domenica 13 maggio 2012
Pechino vs Manila: quella complicata storia del Mar cinese meridionale
Se fino a venerdì Pechino sembrava essere sul piede di battaglia pronto a fare fuoco contro Manila, nella mattina di sabato il tabloid in lingua inglese Global Times ha invitato alla calma smentendo le voci di una corsa agli armamenti, pur tuttavia, senza rinunciare alle abituali velleità nazionaliste.
"Le voci secondo le quali la Regione Militare di Guangzhou, la Flotta del Mare del Sud ed altre unità si starebbero preparando alla guerra sono false" si leggeva venerdì in un breve comunicato apparso sul sito web del ministero della Difesa e ripreso ieri dal quotidiano megafono del Partito. Soltanto fino a pochi giorni fa i toni utilizzati dal Dragone erano stati ben altri. I pezzi da novanta della diplomazia cinese non avevano utilizzato mezzi termini dichiarando che, una volta esauriti i metodi pacifici, la Cina sarebbe stata "pronta a tutte le possibilità" per risolvere la situazione con il vicino di casa indisciplinato. Poi, a rincarare la dose ci aveva pensato il PLA Daily, la gazzetta dell'esercito, con un pezzo dal titolo pungente:"La Cina non rinuncerà neanche a un centimetro del proprio territorio".
Dall'8 aprile scorso i due Paesi vertono in una fase di stallo da quando la Marina di Manila aveva pizzicato otto pescherecci cinesi a largo del Banco di Scarborough (per i cinesi Huangyan), nel Mar cinese meridionale -o Mar filippino occidentale che dir si voglia- a 124 miglia dall'isola filippina di Luzon, zona sulla quale entrambi i governi rivendicano la loro sovranità. Da quel momento un continuo via vai di navi da guerra e non ha innescato un braccio di ferro che ha portato la tensione alle stelle. E se Manila vuole affermare i propri diritti sulle isole appellandosi alle "leggi internazionali" (la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare estende la giurisdizione nazionale degli Stati marittimi sino a 200 miglia nautiche dalle proprie coste), Pechino chiama a testimone la storia, sventolando una mappa del 1279 ancora utilizzata dai pescatori cinesi e taiwanesi che ne confermerebbe la sovranità sull'area.
Ma non solo. Il confronto tra i governi rivali ha finito per infervorare gli animi dei due popoli: manifestazioni di protesta davanti alla sede diplomatica cinese di Manila, timide risposte avversarie davanti all'ambasciata filippina a Pechino (si parla di una decina di persone), bandiere al rogo, attacchi hacker a siti sensibili, anchorwomen della CCTV preda di un lapsus fruediano afferma che: "è evidente, le Filippine sono parte naturale della Cina". In tutto ciò a rincarare la dose ci hanno pensato i media e l'apparato di sicurezza cinese rilasciando dichiarazioni puntute e belligeranti, difficili da dimenticare nonostante la retorica imbastita ieri dal Global Times.
A fare gola ai due Paesi asiatici non sono tanto i fondali pescosi dell'agognato specchio d'acqua quanto le immense risorse energetiche in essi nascoste che, secondo alcune stime, ammonterebbero a 30 miliardi di tonnellate di greggio -equivalente a 213 miliardi di barili di petrolio e a circa l'80% delle risorse dell'Arabia Saudita- e a 16 mila miliardi di metri cubi di gas, quantità cinque volte superiore a quella accertata negli Stati Uniti.
Il 9 maggio scorso la piattaforma di trivellazione in acque profonde CNOOC 981 di proprietà della CNOOC Ltd.(China National Offshore Oil Company Ltd), principale società petrolifera del Regno di Mezzo, ha cominciato ad operare a 320 chilometri a sud-est di Hong Kong, ad una profondità di 1500 metri, come riportato dall'agenzia di stampa Xinhua. L'inizio delle trivellazioni della CNOOC rende il Dragone il primo Paese ad effettuare ricerche di gas e petrolio in acque profonde nel Mar cinese meridionale e, oltre ad assicurare al gigante asiatico risorse in grado di soddisfare la sua fame energetica, gli "garantirà diritto di sovranità sull'area", ha dichiarato senza troppi giri di parole Wang Yilin, presidente della compagnia.
Ormai sono mesi che dal Mar cinese meridionale soffia vento di tempesta e non solo per via delle schermaglie tra Pechino e Manila. La Repubblica popolare rivendica la sovranità su un'area che si aggira intorno agli 1,7 milioni di chilometri quadrati; una posizione, questa, che è causa di costanti attriti con buona parte degli Stati rivieraschi che la circondano. Contese territoriali per le isole Paracel e Spratly -altra succulenta preda per l'economia energivora del Dragone- la scorsa estate hanno pericolosamente innalzato la temperatura tra Pechino e Hanoi, chiamando in causa anche Brunei, Taiwan, Malesia e Filippine a loro volta determinati ad affermare le proprie posizioni nell'area, mentre le turbolenti relazioni Cina-Giappone rischiano periodicamente il collasso a causa delle dispute sulle Senkaku/Diaoyu, altro gruppo di scogli bagnato dal Mar cinese orientale, per l'acquisto dei quali, secondo quanto reso noto ad aprile dal sindaco di Tokyo, Sintaro Ishiara, il governo nipponico sarebbe già in trattative con alcuni privati.
In questa partita giocata sullo scacchiere Asia-Pacifico si inseriscono come interlocutori esterni (ma neanche troppo) India, Russia e Stati Uniti. Recenti esercitazioni congiunte tra Washington e Manila hanno suscitato l'irritazione di Pechino, memore delle dichiarazioni del Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, che solo alcuni mesi fa aveva proiettato il XXI secolo americano proprio nel Pacifico.
Un trattato del 1951 sottoscritto da Usa e Filippine garantisce la reciproca assistenza in caso di aggressione. I rapporti tra Washington e la sua ex colonia, dopo gli anni idilliaci della Guerra Fredda, hanno subito un progressivo allentamento a causa della chiusura delle basi navali e aeree Usa di Subic Bay e Clark, voluta dalle forze politiche nazionaliste nel 1992. Ma oggi l'Aquila vuole recuperare quel decennio di guerre speso tra Iraq e Afghanistan ampliando la propria influenza nel Sud Est asiatico. E lo farà anche grazie all'alleato filippino, ma con prudenza. Le leggi di Manila vietano la presenza di basi straniere entro i confini dell'arcipelago.
D'altra parte il piccolo stato asiatico è ben lungi dal volersi inimicare il governo cinese con il quale, entro il 2016, si stima raggiungerà scambi commerciali per 60 miliardi di dollari, mentre gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno già un bel da fare nel tentativo di ricomporre gli strappi che qua e là sospendo i rapporti bilaterali col Dragone sul filo del rasoio. E sebbene entro l'anno in corso Manila riceverà 30 milioni di dollari di sussidi militari a stelle e strisce -il doppio di quanto stanziato in prima battuta- il budget risulta essere comunque di poco superiore a quello stabilito nel 2010 e appena sufficiente a rinverdire la vetusta flotta filippina. Ma nuovi dettagli sulla cooperazione Usa-Filippine potrebbero emergere dalla prossima trasferta statunitense del presidente Benigno Aquino in agenda per la prossima estate.
Intanto, in seguito alle critiche mosse dall'International Crisis Group sulle modalità con le quali Pechino sta gestendo la questione del Mar cinese meridionale creando elementi d'instabilità a causa di una "mancanza di coordinamento tra le agenzie governative", sta prendendo sempre più piede una posizione che vorrebbe la partecipazione cinese alla stesura di un codice di condotta; un documento giuridicamente vincolante volto ad evitare che i battibecchi nelle acque contese possano propagarsi causando una tempesta di più vaste proporzioni.
Nel 1992, un anno dopo l'ingresso della Cina tra i dialogue partner dell'ASEAN (Association of South-East Asian Nations ), l'Associazione ha rilasciato una dichiarazione circa la situazione del Mar cinese meridionale, nella quale tutte le parti interessate sono state invitate a dare prova di moderazione con lo scopo di "creare un clima positivo per la risoluzione finale di tutte le controversie". Passati dieci anni, nel 2002, Pechino ha firmato le Dichiarazione sulla condotta delle parti nel Mar cinese meridionale (DOC), ma i lavori per la redazione di un "Codice di condotta regionale" sono ancora in corso.
Ad indebolire la posizione dell'ASEAN, l'oggettiva differenza di interessi economici che legano i Paesi membri più o meno strettamente alla controparte cinese, ma sopratutto l'ostinazione del Dragone nel voler continuare ad affrontare le dispute su base bilaterale, rifuggendo la regionalizzazione delle controversie. Una situazione, questa, che va a minare le "capacità persuasive" di un fronte unito composto da tutte e dieci le nazioni partecipanti. Ricevuto l'endorsement di Washington nel 2010, nell'ultimo anno la questione di un "codice di condotta" ha tenuto banco durante i colloqui tra gli alti funzionari dell'ASEAN senza tuttavia giungere ad una soluzione risolutiva.
Così mentre le acque del Mar cinese meridionale continuano ad incresparsi, oltre un terzo del commercio mondiale, di cui la metà composto da gas e petrolio, rimane in balia degli umori dei governi della regione; e quello di Pechino, ultimamente, non è per nulla buono.
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