(Domenica 26: Xu Zhiyong è stato condannato a 4 anni di carcere per il suo ruolo nell'organizzazione delle proteste anti-corruzione. Il legale Zhang Qingfang fa sapere che potrebbe ricorre in appello. Il verdetto è stato definito da Amnesty international "vergognoso")
Mentre a Pechino si teneva il processo a carico del leader del Movimento nuovi cittadini, nel resto del mondo cominciava a diffondersi l'ennesima inchiesta sulle ricchezze occulte degli inquilini di Zhongnanhai, il Cremlino cinese. 37mila cittadini di Cina, Taiwan e Hong Kong -tra i quali parenti stretti di pezzi grossi quali il presidente Xi Jinping, l'ex premier Wen Jiabao e il padre delle riforme Deng Xiaoping- avrebbero depositato i propri beni nei paradisi fiscali delle Isole Vergini britanniche, Samoa e altri atolli tropicali. Secondo alcune stime riportate dall'International Consortium of Investigative Journalism autore del China Leaks, dal 2000 a oggi, tra mille e 4 mila miliardi di dollari hanno lasciato il Paese facendo perdere le tracce.
Nulla di nuovo o illegale, a dire il vero. Molto era già stato portato allo scoperto dagli ottimi pezzi investigativi di Bloomberg e New York Times sulle famiglie di Xi Jinping, allora ancora vicepresidente, e dell'ex premier Wen Jiabao. Per quanto le inchieste facciano luce sul vincolo perverso che lega il mondo della politica "rossa" a quello del business, nessuna è finora riuscita a provare un'implicazione diretta dei leder cinesi negli affari di famiglia, che anzi, stando ad alcune fonti, avrebbero severamente condannato prendendo le distanze. Proprio pochi giorni prima delle ultime rivelazioni, Wen aveva respinto le accuse di corruzione e abuso di potere dichiarandosi "pulito" in una lettera inviata a un noto editorialista del Ming Pao di Hong Kong.
Per quanto riguarda i conti offshore, la stessa Xinhua nel 2005 aveva riconosciuto che, delle 80mila società registrate alle Virgin Islands, 20mila erano cinesi. E già nel 2012, prima ancora di pubblicare le indagini su Xi, Bloomberg aveva scoperchiato i torbidi affari della famiglia dell'ex segretario di Chongqing, Bo Xilai, nel settore delle energie alternative a Hong Kong. Proprio mentre la grancassa della propaganda accompagnava la sua clamorosa caduta dall'Olimpo dipingendolo come un corrottissimo. Non certo l'unico però.
La portata epidemica del fenomeno della corruzione in Cina è stata riconosciuta apertamente da Xi Jinping appena assunto l'incarico di Segretario generale del Partito, all'indomani del Diciottesimo Congresso. Da allora il nuovo numero uno ha dichiarato guerra a "mosche" e "tigri" (ovvero, quadri e alti funzionari) mietendo diverse vittime tra i colossi statali del petrolio e delle telecomunicazioni. La campagna di pulizia prevede la partecipazione dei cittadini, che attraverso il sito web ufficiale della Commissione Centrale per la Disciplina e il Controllo, sono invitati a suggerire i casi sospetti.
Pare che, soltanto nel 2013, siano stati recapitate 1,95 milioni segnalazioni da parte di whistleblower su presunti episodi di corruzione.
Eppure non sempre le soffiate sul web sono state accolte con favore da parte di Pechino, che in molte situazioni si presenta come un Giano bifronte agli occhi del popolo, alternando segni di apertura alla repressione più serrata. Così se per una soffiata dell'editorialista di Caijin, Liu Chanping, una tigre è finita in gabbia (Liu Tienan, ex-vice direttore della Commissione nazionale per le Riforme e lo Sviluppo) allo stesso tempo il giornalista Liu Hu è finito in manette con l'accusa di "creare e diffondere dicerie" sul suo microblog per aver invitato le autorità ad indagare sull'operato di Ma Zhengqi, vicedirettore dell'Amministrazione Statale per l'Industria e per il Commercio. Due casi che esemplificano al meglio la schizofrenia di cui soffre il regime cinese.
E qui si ritorna al Movimento nuovi cittadini e al processo del suo padre fondatore Xu Zhiyong, attivista anti-corruzione ben noto a Pechino. Una precisazione: Xu non è una testa calda. Anzi, "è stato ed è tutt'ora accusato dagli altri attivisti di essere eccessivamente moderato" racconta Nicholas Bequelin di Human Right Watch. Già finito agli arresti nel 2009 per sospetta evasione, poi rilasciato dopo un mese sotto le pressioni della comunità internazionale, mercoledì ha dovuto rispondere dell'accusa di "assembramento in luogo pubblico finalizzato al disturbo dell'ordine". Lo scorso anno la sua organizzazione aveva pubblicato un documento in cui venivano chieste uguaglianza nell'accesso all'educazione e alla sanità per tutti i cittadini, nonché una maggiore trasparenza da parte del governo, sopratutto proprio per quanto riguarda la pubblicazione dei patrimoni dei funzionari. Questioni sulle quali a Zhongnanhai si parla da tempo e che apparentemente sembrano essere in linea con la lotta alla corruzione di Xi Jinping e alcune delle riforme introdotte durante il Terzo Plenum. Sembrano, appunto.
Nel 2003 la Cina ha firmato (e ratificato nel 2006) la Convenzione delle Nazioni Unite contro la Corruzione (UNCAC), la quale all'articolo 52.5 stabilisce che i suoi aderenti "devono considerare la creazione" di sistemi informativi sulle finanze dei funzionari e di sanzioni appropriate in caso di inosservanza. Lo scorso maggio in un distretto di Chongqing 128 funzionari freschi di nomina hanno dichiarato il valore di tutti i loro assets (macchine, appartamenti e depositi bancari) in un progetto pilota volto ad incrementare la credibilità dei politici cinesi. I numeri sono stati stampati e appesi fuori dal posto di lavoro. Ma il China Daily ricorda anche che nel 2009 una simile iniziativa era stata adottata nella città di Altay, provincia dello Xinjiang, e archiviata quasi immediatamente dopo la sollevazione del 70% dei funzionari locali (solo il 10% si era dichiarato d'accordo). A dimostrare come nei ranghi del Partito vi sia ancora una forte resistenza da parte dei gruppi d'interesse.
Quello di Xu Zhiyong è stato definito il processo più importante a carico di un attivista cinese dai tempi di Liu Xiaobo, il premio Nobel per la pace in carcere dal 2009 per aver promosso un manifesto (la Charta 08) che sosteneva la necessità di riforme democratiche nel sistema politico, così come nella difesa dei diritti umani. In tutto pare siano almeno 20 i dissidenti presi in custodia nell'ambito della campagna per la pubblicazione delle ricchezze dei leader, anche se non tutti fanno parte del New Citizens' Movement.
Mercoledì la tensione palpabile fuori dall'aula del tribunale ha colto di sorpresa anche i giornalisti più esperti, brutalmente allontanati dalle forze dell'ordine. Già la settimana scorsa l'avvocato di Xu aveva pronosticato un processo opaco e in disaccordo con i regolamenti della Repubblica Popolare. Zhao Changqing e Hou Xin, gli altri due attivisti del Movimento messi alla sbarra in settimana con la stessa accusa, sono stati processati indipendentemente in violazione della legge che prevederebbe che gli imputati nell'ambito di un unico caso vengano ascoltati dallo stesso giudice. Inoltre le autorità hanno impedito ai testimoni e ai coimputati di intervenire, una procedura giuridica sulla quale di recente si era espressa positivamente anche la Corte Suprema del Popolo, mentre ad alcuni diplomatici dell'Unione europea è stato permesso di entrare nel tribunale ma non di presenziare all'udienza.
Si tratta di irregolarità che stridono ancora una volta con i buoni propositi di Xi Jinping, il quale nel corso dello scorso anno ha più volte sottolineato l'esigenza di rendere la giustizia "imparziale". Ragione per la quale Xu ha deciso di protestare mantenendo il silenzio, fatta eccezione per gli ultimi dieci minuti del processo in cui ha cercato di spiegare i principi su quali si basa il New Citizens' Movement. Un discorso che sarebbe dovuto durare 50 minuti, ma che è stato interrotto dalle autorità dopo i primi 10. La sentenza verrà resa nota domani, come preannunciato al suo legale ancora prima dell'inizio dell'udienza. Nella peggiore delle ipotesi, Xu potrebbe scontare 5 anni di prigione.
Intanto nella giornata di venerdì a Guangzhou, nel sud del Paese, un altro dissidente è stato processato per "sovversione dell'ordine pubblico". Liu Yuandong fondatore del movimento Southern Street, si era battuto per l'abolizione del sistema a partito unico che vede il Pcc detenere il monopolio politico. La sua organizzazione aveva manifestato al fianco dei giornalisti del Southern Weekly durante lo sciopero messo in atto all'inizio dello scorso anno in risposta alla censura di un editoriale a favore del costituzionalismo.
Il giro di vite ai danni di questi piccoli gruppi nati in seno alla società civile cinese per la tutela dei diritti (weiquan) e l'interesse pubblico (gongyi) mostrano l'atteggiamento intransigente di Pechino verso la formazione di movimenti organizzati, avvertiti come una minaccia per lo status quo. Insomma, come insegnava Deng Xiaoping: "Occorre strappare l'erba cattiva quando è ancora in germoglio".
(Per qualche osservazione in più: Xu Zhiyong un estremista democratico)
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