari), ma che stando alle stime del SIPRI (Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma) potrebbe superare del 50% le cifre rese note. E anche se con un distacco consistente, nel 2011 il Dragone è stato secondo soltanto all'Aquila quanto a spese per il riarmo. Proprio alcuni giorni fa la Xinhua ha comunicato che alcuni caccia della marina militare cinese hanno completato le fasi di decollo e atterraggio sulla Liaoning, prima portaerei del Regno di Mezzo, mentre sui media ufficiali sono comparse immagini di esercitazioni nella regione militare di Nanchino, che si affaccia sullo stretto di Taiwan, l'isola democratica alla quale Washington ha venduto armi per 6,4 miliardi di dollari.

Ma quella tra Cina e Stati Uniti è una competizione che trascende le manie di grandezza dei rispettivi eserciti e assume sempre più nettamente le caratteristiche di una sfida a colpi di zone economiche speciali: nessuno, di fatto, auspica un conflitto a fuoco. La Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep), in cantiere da circa un anno, prevede la creazione di una partnership commerciale tra i 10 paesi Asean (Brunei, Cambogia, Indonesia, Laos, Malesia, Myanmar, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam) e sei partner regionali Cina, Giappone, Corea del Sud, India, Australia e Nuova Zelanda. Un progetto fortemente voluto da Pechino che, se concluso con successo, porterà alla creazione dell'accordo commerciale più ampio mai siglato prima, rispondendo al modello concorrente proposto da Washington, la Trans Pacific Partnership (TPP), dalla quale il Dragone è stato escluso.

L'Arunachal Pradesh e l'Aksai Chin
L'Arunachal Pradesh, stato settentrionale dell'India, per Pechino non è altro che il 'Tibet Meridionale' (Zangnan) e pertanto farebbe parte della Repubblica popolare. Solo un mese fa i due paesi avevano ricordato il 50esimo della guerra sino-indiana, scoppiata nel 1962 proprio per problemi con la linea MacMahon, adottata unilateralmente dall'India nel 1950 come proprio confine. I rapporti tutt'altro che idilliaci si sono ulteriormente raffreddati a partire dal 2009, anno in cui Pechino cominciò a rilasciare visti su 'pezzi di carta volanti' ai residenti del Jammu Kashmir, stato nord-occidentale del subcontinente indiano, bypassando le istituzioni locali. Una regione, quest'ultima, rivendicata anche dal Pakistan e teatro di insurrezioni separatiste da più di due decenni, che per Delhi rappresenta un nervo sensibile quanto il Tibet per Pechino. Al contrario l'Aksai Chin è, insieme alla valle Shaksgam, una delle due aree del Kashmir amministrata dalla Cina il cui possesso viene rivendicato allo stesso tempo dall'India.
Sul fronte marittimo le cose non vanno molto meglio, con il crescendo dei sospetti che Delhi stia cercando di ostacolare la sovranità reclamata da Pechino su quasi tutto il Mar Cinese Meridionale;  secondo l'Economist, un campo di battaglia più probabile di quanto non lo siano le regioni Himalayane. Nell'ottobre 2011, l'India ha accettato l'invito del Vietnam per intraprendere esplorazioni congiunte nelle acque contese, ricche di gas e risorse naturali. E nonostante le minacce di Pechino, il cugino asiatico non sembra essersi fatto intimorire. Durante il Forum Regionale dell’Asean tenutosi a Phnom Penh lo scorso luglio, Delhi ha presentato forti argomentazioni per sostenere non solo la libertà di navigazione ma anche l’accesso alle risorse, in accordo con i principi del diritto internazionale.

Taiwan
La mappa 'estesa' emessa da Pechino non è andata giù nemmeno a Taipei, per il Dragone provincia ribelle in attesa di essere riannessa alla madrepatria, che avanza una sovranità territoriale nella regione quasi identica a quella cinese. Sui nuovi passaporti compaiono, infatti, anche il Sun Moon Lake e le scogliere Chingshui, note attrazioni turistiche dell'isola. Ma se la mossa del gigante asiatico è stata avvertita come un fallo gamba tesa dalla Repubblica di Cina (ROC), d'altra parte, la posizione di quest'ultima è più complessa rispetto a quella degli altri attori della regione, inferociti per l'ennesima alzata di testa di Pechino. Mentre le controversie con Vietnam, Filippine, India , Brunei e Malaysia riguardano solo sovrapposizioni territoriali, nel caso dell'ex isola di Formosa la Cina avanza la propria sovranità su tutto il territorio nazionale. Rispondendo lunedì alla reazione stizzita di Taipei, l'Ufficio per gli Affari di Taiwan del Consiglio di Stato ha ribadito che c'è 'una sola Cina' e che le proteste hanno lo scopo di 'suscitare polemiche', rischiando di compromettere le relazioni tra le due sponde. Se Hanoi e Delhi saranno libere di stampare una propria cartina, a Taiwan ci penseranno due volte, sotto l'amministrazione dell'attuale presidente Ma Ying-jeou, in carica dal 2008 e artefice di un netto miglioramento delle relazioni con Pechino. Secondo i pronostici del Diplomat, la ROC accetterà il nuovo passaporto per la pace dello Stretto, una mossa che Pechino potrebbe interpretare a proprio favore come un tacito riconoscimento di 'una sola Cina'.

Il futuro della politica estera cinese
E' un governo di transizione quello delineato dal Diciottesimo Congresso del Partito, tenutosi tra l'8 e il 14 novembre nella Grande Sala del Popolo, a Pechino. Almeno quattro dei sette uomini del Comitato permanente del Politburo, il massimo organo decisionale cinese, lasceranno probabilmente il proprio incarico tra cinque anni per sopraggiunti limiti di età. Per Xi Jinping e Li Keqiang, dal marzo 2013 rispettivamente presidente e premier della Repubblica popolare, la strada si presenta quantomai tortuosa. La lenta ripresa della macchina economica, non più trainata da una crescita a due cifre, l'allargamento della forbice tra ricchi e poveri e la corruzione rampante sono alcune delle sfide alle quali dovrà far fronte la nuova dirigenza del Dragone.
Quanto alla politica estera, saranno necessari uno o due anni di assestamento prima che i nuovi 'imperatori' possano lanciare iniziative proprie. Le condizioni attuali difficilmente permetteranno una virata rispetto alle politiche prudenti portate avanti dal leader uscente Hu Jintao.

Proprio Hu, in apertura del Congresso, nel suo ultimo discorso da segretario generale del Partito ha tracciato le linee guida alle quali si dovrà, presumibilmente, attenere Xi Jinping durante il proprio mandato. Hu ha chiesto alla Cina di diventare una 'potenza marittima' sottolineando che la modernizzazione globale delle forze armate cinesi continuerà anche in futuro. Il rapporto prosegue auspicando uno sviluppo militare "commisurato alla posizione internazionale dell Cina" per affrontare " i problemi che ne minano la sopravvivenza e la sicurezza dello sviluppo, così come le minacce alla sicurezza tradizionali e non tradizionali". D'altra parte The Diplomat fa notare come nella relazione del discorso del presidente- la cui redazione è stata certamente supervisionata dal suo futuro successore- un 'nuovo pensiero' proietti barbagli di luce sulla politica estera del gigante asiatico. In particolare risalta la frase: "stringere nuove relazioni di stabilità a lungo termine e determinare una sana crescita con gli altri paesi principali". Un riferimento a quanto già espresso da Hu Jintao durante il quarto dialogo strategico ed economico Cina-Usa, proprio mentre il caso del dissidente cieco Chen Guangcheng metteva a dura prova la diplomazia delle due superpotenze.
La svolta sostanziale sta, dunque, nel riconoscimento della necessità di evitare conflitti tipicamente associati alle transizioni di potere sullo scacchiere globale. Ma -secondo M. Taylor Fravel, professore associato di Scienze politiche al Massachusetts Institute of Technology- ciò che si evince dal discorso di Hu è, piuttosto, la netta predominanza della politica interna. Solo il 10% del rapporto ha affrontato questioni di respiro internazionale, quali i rapporti con Taiwan o la politica estera e di difesa, mentre le sfide sociali ed economiche sembrano essere il vero chiodo fisso del Partito.

Pubblicato in forma ridotta su Ghigliottina.it
(Articoli correlati: La 'strategia del filo di perle' e la gemma cingalese
Pechino VS Manila: quella complicata storia del Mar cinese meridionale)








domenica 25 novembre 2012

iSun Affairs: dal 'decennio d'oro' all'età del ferro

Un'epoca si chiude un'altra inizia. L'agguerrito settimanale di Hong Kong, iSun Affairs, riassume i punti chiave del governo Hu Jintao-Wen Jiabao attraverso l'opinione di alcuni blogger e giornalisti. Così, nell'immaginario del suo capo redattore, 'il decennio d'oro' della leadership uscente si trasforma nell''età del ferro', caratterizzata dal degrado etico e morale. Sarà in grado di fare di meglio il futuro presidente cinese Xi Jinping? Le aspettative sono molte, forse troppe

Segue una traduzione libera più testo il originale.

(Il capo redattore)*
Le aspettative che dieci anni fa l'opinione pubblica riponeva  sulle nuove politiche di Hu e Wen, sono ancora vivide. Oggi quelle stesse speranze e quelle stesse lodi hanno cambiato soltanto nome e sono state spostate automaticamente sulle nuove politiche di Xi Jinping e Li Keqiang.

(Storie in copertina)
Non intraprendere le riforme può portare da una sconfitta ad un'altra. Testo di Dan Dun
All'interno del sistema del Pcc non esiste una fazione riformista ed è irrealistico trasferire queste speranze sulle spalle dei nuovi leader. Ma tutti dovrebbero capire che il decennio di Hu e Wen ha condotto il Paese in una situazione molto pericolosa

Il decennio Hu-Wen. Politica- funzionari di spicco hanno provocato danni alla nazione: la strumentalizzazione del potere da parte del Partito porta ad uno shock delle riforme politiche. Testo di Chen Ziming
L'ideologia tende verso il conservatorismo, verso il rafforzamento del potere in nome della stabilità e verso un'amministrazione del Paese attuata dalle forze di polizia. In questi dieci anni di governo Hu-Wen la politica cinese non è giunta in una fase di stagnazione, piuttosto è regredita.

Il decennio Hu-Wen. Economia- uccidere la gallina dalle uova d'oro: questo gioco dà potere soltanto ai funzionari influenti. Testo di Luo Xiaopeng
La double-deficit policy (雙逆差政策) di Hu Jintao è ingiusta nei confronti del popolo cinese -che è l'artefice della ricchezza del Paese- e danneggia anche l'ordine economico mondiale, mentre i veri vincitori sono i patrimoni dei funzionari.

Il decennio Hu-Wen. Società- il decadimento morale. Il mantenimento della stabilità genera una falsa armonia. Testo di Zhou Keshang
Il mantenimento della stabilità è la logica inesorabile del Partito comunista cinese. La stabilità prevale su tutto, ma spesso, in realtà, essa è causa di maggiore instabilità.

Il decennio Hu-Wen. La giustizia- il Partito è al di sopra della legge: bisogna considerare prima la politica e dopo lo stato di diritto. Testo di Wang Jianxun.
La supremazia della causa del Partito e la giustizia socialista aumentano il potere e l'ingerenza della leadership sul lavoro degli avvocati. Da 10 anni il sistema giudiziario cinese sta sperimentando un processo di cambiamento non pacifico.

Il decennio Hu-Wen. Le etnie- l'intensificazione delle contraddizioni. Perché il Pcc è in un dilemma circa le zone di confine? Testo di Yao Xinyong
Il gap tra ricchi e poveri è grande, i rapporti tra le etnie sono sempre più tesi, il grado di identità nazionale è sceso ulteriormente e le contraddizioni etniche sono in aumento. Durante la permanenza al potere di Hu e Wen, il problema dei contrasti etnici è scivolato in una situazione pericolosa.

Il decennio d'oro Hu-Wen. La questione di Taiwan- con i soldi hanno tentato di promuovere l'unificazione: in questo modo riusciranno a conquistarci? Testo di Kang Yilun
Il decennio Hu -Wen ha coperto i mandati di Chen Shui-bian e Ma Ying-jeou. In questa decade di governo, la strategia dell'intimidazione per ostacolare l'indipendenza e delle promesse di guadagni per raggiungere l'unificazione è sicuramente riuscita con successo. I rapporti tra le due sponde, da quando è salito al potere Ma Ying-jeou, sono entrati in una fase idilliaca mai vista prima.

Il decennio Hu-Wen. Cultura- il ritorno a Yan'an. Un'epoca armoniosa (和諧 hexie) ha dato vita alla cultura di Hexie (河蟹 hexie). Testo di Wu Zuolai 
Si è verificato un ingabbiamento della cultura, degenerato in detenzioni forzate. Ci sono opere che elogiano i meriti di Hu Jintao, altre, invece, che sono scritte dal popolo per raccontare la verità. Questi dieci anni sono stati i peggiori e, allo stesso tempo, i migliori.

L'arroganza del ferro*

Il Quotidiano del Popolo e la Xinhua hanno definito i 10 anni di governo di Hu e Wen "la decade d'oro", un termine che ci fa pensare all''età del ferro'. Questo metodo di suddivisione delle generazioni umane è mutuato dalla tradizione greca. Nell'età dell'oro uomini e dei vivevano insieme, in pace e gioia. Sebbene la terra fosse in grado di generare da sé il raccolto, gli uomini non erano pigri né avidi, ma nobili e generosi d'animo. L'età del ferro è invece buia e decadente; è un'epoca di degenerazione etica, in cui gli amici infrangono le promesse, gli innamorati litigano, le regole vengono danneggiate, mentre prevalgono le falsità, le persone non hanno il senso del pudore e vengono abbandonate dagli dei. Se ci basassimo su tali criteri, certamente, il secondo scenario rispecchierebbe meglio i veri sentimenti nutriti dal popolo cinese negli ultimi dieci anni. Forse i media del Partito non sono stati così rigorosi e hanno semplicemente scelto il significato letterale di 'oro' nella sua accezione di 'ricco' e 'fiorente'. Allora tocca a noi aggiungere che 'il ferro' rispecchia la nostra impressione su questi dieci anni di governo. Dall'espressione rigida del capo di stato Hu Jintao, fino ai numerosi scandali innescati dalle lotte di potere al vertice, alla politica martellante della stabilità attraverso la violenza, e alla perpetuazione di ogni tipo di oltraggio, come l'imposizione di tasse esorbitanti, e le restrizioni su internet che impedisce la comunicazione tra le persone, tutto questo ci riporta alla memoria il terrore e il gelo dell''età del ferro'.

In un rapporto celebrativo sullo Shibada (il XVIII Congresso ndr) pubblicato dalla Xinhua, vengono citati i commenti dei media stranieri, secondo i quali 'il decennio d'oro' ha dato grande fiducia al Paese e il miracolo cinese continuerà anche in futuro.

Certamente, il più grande cambiamento avvenuto in questi dieci anni consiste nell'aver raggiunto la consapevolezza di essere una grande nazione, richiamando l'attenzione globale. (La Cina) si è asciugata il volto dalla modestia dimostrata nei confronti della civiltà mondiale all'inizio del processo di riforme e apertura. Ora manifestazioni di sentimenti nazionalisti estremi si susseguono con irrequietezza. Dietro a questa sicurezza di sé vi è la pressione esercitata dopo il massacro di Tiananmen, l''educazione patriottica' promossa dalla politica della seduzione; vi è il blocco dell'informazione sul web e il controllo dell'opinione pubblica messo in atto dal 'partito dei 50 centesimi' in ogni angolo della rete; vi è la volgarità e la brutalità del non riconoscere i successi della civiltà umana, la soddisfazione degli ignoranti e degli intrepidi e la stupida arroganza di credere di poter comprare qualsiasi cosa con il denaro. Questa sicurezza di sé certamente spaventa il mondo, la cui paura viene descritta dal Partito come ostilità e utilizzata per alimentare ulteriormente l'arroganza del popolo nei confronti degli altri paesi e l'astio verso la civiltà.

Questo rapporto della Xinhua trae sostegno da quanto riferito dai media d'oltremare, i quali sottolineano come (la Cina) dalla sesta posizione sia riuscita a raggiungere il podio, diventando la seconda economia mondiale, con un Pil più che triplicato. "Ma secondo Hu Jintao questo non è il successo maggiore ottenuto nei suoi dieci anni di mandato. Durante il discorso d'apertura dello Shibada, ha rimarcato come nel processo di sfide della decade l'aspetto più importante è stato l'aver plasmato e sviluppato la 'visione scientifica dello sviluppo." Questo è uno scherzo così ovvio, da indurmi a credere che all'interno del Pcc abbiano voluto fare dell'autoironia. Nel nome della 'società armoniosa' (和諧盛世) e dello 'sviluppo scientifico' (科學發展), infatti, l'ordine sociale è stato calpestato arbitrariamente e questo è, sicuramente, un altro aspetto rilevante del decennio passato.

Negli ultimi trent'anni, lo slogan del Partito che più ha conquistato il cuore del popolo -oltre al concetto di economia di mercato- è quello del 'governare il Paese attraverso la legge', un principio promosso alla metà degli anni '90 da Jiang Zemin. Così se da una parte la gente ha reagito in maniera cinica alla 'teoria delle tre rappresentanze', dall'altra ha approvato sinceramente 'il governo attraverso la legge'. Gli intellettuali, i giornalisti, i giuristi e gli avvocati dei diritti umani, si sono tenuti stretti queste quattro parole, tramutando lo scherzo in realtà, e mettendolo in pratica con grande dedizione. Tuttavia, in questi dieci anni, gli sforzi delle persone sono andati in malora e la legge è diventata la base teorica per le demolizione forzate, mentre gli ospedali psichiatrici sono diventati la nuova casa dei petizionisti. E questo semplicemente perché sempre più cittadini hanno cominciato a manifestare idee politiche differenti, venendo puniti come criminali. Negli ultimi anni, durante ogni tipo di discussione, è diventata ricorrente la parola 'democrazia liberale' (民主憲政), la quale, tuttavia, si è scontrata con la più alta istituzione del potere: 'il Parlamento'. Wu Bangguo, il presidente del Comitato permanente dell'Assemblea Nazionale del Popolo, ha reso noti 'i cinque no' (五不搞), etichettati da Hu Jintao stesso, durante l'ultimo Congresso, come una 'strada sbagliata'.

Voltandoci a guardare il passato, come dieci anni fa, ancora adesso continuano ad essere vive le aspettative della comunità internazionale sull'amministrazione Hu-Wen e le lodi del popolo cinese per una leadership considerata illuminata. Solo sei mesi fa qualcuno dichiarava che Hu e Wen, durante il loro mandato, potessero ancora ottenere un'ultima vittoria.

Ma io non posso tacere. Oggi molte persone hanno semplicemente cambiato i nomi di quelle stesse speranze e lodi, trasferendole direttamente sul nuovo governo Xi-Li. All'inizio Jiang Zemin fu riluttante ad abbandonare il potere e suscitò l'indignazione dei cinesi con quella sua volontà di ostacolare lo sviluppo del nuovo governo (Hu-Wen ndr). Molti ritengono che adesso le cose siano differenti. Ora le persone acclamano Hu Jintao per aver ceduto tutti i suoi incarichi. Ma chi può assicurare che, dal punto di vista della 'civilizzazione politica socialista' (文明政治), il trasferimento di un potere -ottenuto del tutto irregolarmente- dalle mani di uno alle mani di un altro sia poi alla fine tanto meglio?


主編的話】
傲慢的黑鐵
十年前輿論對「胡溫新政」的期待,歷歷在目。今天只將這些期待和讚美換了一些名詞,就直接套用到了「習李新政」上。

【封面故事】
不改革會從失敗走向失敗 文/丹頓
中共體制內沒有改革派,將希望寄託在新上任的領導人身上是不現實的。但是包括他們在內的所有人都應該了解,胡溫十年已經把中國帶進了十分危險的境地。

胡溫十年·政治·權貴禍國:權為黨所用讓政改休克 文/陳子明
意識形態趨向保守,強勢維穩、警察治國,胡溫執政十年間,中國政治不是停滯,而是倒退了。

胡溫十年·經濟·竭澤而漁:這場遊戲只讓權貴獲利 文/羅小鵬
胡錦濤的雙逆差政策對於創造財富的中國人民不公平,對於全球經濟秩序也是一種破壞,而中國的權貴資本,是遊戲的最大贏家。

胡溫十年·社會·道德淪陷:維穩維出假和諧 文/周克商
維穩是中共的必然邏輯。穩定壓倒一切,但往往是造成更大的不穩定。

胡溫十年·司法·黨大於法:要講政治不要講法治 文/王建勛
黨的事業至上,社會主義司法價值觀,加強黨對律師工作的領導……過去十年,中國司法正經歷着令人不安的變化。

胡溫十年·民族·矛盾激化:中共在邊疆緣何進退失據? 文/姚新勇
貧富差距加大,族群關係日益緊張,國家認同度進一步降低,族群矛盾進一步惡化。胡溫任內,中國民族問題滑入險境。

胡溫十年·台灣·金元促統:就這樣被你征服? 文/康依倫
胡溫十年橫跨台灣陳水扁和馬英九兩個年代。十年間,胡溫政府以恫嚇來反獨、以利誘來促統的戰略無疑是成功的。兩岸關係在馬英九上台後更是進入了前所未有的蜜月期。

胡溫十年·文化·回到延安:和諧時代創造「河蟹」文化 文/吳祚來
胡溫十年,有文化封鎖與突破禁錮;有國家把文化當作面向權貴的工程,也有最豐富的民間創作。這是最壞,也是最好的十年。


傲慢的黑鐵
22/11/2012 09:20:58 由 陽光時務 發佈
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人民日報、新華社將胡溫主政的10年定義為「黃金時代」,讓我們想到了「黑鐵時代」。

這種對人類世代的劃分法源自古希臘神話。黃金時代人神共處,和平歡樂。雖然土地會自己長出糧食,但是人們並不懶惰,也不貪婪,品德高尚,心地善良。黑鐵時代則黑暗腐朽,道德墮落,朋友失信,情侶反目,規則被毀,謊言橫行,人無廉恥,眾神棄之。如若按照這個標準,顯然,後者更適用於描述這10年來中國人的真實感受。

也許中共官媒並沒有這麼考究,只是揀「黃金」富足美好的字面意思。那麼我們也要說,「黑鐵」也是我們對胡溫10年的直觀感受。從身為國家元首的胡錦濤始終僵直的表情,到高層權力鬥爭的黑幕重重,再到暴力維穩的鐵錘政策、橫徵暴斂來的胡作非為,以及互聯網絡的高牆禁苑,無不讓人聯想到黑鐵般的冰冷與恐懼。

新華社在一篇謳歌「十八大」的報道中,引述外媒評論說,「黃金十年」成就大國自信,奇蹟仍將繼續」。

這十年間,中國人擁有了舉世矚目的「大國自信」,的確是最大的一個變化。改革開放初期的面對世界文明的謙卑一掃而光,極端的民族主義情緒一再躁動。這種「自信」的背後,是「六四」鎮壓之後高壓、收買政策下的「愛國主義教育」,是巨額投入之下的網路資訊封鎖和遍佈互聯網各個角落的「網絡閱評員」的「輿論引導」,是無視人類文明成果的粗鄙野蠻,無知無畏者的自鳴得意,以為用錢財可以買通一切的愚蠢自大。這種「自信」的確讓全世界感到恐懼,中共又把這種恐懼描述成敵意,用來進一步鼓動國民對世界的傲慢,對文明的仇視。

在這篇報道中,新華社借助外媒說,過去10年,中國從世界第六大經濟體躍升至第二大經濟體,國內生產總值(GDP)增長了3倍多。「但是在胡錦濤看來,這些還不是過去10年最偉大的成就。他在十八大開幕式上指出,總結10年奮鬥歷程,最重要的就是形成和貫徹了科學發展觀」。這個笑話如此明顯,我都懷疑是中共內部的自我反諷。以「和諧盛世」和「科學發展」的名義,對社會秩序的肆意踐踏,的確是這十年來的又一個顯著特徵。

這30多年來,執政黨最深得人心的治國口號,除了市場經濟之外,就是依法治國。這個口號在上世紀90年代中期由江澤民政權提出,人們一邊對「三個代表」冷嘲熱諷,一邊卻對「依法治國」衷心贊同,知識分子、媒體人、法律學者和維權律師都緊緊地抱住這四個字,假戲真做,全力實踐。然而,這十來年裏,民間的一切努力付諸東流,法律成為強拆民房的依據,精神病院成為上訪者的歸宿,僅僅因為持不同政見的言論而被治罪的人愈來愈多。早年間在各種討論會上成為熱詞的民主憲政,卻遭遇號稱「代表民意」的最高權力機關——全國人大常委會委員長吳邦國高調宣稱「五不搞」,胡錦濤在「十八大」報告中更是公然稱之為「邪路」。

回首往昔,10年前國際輿論對「胡溫新政」的期待,國內輿論對開明領導的讚美,仍歷歷在目。就在半年前,還有人宣稱胡溫會在任期「最後一搏」。

我不得不說,今天很多人只是將這些期待和讚美換了一些名詞,就直接套用到了「習李新政」上。當初江澤民留戀權力,人們憤怒他拖住了擋住「新政」的腳步,然而很快就有人議論「今不如昔」。如今人們為胡錦濤的「裸退」而歡呼,然而有誰能證明從文明政治來說都屬於非正當得來的權力到底交在誰手裏更好一些?






martedì 20 novembre 2012

Donne e potere: la maledizione cinese


Chi dice donna dice danno. Il vecchio adagio sembra avere una tradizione particolarmente consolidata oltre la Grande Muraglia. E nonostante i tentativi di Mao Zedong di riconoscere pari dignità all''altra metà del Cielo', la figura femminile continua a scontare il peso di stereotipi secolari. Così nella Cina del turbo-capitalismo le donne siedono al timone di società multimiliardarie, scalano la classifica di Forbes tallonando i super ricchi in pantaloni, ma faticano ad entrare nell'agone politico.

Il Diciottesimo Congresso del Partito comunista cinese, che tra l'8 e il 14 novembre ha delineato il nuovo assetto del potere, si è concluso con un'altra sconfitta al femminile. Liu Yandong, unica donna tra i 25 del Politburo e data tra i papabili sette del Comitato permanete del Politburo, il gotha cinese, non ce l'ha fatta. In odore di nomina a vicepremier, tuttavia, Liu è adesso affiancata da Sun Chunlan - recentemente promossa segretario del Partito di Tianjin- seconda donna a sedere nell'Ufficio politico del Pcc, mai così 'ricco' di quote rosa dai tempi della Rivoluzione culturale.
Il Sancta Sanctorum del potere continua a rimanere off limits per le donne dal 1949, tanto che nemmeno Wu Yi, membro del Politburo, vicepremier negli anni '80 e madrina dell'ingresso del Dragone nella Wto, riuscì mai ad accedervi. Neanche facendo leva sulla sua vicinanza all'ex Premier Zhu Rongji.

Secondo un articolo pubblicato da Bloomberg il 20 novembre, la presenza femminile nel Pcc è calata rispetto a quando, quattro decenni fa, Mao e l'allora presidente americano Nixon si strinsero la mano. Dal 2005, anno in cui Wu Yi lasciò il ministero della Salute, i dicasteri sono tutti presieduti da uomini. In sessant'anni di comunismo soltanto sei donne sono riuscite a diventare governatrici o capi del Partito a livello provinciale. Nel Comitato Centrale (CC) uscente appena 13 dei 205 membri appartenevano al gentil sesso (nel nuovo CC le quote rosa sono del 4,9%, in calo rispetto al 7,6% del 1969, anno in cui entrò in carica Nixon), mentre tra i 2268 delegati del Congresso solo 521 erano donne. Anchorwoman, calligrafe, cantanti, ma anche soldatesse e operaie; a giudicare da quanto apparso sul sito del Quotidiano del Popolo le delegate -molte delle quali appartenenti a minoranze etniche- hanno contribuito al consesso 'rosso' più che altro per il loro aspetto. Foto in abiti esotici hanno fatto la loro comparsa sul principale quotidiano di Partito in una slideshow dal titolo eloquente: "Beautiful Scenery from the 18th Party Congress". Ma non solo. La stampa ufficiale ha anche eletto la 'mamma-delegato' e la 'maestra-delegato' più belle ('dentro'), titoli che sono andati a Wu Juping, balzata agli onori della cronaca per essere riuscita ad afferrare una bambina di 2 anni precipitato da un edificio, e Zhang Lili, divenuta un'eroina dopo aver perso le gambe in un incidente stradale, mentre cercava di salvare alcuni bambini.

Ma, messe da parte le note di colore, ora che il "grande Diciottesimo" si è concluso tutti gli occhi sono puntati su di lei: Peng Liyuan, la consorte del neo Segretario generale del Partito Xi Jinping, che a marzo succederà a Hu Jintao come Presidente della Repubblica popolare. Dotato di una scioltezza da far invidia al suo ingessato predecessore, Xi si è già conquistato i cuori del cittadini con un discorso disinvolto che ha affascinato il pubblico tv e la rete. E se adesso il nuovo "imperatore" è in cerca di popolarità, sicuramente ha un'arma in più a disposizione: la sua coloratissima moglie.

49 anni, Peng è una delle principali star del Regno di Mezzo. Ex cantante folk dell'Esercito popolare di liberazione -di cui è anche General Maggiore- ha partecipato regolarmente al variety trasmesso dalla CCTV in occasione del Capodanno cinese, New Year Gala, uno dei programmi più visti in Cina da oltre venti anni. Tanto nota da rischiare di oscurare il marito che, durante la sua ultima visita negli Usa da vicepresidente, preferì lasciarla a casa. Ma adesso la stella dello Shandong, per i nati negli anni '80-'90 l'eterna ragazza sexy della porta accanto, dovrà cambiare look e indossare i panni della firts lady. La domanda è: lo farà davvero? La storia recente suggerirebbe di no.

Dopo la controversa moglie di Mao, tutte le consorti dei leader cinesi hanno mantenuto un profilo basso, così che, in Cina, molti non ne conoscono nemmeno il nome. Non hanno rivestito alcun ruolo nella politica interna, e sono apparse raramente al fianco dei mariti nei loro viaggi all'estero, impegnandosi di rado in attività filantropiche e culturali, come sono, invece, solite fare le first lady durante le visite di stato. Colpa del sistema politico, dicono gli esperti. Non siamo in America, non ci sono presidenziali all'ultimo sangue o campagne elettorali estenuanti. I dirigenti cinesi non vengono eletti dal voto popolare e pertanto risulta superfluo tutto quel corollario di sorrisi smaglianti e famiglie felici di cui si servono i politici sull'altra sponda del Pacifico per accattivarsi l'opinione pubblica. Nell'ex Impero Celeste le mogli dei "timonieri" vivono, per lo più, all'ombra dei mariti.

Ma, in realtà, a pesare è sopratutto il retaggio di una tradizione che nel binomio donne-potere scorge, ancora, un'alchimia diabolica e nefasta. Convinzione, questa, rafforzata dal recente caso Bo Xilai, ex nastro nascente della politica cinese caduto in disgrazia a causa del coinvolgimento della moglie Gu Kailai nell'omicidio di un uomo d'affari britannico.

"E' un'idea che risale all'epoca dell'Imperatrice Vedova (che regnò per gli ultimi 47 anni della dinastia Qing): la gente pensa che se viene dato potere ad una donna ci saranno certamente dei problemi" spiega a The National Zhang Lijia, scrittrice e commentatrice sociale di Pechino "ci sono ancora persone che credono che Jiang Qing, la moglie di Mao, sia l'unica responsabile della Rivoluzione culturale." Ma a differenza delle consorti 'storiche', Peng non deve la propria popolarità al marito, un semi-sconosciuto quando nel 2008 il mondo capì chi sarebbe diventato. Così che adesso alla domanda "Chi è Xi Jinping?" spesso si risponde ancora con ironia "Oh certo, è il marito di Peng Liyuan".

Eppure, rispetto al passato, la star del folk ha ridotto drasticamente le sue apparizioni pubbliche; niente più esibizioni per il Nuovo Anno e quando, ancora, lo fa si presenta in divisa piuttosto che in vistosi abiti da ballo. I censori hanno pensato al resto, eliminando dal web le sue prime interviste e bloccandone il nome; un destino comune a tutte le "first lady" cinesi. Peng -che è anche politicamente attiva come membro dell'XI Comitato nazionale della Conferenza politica consultiva del popolo cinese- negli ultimi anni si è impegnata in progetti filantropici e campagne sanitarie governative. Nel 2011 è stata nominata ambasciatrice di buona volontà su Hiv e tubercolosi per l'Organizzazione mondiale della sanità e, all'inizio di quest'anno, ha affiancato il cofondatore di Microsoft, Bill Gates, in una battaglia anti-fumo su scala globale. Incarichi quanto mai impegnativi considerata la sensibilità politica che li circonda da quando, negli anni '90, il Premier entrante Li Keqiang -al tempo governatore dello Henan- gestì goffamente lo scandalo del sangue infetto esploso sotto il suo predecessore. Un'epidemia di Aids che costò la vita a milioni di persone nella sola provincia. "Per stare sicura, solitamente (Peng) descrive il suo coinvolgimento nell'Hiv come un obbligo di madre, figura pubblica e ruolo modello" ha commentato Johanna Hood, assegnista di ricerca presso l'Australian National University, che ha studiato il lavoro portato avanti da Peng nella sanità pubblica.

D'altra parte, non è nemmeno da escludere che Xi e il Partito le permetteranno di portare avanti le sue attività filantropiche e persino di costruirsi un ruolo da 'first lady', ipotizza The National. Avere al fianco una moglie che parla fluentemente inglese consentirà al nuovo leader di ritagliarsi un'immagine più moderna, al passo con le ambizioni di una Cina che studia da superpotenza. Non solo economica, ma anche 'culturale'. E allora -scherza Jean-Pierre Cabestan, professore di scienze politiche alla Hong Kong Baptist University- "Peng potrebbe essere d'aiuto a Xi con il suo profilo internazionale. Ovviamente lui non ha intenzione di convincerla a fare il giro del mondo cantando, ma sicuramente brillerebbe durante le cene alla Casa Bianca".

(Scritto per Uno sguardo al femminile)

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Hukou e controllo sociale

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