Spesso si dice che avvicinarsi alla politica cinese sia come leggere le foglie del tè. Una delicata decodificazione delle alchimie distillate nei palazzi del potere in piazza Tian'anmen. Da quando Xi Jinping ha assunto la direzione del Partito comunista nell'autunno 2012 per poi ricoprire il ruolo di Presidente nel marzo 2013, di lui si è detto tutto e il contrario di tutto. Fervente seguace di Mao, sì, ma anche coraggioso depositario dell'eredità riformista di Deng Xiaoping. Risoluto innovatore in economia, ma conservatore ortodosso in politica. Nazionalista sfegatato, eppure convincente affabulatore ai tavoli internazionali che vedono la Cina ormai sedere da grande potenza. Per stare dietro alla caleidoscopica società cinese si rischia spesso di rincorrere semplificazioni giornalistiche, aggrappandosi a facili stereotipi. Quello che ne esce fuori è una rappresentazione del Dragone fuorviante, quando non del tutto distorta.
Il Regno di Mezzo è uscito dall'ultimo trentennio di 'arricchimento glorioso' lacerato da diseguaglianze sociali tanto profonde che nemmeno il pacchetto di riforme varato dalla leadership in autunno sarà in grado di guarire in tempi brevi; su tutte prevale una distribuzione ineguale delle ricchezze a fronte della corruzione rampante che intacca ogni gradino della gerarchia comunista. Per questo Xi starebbe cercando di curare le piaghe del Paese con una ricetta che attinge a piene mani alla tradizione millenaria cinese. Il processo era già cominciato sotto il suo predecessore Hu Jintao: si tratta di un 'frullato ideologico' a base di maosimo, denghismo e confucianesimo, che non risparmia nemmeno i culti religiosi autoctoni se questi possono servire a fare da collante ideologico, ora che la passione per il Partito -almeno tra le nuove generazioni- si è estinta. Occorre «avanzare assorbendo la cultura occidentale, proseguire dando il massimo rilievo alla cultura cinese», come scrive il noto filosofo Chen Lai
Capita, così, che qualcuno intraveda nel mixer anche un po' di Chiang Kai-shek, nemico giurato del Grande Timoniere durante la guerra civile conclusasi con la vittoria comunista e la fuga del 'generalissimo' a Taiwan, eppure grande patriota e osservatore dei dettami confuciani. Una teoria ardita, giacché rivalutare Chiang vorrebbe dire allungare una mano a Taipei, ma riaprire ferite storiche mai completamente cicatrizzate. Maurizio Scarpari, docente di lingua cinese classica presso l'Università Ca' Foscari dal 1977 al 2011 e autore di diverse pubblicazioni sul pensiero filosofico antico, ci aiuta a fare ordine nel caos ideologico in cui verte la Nuovissima Cina. Perché bisogna ricordare che prima di Mao c'è stato Confucio. «Un cinese, sia esso buddhista, daoista, musulmano, cristiano o persino ateo, difficilmente sarà in grado di svincolarsi dalle proprie radici confuciane». E questo Xi Jinping lo sa bene. (Segue su L'Indro)
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