Inevitabilmente, tutti gli occhi sono puntati verso la Cina, principale emettitore di gas serra al mondo e additato come vero responsabile del fallimento del summit di Copenaghen 2009, conclusosi senza il raggiungimento di un'intesa vincolante. Quell'anno Pechino rifiutò di includere nell'accordo finale un target massimo per le emissioni, avvalendosi di quanto stabilito nella Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, ovvero che tutti i Paesi hanno "comuni ma differenti responsabilità" a seconda del proprio livello di sviluppo: chi ha raggiunto un grado di industrializzazione superiore (e pertanto inquina da più tempo) è tenuto a rispondere di maggiori obblighi rispetto a chi è ancora in fase di crescita. Addirittura, un rapporto Onu rilasciato nel gennaio 2014, parla di "outsourcing delle emissioni" dalle economie mature attraverso dispositivi elettronici e manifatturiero tessile prodotti nelle Nazioni in via di sviluppo ma consumati negli Stati Uniti e in Europa.
Protetta dal protocollo di Kyoto, che impone target vincolanti solo alle nazioni industrializzate, la Cina, che si considera ancora un "Paese emergente", ha continuato a sostenere la propria espansione economica (trainata da export e investimenti) con licenza di inquinare, in barba agli appelli internazionali. Una posizione, questa, ribadita nel 2011 durante il vertice di Durban da Xie Zhenhua, rappresentate speciale per il Clima (Letteralmente: "Chi può dirci cosa dobbiamo fare?"), ma che ha subito un progressivo ammorbidimento nel corso del tempo.
Se, infatti, il principio della "responsabilità graduale" continua a caratterizzare la posizione cinese ai tavoli internazionali, si sta tuttavia facendo strada una tendenza verso il compromesso, primo sintomo di una nuova strategia estera più assertiva, sì, ma anche più responsabile. Quella uscita dal rimpasto politico del 2013 è una Cina più propensa a riconoscere il suo ruolo di potenza globale e i doveri ad esso declinati. Una prima svolta storica la si è avuta in occasione dell'Apec 2014 (Asia Pacific Economic Cooperation), quando il Presidente cinese Xi Jinping e Barack Obama si sono impegnati a combattere il riscaldamento globale annunciando un'ambiziosa roadmap: per parte sua, Pechino ha promesso 1) di raggiungere un picco massimo delle emissioni entro il 2030 - per poi andare progressivamente a scendere - ed entro questa stessa data di tagliare le emissioni inquinanti per unità di Pil del 60-65 per cento; 2) di ridurre l'utilizzo di combustibili fossili. Al momento la Cina produce due terzi dell'energia che consuma grazie al carbone, che è responsabile per l'80 per cento delle emissioni di CO2.
Più recente, invece, lo stanziamento di 3,1 miliardi di dollari da destinare ai Paesi maggiormente arretrati, per cui, come dicevamo, il Dragone ha un particolare occhio di riguardo. Anche in questo caso si tratta di un'iniziativa annunciata durante una bilaterale tra i leader delle due superpotenze e che sembra rispondere per le rime all'International Green Climate Fund istituito da Obama lo scorso anno con un budget, guarda caso, proprio di 3 miliardi di dollari.
Se sul versante esterno, la rivoluzione verde di Pechino ci suggerisce innanzitutto che -nonostante la querelle sulla cybersicurezza e le provocazione incrociate nel Mar Cinese- almeno nella lotta ai cambiamenti climatici, Cina e Stati Uniti sono finalmente allineati (Washington non ha mai digerito le resistenze cinesi a Copenaghen), è all'interno della Muraglia che bisogna ricercare le vere motivazioni del cambiamento. Secondo stime ufficiali, ogni anno 350-500 mila persone muoiono prematuramente a causa della cappa di smog che attanaglia le metropoli cinesi; un problema che colpisce trasversalmente tutti i ceti sociali senza distinzione e che sta diventando uno dei principali fattori di malcontento popolare. La pancia del Paese di Mezzo non è più disposta a pagare il prezzo del miracolo economico dell'ultimo trentennio. Sopratutto ora che gli effetti inebrianti dell'iperbolica ascesa cinese stanno svanendo sulla scia del rallentamento economico ribattezzato dalla leadership "new normal". Dove per "nuovo normale" s'intende una crescita economica "medio-alta", attorno al 7 per cento, high-end e meno dipendente dall'industria pesante. In questo contesto l'affrancamento dal carbone risulta, quindi, funzionale ad una ristrutturazione sistemica che avrà come protagonisti le rinnovabili e il nucleare. Secondo la National Coal Association, nei primi dieci mesi dell'anno il consumo cinese del combustibile è sceso del 4,7 per cento su base annua, contro il -2,9 per cento del 2014. Al contempo, con 89 miliardi sborsati, lo scorso anno Pechino ha trainato gli investimenti nel settore dell'energia pulita, rivela il rapporto Climatescope 2015, che ha preso in esame 55 delle principali Nazioni in via di sviluppo.
Problema inquinamento risolto? Non esattamente. Tra il dire e il fare ci sono di mezzo 155 nuovi impianti a carbone (per una spesa di circa 7,3 miliardi di dollari), approvati quest'anno dopo che il governo centrale ha delegato alle autorità locali il potere di avvallare questo tipo di progetti. In teoria, lo scorso gennaio sono stati fissati obiettivi di riduzione del livello di particelle PM 2,5 per ognuna delle 31 province cinesi. Ma il diavolo si nasconde nei dettagli, dicono gli inglesi. E, infatti, l'ostacolo più insidioso sta proprio nel pericolo di un cortocircuito tra gli interessi del centro (limitare i fattori inquinanti e promuovere un nuovo paradigma di crescita) e quelli della periferia (spremere fino all'ultima goccia un settore in cui la corruzione è storicamente radicata).
(GUARDA L'INFOGRAFICA DI CHINESE DOODLES)