martedì 30 ottobre 2012
Cina: "I verdi" alzano la voce
Una nuova vittoria "verde" per i cittadini cinesi. Con un comunicato apparso nel pomeriggio di domenica 28 ottobre sul suo account Weibo, il governo municipale di Ningbo, provincia del Zhejiang, ha detto stop ai lavori per l'ampliamento di un impianto petrolchimico, per il quale il colosso Sinopec aveva stanziato l'equivalente di 8,9 miliardi di dollari.
Da giorni la popolazione locale era impegnata in una strenua resistenza al progetto, ritenuto pericoloso per la salute dei residenti. Alla fine dei lavori la capacità di raffinazione del petrolio avrebbe dovuto raggiungere le 15 milioni di tonnellate, mentre quella di etilene 1,2 milioni di tonnellate l'anno. Ma nonostante le autorità avessero promesso misure di revisione a livello ambientale, il timore per le emissioni di paraxilene (Px) -sostanza utilizzata per la produzione di vernici e plastica con effetti dannosi sul sistema nervoso centrale, fegato e reni- ha spinto la gente di Ningbo a non demordere. Dopo una petizione inoltrata da 200 firmatari al governo della città, le proteste sono sfociate, venerdì 26, in scontri violenti con le forze dell'ordine, le quali hanno risposto utilizzando contro la folla gas lacrimogeni e idranti. Il copione è quello ormai tristemente noto: come in occasione di manifestazioni analoghe, i rimostranti hanno lamentato pestaggi da parte della polizia, diffondendo persino la notizia dell'uccisione di uno studente universitario, subito smentita dalle autorità.
Fisiologica la diffusione di rumors quando media e social network vengono sottoposti al bavaglio del governo. Molte immagini e video pubblicati su Sina Weibo, il Twitter cinese, sono rimasti vittima della censura, mentre la notizia delle proteste è passata in sordina sulla maggior parte degli organi d'informazione ufficiali. Un breve annuncio sulla prima pagina del Ningbo Daily rendeva nota la sospensione del progetto per consentirne "il perfezionamento sulla base di analisi scientifiche", individuando la causa delle rimostranze in un "errore di comunicazione". "I leader si sono impegnati ad "aumentare il rilascio di informazioni (in futuro ndr), in modo da fornire spiegazioni e rimuovere dubbi e preoccupazioni tra le masse" si legge sul quotidiano locale.
Maggiori dettagli sul Qilu Wanbao, testata dello Shandong, particolarmente attento a sottolineare come l'esito della questione rifletta il rispetto delle "autorità per l'opinione pubblica". "Anche se questo problema è stato risolto, occorre capire come sia possibile prevenire in futuro episodi simili" scrive il Qilu Wanbao "A causa del Px, questo genere di incidenti di massa si sono già verificati a Xiamen, Dalian e in altre città ed è impensabile che a Ningbo non ne fossero a conoscenza. Questo evento ha appena ricordato a tutti i dipartimenti governativi la necessità di tenere in considerazione l'opinione pubblica attraverso un processo regolare e senza ostacoli."
Per il China Daily, invece, l'aumento delle proteste ambientaliste evidenzia l'ossessione dei funzionari locali per lo sviluppo economico: " i governi locali sono ancora troppo preoccupati per il prodotto interno lordo" si legge in un editoriale apparso lunedì 29.
Più pungente il Global Times, quotidiano-bulldozer del Partito e costola del People's Daily: "Alcuni dicono che il popolo di Ningbo ha vinto, ma a nostro avviso non ci possono essere vincitori in una situazione come questa, nella quale la resistenza delle masse in strada e nelle piazze decide il destino di un progetto petrolchimico tanto importante. Sembra piuttosto che tutta la Cina ne sia uscita perdente". Alcuni giorni prima il tabloid aveva già preso le parti dei cittadini spiegando come sia necessario investire di più sulla protezione ambientale, innalzando gli standard degli impianti. "Il metodo di approvazione per la costruzione di industrie chimiche pesanti è insostenibile. Questo tipo di conflitti cesserà solo nel momento in cui i progetti riceveranno l'approvazione pubblica".
Che quella di Ningbo non sia una vittoria a pieno titolo sembrano pensarlo anche i manifestanti, i quali hanno reagito con circospezione alla notizia dell'interruzione del progetto multi-miliardario, continuando a portare avanti una timida protesta di fronte agli edifici governativi. "Purtroppo è solo una tattica dilatoria" ha commentato Sha Shi Di Sao Zi, cittadino di Ningbo, sul suo microblog "il governo avvertiva la pressione ed era ansioso di chiudere questa storia. Non è una vittoria per noi".
A pochi giorni dal Diciottesimo Congresso nazionale -che l'8 novembre stabilirà il passaggio del potere ai nuovi leder- il compromesso deve essere sembrato la soluzione più indolore per Pechino, desideroso di mantenere una parvenza di "armonia sociale". Secondo voci circolanti su Weibo, dietro la sospensione dei lavori dell'impianto si nasconderebbe la lunga mano di Zhou Yongkang, lo zar della sicurezza cinese. Negli ultimi anni la nomenklatura cinese ha cercato di prevenire disordini aumentando la spesa per la "conservazione della stabilità", tanto che, ormai, il budget per il weiwen, l'apparato di sicurezza pubblica, ha superato quello destinato all'Esercito.
Dopo un trentennio di sviluppo economico a tappe forzate, l'inquinamento ambientale, negli ultimi anni, sembra essere diventata una preoccupazioni costante per la popolazione. A dimostrarlo sono i numeri crescenti delle "proteste verdi", molte delle quali terminate con un'apparente vittoria dei cittadini. Nel giugno del 2007 una marcia anti-Px mise fine alla costruzione di un impianto chimico tossico nella città di Xiamen. Nel 2008 è stata la volta degli abitanti di Shanghai, scesi in strada contro l'ampliamento del treno a lievitazione magnetica Maglev. Lo stesso anno a Chengdu si manifestò contro un impianto di etilene finanziato dalla PetroChina, mentre a Pechino i residenti dissero no alla più grande discarica di rifiuti della capitale, responsabile di inquinare l'aria con diossine pericolose. E se il 2011 viene ricordato per la chiusura dell'impianto chimico di Dalian -anch'essa in seguito a scontri tra cittadini e polizia- il 2012, ancora prima degli episodi di Ningbo, era già stato caratterizzato da proteste analoghe. Soltanto nel mese di luglio, infatti, le città di Shifang e Qidong sono state a loro volta teatro di agitazioni in chiave ambientalista.
Secondo Yang Chaofei, vice-presidente della Società Cinese per le Scienze Ambientali, tra il 2010 e il 2011, il numero delle "proteste verdi" è aumentato del 120%. In occasione di una conferenza sull'impatto sociale dei problemi ambientali organizzata dal Comitato permanente dell'Assemblea nazionale del popolo (Npcsc), Yang ha rivelato che i cosiddetti "incidenti di massa" sono cresciuti con una media annua del 29% tra il 1996 e il 2011; 927 quelli ai quali il ministero della Protezione Ambientale ha dovuto far fronte a partire dal 2005, di cui 72 classificati come "di grande rilevanza". Ormai da anni Pechino ha smesso di rilasciare le statistiche ufficiali, dopo che il numero annuo delle proteste violente ha superato la soglia delle 100mila. Ma -secondo Sun Liping, professore di sociologia presso l'Università Qinghua- solo nel 2010, gli incidenti di massa sarebbero stati circa 180mila.
E adesso a preoccupare è sopratutto la rilassatezza della giustizia: un esiguo 1% delle controversie in materia ambientale riesce a raggiunge le aule del tribunale. Come ha messo in evidenza un editoriale comparso recentemente sul Beijing News, urge una revisione della normativa vigente per dare una risposta a chi lamenta la mancanza di disposizioni che permettano di ricevere compensazioni in caso di danni ambientali.
(Scritto per Dazebao)
sabato 27 ottobre 2012
Le ricchezze di Wen tra lotte di potere
Sono bastate 4700 parole al New York Times per mette in mutande la famiglia del premier cinese uscente Wen Jiabao, portando alla luce un patrimonio da almeno 2,7 miliardi di dollari, accumulato attraverso una complessa rete di relazioni poco trasparenti, intessute con figure di spicco del business d'oltre Muraglia. Un altro siluro diretto ai vertici del Partito a soli quattro mesi dallo scoop di Bloomberg sulle fortune dei parenti del presidente in pectore Xi Jinping e a pochi giorni dal fatidico XVIII Congresso, evento che sancirà il passaggio del testimone ai nuovi leader.
Sebbene, secondo le indagini del quotidiano newyorkese, nulla proverebbe una diretta implicazione del primo ministro nelle attività familiari, in pieno scandalo Bo Xilai, il Pcc aveva bisogno di tutto fuorché di altri scheletri nell'armadio. Soprattutto se questi scheletri si trovano nascosti nei lussuosi appartamenti non del perfido ex-segretario di Chongqing, ma bensì dei protetti di "nonno Wen", la faccia buona del Partito, paladino anticorruzione di umili origini e -si vocifera- persino ispiratore di una riabilitazione del movimento di Tian'anmen. Tutt'altra cosa, insomma.
Pechino non l'ha presa bene. Tacciato il NYT di "calunnia", ha accusato il pezzo-bomba di avere motivazioni "non giornalistiche", nascondendosi dietro all'ormai consueto vittimismo. In sintesi: trattasi ancora della solita cospirazione "made in Usa", volta ad arrestare l'avanzata del Dragone sullo scacchiere internazionale e a mettere in cattiva luce il Partito. Copione già visto all'epoca della fuga del dissidente Chen Guangcheng presso l'ambasciata statunitense a Pechino e ormai riproposto sempre più spesso in caso di situazioni imbarazzanti.(link) Questo almeno è ciò che sembrano suggerire le poche e coincise parole di Hong Lei, portavoce del ministero degli Esteri cinese.
Variegata la reazione del popolo del web, scisso tra sdegno, stupore e semi-comprensione. "L'articolo (del NYT ndr) rivela che Wen non era contento degli affari dei suoi familiari, ma che non sapeva come fermarli. Anche se non vi è prova di un illecito a suo carico, come poteva pensare di combattere la corruzione di tutto il sistema se non riusciva a fermare nemmeno quella in casa propria?" si legge in un post su Weibo, sorta di Twitter in salsa di soia. Qualcuno più smaliziato: "In quel gruppo (la leadership ndr) questo è il biglietto per stare al gioco. Se il tuo culo è pulito e la tua famiglia non possiede ingenti beni, non hai le qualifiche per stringere alleanze e fare affari"
Intanto rimane un mistero l'identità della talpa che ha allungato informazioni tanto compromettenti ai "nemici" americani. Chi potrebbe augurarsi la rovina di Wen? Secondo alcuni, il NYT costituirebbe una pedina nelle lotte di potere consumate entro le mura di Zhongnanhai, il Cremlino cinese. A sparare l'ultima bordata sarebbe stata l'ultrasinistra, orfana di Bo Xilai, ma ancora agguerrita e pronta a speronare l'ala più liberale del Pcc, di cui Wen è uno degli esponenti di spicco. Tale tesi viene riproposta da tal @hdonuts in chiusura ad un pezzo comparso ieri su Foreign Policy:
"Kim Jong-il ha utilizzato la lotta contro la corruzione all'ordine del giorno per fare fuori l'opposizione. E' una strategia che accomuna tutti i dittatori e coloro che ambiscono a diventarlo, come Bo Xilai e il suo boss (Zhou Yongkang ?). Quando si parla di paesi in cui governano regimi totalitari, come la Cina e la Corea del Nord, è difficile tracciare il confine tra giusto e sbagliato. Persone crudeli utilizzano la giustizia per mettere in atto malignità ed eliminare i propri rivali. Una guerra discriminatoria alla corruzione non ha mai portato in alcuna regione l'onestà che è invece stata assicurata in Occidente attraverso modifiche del sistema politico. Diamo un'occhiata alla storia. La rivoluzione culturale di Mao, le purghe di Stalin, il genocidio dei Khmer Rossi: tutti coloro che hanno messo in atto i più gravi disastri dei tempi moderni lo hanno fatto in nome della lotta alla corruzione. La mia conclusione è, dunque, che non si farà chiarezza politica accusando in maniera casuale qualche politico di corruzione. Si farà chiarezza, piuttosto, modificando il sistema, che oggi in Cina è campo di battaglia tra due fazioni opposte. Ci sono i maoisti, che cercano di infliggere purghe -come fecero i Khmer Rossi in Cambogia- e i riformisti, che ambiscono a trasformare la mainland in una sorta di Hong Kong. Ma ora i maoisti hanno perso il loro capo (Bo Xilai), mentre i riformisti, sfortunatamente, stanno tentando di eliminare la dottrina di Mao dalla Costituzione. E pertanto sono finti tra le fiamme"
Articoli correlati apparsi sul NYT:
L'impero della famiglia Wen
Come ottenere informazioni finanziarie in Cina (David Barboza spiega come è riuscito a procurarsi il materiale per il pezzo)
mercoledì 24 ottobre 2012
Riforme si riforme no
I natali farebbero ben pensare: il leader in pectore è, infatti, un "principe" dell'aristocrazia rossa. Figlio di Xi Zhongxun, uno dei protagonisti della rivoluzione, epurato da Mao Zedong e noto per essere un liberale. Ha sperimentato sulla propria pelle gli esiti catastrofici della rivoluzione culturale. "Il suo passato di sofferenze lascia immaginare che Xi si distinguerà come il politico dalla parte del popolo. Ed effettivamente la stessa opinione pubblica si aspetta che il vice presidente segua le orme del padre, il quale una volta riabilitato non solo si rese determinante nella realizzazione delle riforme economiche, ma non esitò a manifestare più volte la sua opposizione alla soppressione delle rivolte studentesche di Tian’anmen del 1989" si legge in una sua biografia tradotta parzialmente dal New York Times alcuni mesi fa.
Secondo il quotidiano americano, "diverse persone orbitanti attorno alla figura di Xi stanno sollecitando il Partito ad adottare politiche più liberali per riottenere la legittimità di cui godeva quando era ancora una forza rivoluzionaria. L'espulsione di Bo Xilai, (l'ex segretario di Chongqing ndr) che corteggiò conservatori e maoisti prima di cadere in disgrazia, ha incoraggiato i liberali a richiedere agli attuali leader di adottare cambiamenti sistematici." Proprio questo mese Hu Shuli, influente giornalista cinese, ha condiviso la recente ventata di ottimismo pubblicando sulla sua rivista Caixin un articolo dal titolo Bo Xilai un catalizzatore per le riforme politiche.
Come si evince da un editoriale pubblicato lunedì su Study Times -rivista della Scuola centrale del Pcc- Xi, con il placet dell'ex presidente Jiang Zemin, avrebbe supervisionato una squadra di ricerca per studiare "il modello Singapore", il quale prevede un pensiero e politiche economiche più liberali mantenendo un regime a partito unico. Quello che, utilizzando un ossimoro, viene definito "autoritarismo liberale". Voci incoraggianti circolano tra le stanze del potere -come sostenuto da Wu Si, caporedattore della rivista Yanhuang Chunqiu- circa "un avvio delle riforme politiche" una volta concluso il Congresso.
Suggerimenti, questi, da maneggiare con cautela. Troppa enfasi è stata posta sul riformismo "innato" del futuro numero uno della Repubblica popolare. Non scordiamoci che anche Hu Jintao quando assunse la presidenza nel 2003 fu accolto da aspettative eccessive -col senno di poi- disattese. Che se lo ricordino sopratutto gli analisti occidentali e i cinesi liberali inebriati dall'euforica ricerca di un Gorbaciov d'oltre Muraglia. Dieci anni fa si credette di averlo trovato con Hu. Oggi gli addetti ai lavori sono un po' meno entusiasti, tanto da aver soprannominato gli anni di governo del presidente uscente "il decennio perduto". Alcuni mesi fa un anonimo funzionario del Partito si sarebbe, addirittura, spinto a definire Hu "il peggior leader dal 1949". Volendo essere meno severi: l'unica vera riforma introdotta nel suo periodo di mandato consiste "nell'abolizione delle tasse per i contadini", sottolinea sul suo blog Beniamino Natale, corrispondente per l'Ansa a Pechino "si pensava sarebbe stata seguita da altre, perlomeno dall'abolizione dell' 'hukou', il permesso di residenza inventato dai maoisti per controllare i movimenti di popolazione. Invece, niente."
Alcuni segni
Un segno mette in evidenza come il Pcc non sia poi tanto intenzionato a spingere sul pedale dell'innovazione: l'estromissione di Wang Yang dalla corsa verso il Comitato permanete del Politburo, il Gotha cinese che quest'anno -secondo alcune indiscrezioni- potrebbe essere ridotto da 9 a 7 membri. Stando ad alcune fonti della Reuters, il capo del partito del Guangdong, noto per essere uno "coraggioso, liberale, con una mentalità da leader moderno", non rientrerà nel sancta sanctorum del Partito post Congresso perché considerato "troppo riformista".
Ma, con tutta la prudenza del caso, la Cina di fine 2012 sembra essere molto più denghiana che maoista. Come la stampa internazionale si è affrettata a sottolineare martedì, il mancato riferimento al Grande Timoniere in un recente documento del Politburo -traboccante, invece, di citazioni di Deng Xiaoping e Jiang Zemin- indurrebbe a pensare che sia giunto il momento di scrollarsi di dosso l'eredità scomoda del fondatore della Repubblica popolare, oggi riflesso nell'immagine del corrottissimo Bo Xilai. Una proposta di modifica della costituzione che richiama al "socialismo con caratteristiche cinesi" di Deng -il padre dell'apertura politica ed economica- ma che ignora il pensiero di Mao, è stata interpretata da molti come una stoccata diretta alla Nuova Sinistra, ancora schierata dalla parte del defenestrato Bo. Se sia anche da leggere come una dichiarazione d'intenti (riformisti) è troppo presto per dirlo.
Quali riforme?
Se le riforme arriveranno, difficilmente saranno in senso democratico. L'interesse delle frange riformiste del Pcc è tutto proiettato verso una robusta revisione/manutenzione del "modello Cina": la formula alchemica a base di capitalismo di Stato che negli ultimi 10 anni ha assicurato all'economia del Dragone una crescita a due cifre, ma che ormai ha rivelato tutti i suoi limiti. Da luglio a settembre il Pil della Cina e' sceso al +7,4% contro il +7,6% del secondo trimestre e il +8,1% del primo.
E se le riforme arriveranno, con ogni probabilità a fare le spese saranno i " grandi monopoli", secondo una strada auspicata e tracciata dal premier Wen Jiabao. Sarà, quindi, una riforma delle banche per impedire loro di versare finanziamenti esclusivamente alle aziende statali, incentivando l'ingresso di capitali privati e smembrando i colossi di Stato, colpevoli di ingolfare il sistema economico. Una ristrutturazione, sino ad oggi, fortemente contrastata dal deposto Bo Xilai e da alcuni falchi a lui vicini.
lunedì 22 ottobre 2012
"Nuova Sinistra" contro espulsione Bo Xilai
La "Nuova Sinistra" si schiera ancora a spada tratta dalla parte di Bo Xilai. In una lettera pubblicata sul sito "Cina Rossa" un corposo gruppo di sostenitori dell'ex segretario di Chongqing chiede all'Assemblea Nazionale del Popolo (ANP), sorta di Parlamento cinese, che il loro idolo politico non venga espulso; una mossa questa -secondo i firmatari- discutibile e motivata da interessi politici. Accusato di diversi crimini tra i quali abuso di potere e corruzione, lo scorso 28 settembre Bo era stato interdetto dai pubblichi uffici ed espulso dal Pcc, una decisione che, tuttavia, dovrà essere confermata durante il settimo plenum del 17esimo Comitato centrale del Pcc, previsto per il 1 novembre. Tra il 23 e il 26 di questo mese -riportava la settimana scorsa l'agenzia di stampa Xinhua- il Comitato permanente del Politburo, principale organo decisionale cinese, dovrà "rivedere lo status politico di alcuni membri del Pcc" e decretare l'espulsione di Bo dall'Assemblea Nazionale del Popolo. Tappa obbligata per la rimozione dell'immunità giuridica in previsione del processo penale.
Ma l'estrema sinistra non ci sta e punta il dito contro il "Parlamento" cinese a causa dell'infondatezza delle accuse mosse contro il leader caduto in disgrazia. "Qual'è la ragione dell'espulsione di Bo Xilai? Indagate sui fatti e sulle prove" recita la lettera "Fornite al popolo le prove concrete che Bo Xilai sarà in grado di difendersi in conformità con la legge". Il compito dell'ANP è quello di promulgare e controllare le leggi, evitando di assecondare gli attacchi personali tra fazioni politiche, continuano i sostenitori di Bo.
In particolare i 300 firmatari, accademici e veterani del Pcc in pensione, mettono in discussione le circostanze legate all'omicidio del businessman britannico Neil Heywood, per il quale è stata condannata alla pena di morte sospesa la moglie di Bo Xilai, Gu Kailai, e nel quale sarebbe parzialmente implicato anche l'ex leader di Chongqing. Il procedimento penale a carico della donna lo scorso agosto aveva destato diversi dubbi per la mancanza di prove effettive e la rapidità con il quale si era concluso. "Non è forse una grande buffonata quella che stiamo mettendo in scena davanti al mondo intero, sostenendo di essere un paese in cui vige lo stato di diritto" si chiede la "Nuova Sinistra", sottolineando come non sia stata concessa agli imputati la possibilità di difendersi adeguatamente. Da marzo Bo non è più apparso in pubblico e, sebbene non gli sia stato permesso di rispondere alle accuse mossegli contro, pochi giorni prima della sua sospensione aveva bollato come "sporcizie" e "insensatezze" le voci su di lui e la propria famiglia.
Ma, commenta la Reuters, l'impatto dell'appello dell'ultrasinistra sarà, probabilmente, minimo. Sin dall'inizio dello scandalo legato al clan dei Bo le autorità avevano provveduto a censurare i siti web nostalgici, quali "Utopia" e "Cina Rossa", in quanto apertamente schierati dalla parte del funzionario fresco di epurazione. Negli ultimi tempi il pericolo di un rinnovato maoismo si è affacciato nuovamente alle porte di Zhongnanhai, quartier generale del Partito, in concomitanza con una serie di proteste nazionaliste in chiave anti-nipponica. In occasione della rivendicazione delle isole Diaoyu, contese con il Giappone, tra i manifestanti hanno fatto la comparsa immagini del Grande Timoniere e slogan in favore del rilascio di Bo Xilai. A ribadire come il Nuovo Mao -sino a pochi mesi fa in corsa per uno dei seggi del Comitato permanete del Politburo al prossimo Congresso- goda ancora di una certa popolarità.
Nominato nel 2007 capo del Partito di Chongqing, durante il suo periodo di regno nella megalopoli del sud-ovest Bo Xilai si è distinto per una controversa lotta contro la mafia e un populismo "rosso acceso". Politiche, queste, che lo hanno reso inviso all'ala più riformista del Partito, per la "Nuova Sinistra", vera artefice della sua caduta rovinosa. (Bo Xilai espulso dal Partito, armoniosamente verso il XVIII Congresso).
(Pubblicato su Dazebao)
giovedì 18 ottobre 2012
Ombre cinesi sul Continente nero
Un ragazzo di 16 anni morto sotto i colpi della polizia locale e un altro centinaio di cittadini cinesi finiti in manette. E' il bilancio dell'ultima retata messa in atto dalle autorità del Ghana sulla pista delle miniere d'oro illegali, nei pressi di Kumasi, seconda città del Paese. Solo il mese scorso altri 40 cinesi erano stati arrestati, di cui 38 deportati, in un giro di vite che punta i riflettori su una diaspora che sta assumendo sempre più i connotati della colonizzazione. Tra inchieste su episodi di corruzione miliardari e presunti abusi ai danni dei dipendenti locali da parte dei signorotti cinesi, i segni della tensione tra i due Paesi sono ben visibili e prendono voce attraverso l'insofferenza degli abitanti della zona. "I cinesi hanno distrutto la nostra terra e il nostro fiume, si sono insediati con i loro pick-up e le loro armi, una valanga di armi" commentava lo scorso mese ai microfoni di Bloomberg, Marxwell Owusu, capo di Manso, villaggio nella regione centrale di Ashanti.
Con la crisi dell'Eurozona e l'aumento dei prezzi dell'oro, il Ghana si è trovato a dover far fronte ad un flusso massiccio di piccoli minatori clandestini in arrivo dal Regno di Mezzo, equipaggiati di macchinari che gli abitanti del posto dicono di non potersi permettere. Le operazioni di estrazione stanno alimentando le preoccupazioni per i danni ambientali in Africa, il secondo produttore di oro al mondo, mentre monta la rabbia dei ghanesi per essersi all'improvviso ritrovati nel cortile di casa i bulldozer "made in China". "Il coinvolgimento dei cinesi ha cambiato le dinamiche di sfruttamento su scala ridotta" ha spiegato Toni Aubynn, presidente del Ghana Chamber of Mines, sottolineando come l'impiego di macchinari pesanti abbia avuto un impatto ambientale enorme.
D'altra parte, per quanto incombente, la presenza del Dragone nella Repubblica africana ha innescato scambi virtuosi a nove zeri. Il commercio bilaterale tra i due Paesi è passato dai 2 miliardi del 2010 agli oltre 3 miliardi di dollari dello scorso anno, come si legge sul sito web dell'Ambasciata cinese della capitale Accra.
E se in Ghana Pechino ha messo gli occhi sulle risorse minerarie, in Tanzania la China Communication Construction Company Ltd. (CCCC), colosso cinese di proprietà statale, dal 2001 ad oggi ha firmato accordi per un valore complessivo di 247 milioni di dollari, destinati alla realizzazione di strade, ponti e porti. E lo ha fatto riuscendo ad integrare la propria attività nella società autoctona, assumendo lavoratori locali: ben 3.200 contro i 180 giunti dalla Cina. Una decisione presa -secondo il direttore generale dell'ufficio locale dell'azienda, Pei Yan- a causa delle difficoltà di ambientamento incontrate dagli operai cinesi, nonché al fine di offrire opportunità di lavoro anche alla gente del posto. Perché assumersi la propria responsabilità verso la società locale "è un dovere per le compagnie cinesi" ha sentenziato Shi Yong, rappresentante della Sinohydro Corporation Ltd., attore importante nel mercato dell'energia idroelettrica che ha dato un impiego ad oltre 3600 tanzaniani.
In Tanzania il numero degli imprenditori dell'ex Impero Celeste è schizzato dai 300 del 2002 ai 30.000 del 2012, così da aver indotto alcuni lungimiranti uomini d'affari cinesi a fondare la Chinese Business Chamber of Tanzania, un'organizzazione che oggi conta oltre mille imprenditori e funge da canale tra imprese d'oltre Muraglia e governo locale. Oltre a monitorare la qualità dei prodotti venduti e scongiurare il problema della contraffazione.
Ma non è tutto oro quel che luccica e l'ombra del gigante asiatico proietta in Africa un complesso intreccio di interessi economici, ambizioni espansionistiche e "scopi umanitari". Tanto che oggi la Cina, pur definendosi "il più grande Paese in via di sviluppo", è anche uno dei "principali donatori" nel panorama della cooperazione internazionale. Lo scorso luglio Pechino ha ospitato il quinto Forum On China-Africa Cooperation in occasione del quale il governo cinese ha promesso nuovi prestiti di natura concessionale per 20 milioni di dollari nel corso del prossimo triennio (il doppio rispetto a quanto stanziato durante il Focac del 2009). Ma sebbene non siano stati forniti dettagli sulle condizioni dei finanziamenti, la maggior parte dei prestiti erogati dallo Stato cinese non rispetta le linee guida delineate dall'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), della quale la Cina, per altro, non fa parte. D'altronde -come spiega Africa Report- a poco servirebbero gli aiuti del Dragone per far fronte ad un deficit infrastrutturale che, secondo le stime della Banca Mondiale (BM), richiederebbe 37 miliardi di dollari all'anno per essere colmato.
Negli ultimi tempi la "generosità" di Pechino ha richiamato l'attenzione della BM e del Fondo monetario internazionale (Fmi). Proprio nel mese d'aprile, il Fmi fece saltare un accordo da 3 miliardi di dollari tra il Ghana e la China Development Bank, poiché in contrasto con le linee guida che vietano ai Paesi a reddito medio di concedere finanziamenti non concessionali per somme superiori agli 800 milioni di dollari l'anno. Ma c'è dell'altro. Pare che adesso a fare la voce grossa siano proprio i Paesi africani. Oltre all'appello lanciato in occasione del summit dal ministro degli Esteri dello Zambia, favorevole ad un fronte panafricano per strappare accordi più vantaggiosi al Dragone, sempre nel mese di luglio il governo nigeriano si apprestava a rinegoziare i termini del prestito da 980 milioni dollari, concesso dalla China Exim Bank, affinché il tasso d'interesse non superasse il 2%. Primo sintomo di una presenza più solida del Continente nero al tavolo dei negoziati, da sempre dominato dalla Cina.
Secondo un articolo pubblicato alla fine del 2011 sul sito di The Beijing Axis, agenzia leader di consulenza per le imprese, solo il 50% delle società cinesi ha ottenuto appalti nel campo delle infrastrutture attraverso gare pubbliche, mentre il 40% ci è arrivato grazie a prestiti, concessioni e altre vie traverse nelle quali il governo di Pechino ricopre un ruolo chiave. "Gli scambi commerciali tra la Cina e l’Africa -in impennata tra il 2000 e il 2008 (anno in cui hanno superato i 100 miliardi di dollari)- evidenziano uno squilibrio crescente in favore del Dragone", ha commentato Robert Schuman, Research Fellow presso l'Istituto Universitario Europeo, "mentre la struttura dell’interscambio non consente ai Paesi africani di ridurre la propria dipendenza cronica dalle esportazioni di materie prime." Che pesano per circa il 92% del totale.
(Scritto per Ghigliottina.it)
lunedì 15 ottobre 2012
Stelle cinesi "cadono" a Hollywood
Film hollywoodiani dai budget stellari si tingono di esotico. Giusto una pennellata però.
Aggraziate e belle di una bellezza fragile, propria della femminilità orientale, attraversano l'Oceano in cerca di una notorietà planetaria che in patria non otterranno mai. Ma cosa succede se poi alla fine raggiunta la "Mecca del cinema" si trovano a dover ricoprire ruoli marginali?
E' ciò che è capitato a note attrici cinesi, vere dive in Cina, che varcate le porte degli studios americani hanno dovuto scendere a compromessi accettando di fare da comparsa. Il fenomeno non è sfuggito all'attenzione del China Daily, il più noto tra i quotidiani in lingua inglese dell'Impero di Mezzo, che il 29 settembre si è espresso senza mezzi termini sulla questione, titolando Chinese actresses get short shrift in new Hollywood epics. Un pezzo agile per una delle testate più disinvolte dell'artiglieria mediatica cinese, spara senza colpo ferire contro l'industria cinematografica d'oltre Muraglia. E lo fa snocciolando i nomi di alcune delle star cinesi degradate a ruoli accessori. Yu Nan, alias Maggie Chan in The Expendables2, è sicuramente una delle più fortunate, commenta il China Daily. A lei è stato concesso l'onore di apparire nella gang di Sylvester Stallone, ritagliandosi "un giusto spazio di tempo". Ma come unica dotata di cervello tra un ammasso di muscoli, le è stato chiesto di condensare la propria parte in una sola espressione: "quella di disgusto".
Per Xu Qing, il cui nome appare in vetta ai poster di Looper -film del 2012 che vanta nel cast star quali Bruce Willis- è soltanto ottava nei credit, ma rimpiazza la fugace apparizione sullo schermo con una buona dose di glamour. A Li Bingbing, che i più informati sapranno certamente recitare in Resident Evil: Retribution, è andata peggio: solo decima nei credit, con buona pace dei suoi fan. Zhou Xun, un'artista a tuttotondo (attrice, cantante e ambasciatrice Chanel per la Cina), è risultata appena settima nel film Cloud Atlas, presentato al 37esimo Festival Internazionale del Cinema di Toronto e di prossima uscita. A naso difficilmente la sua performance eguaglierà in termini di tempo quella realizzata in Painted Skin:Resurrection, film cinese dell'anno.
Se le belle siniche sono atterrate a Hollywood non lo devono alle loro doti recitative, continua impietoso il China Daily. Una faccia dagli occhi a mandorla serve per attrarre nelle sale il pubblico del Paese più popoloso al mondo, mentre gli investitori cinesi ricorrono sempre più spesso alla formula delle coproduzioni al fine di raccogliere una quota maggiore al box-office nazionale. Risultato ottenibile solo nel caso in cui il cast principale sia composto per un terzo da attori cinesi. Per i film stranieri, d'altra parte, una delle condizioni per ottenere un'ampia distribuzione e una percentuale maggiore di incassi nella Repubblica popolare è la presenza di attori cinesi e il fatto che alcune scene siano girate in Cina. Ma negli esperimenti cinematografici, foraggiati da tycoon di entrambi i Paesi, spesso i capitali cinesi sono nettamente inferiori, tanto che, per la maggior parte, questi film non possono essere considerati coproduzioni, venendo, pertanto, sottoposti al protezionista sistema delle quote.(Occhi puntati a Hollywood: arriva il fondo cofinanziamento)
A tal proposito abbiamo chiesto chiarimenti ad Armando Fumagalli, Professore ordinario di Semiotica e Direttore del Master in Scrittura e Produzione per la Fiction e il Cinema presso l'Università Cattolica di Milano."Direi che evidentemente l'intento delle produzioni di Hollywood è massimizzare i profitti e quindi usano attori o attrici cinesi (come hanno fatto anche qualche volta con le indiane) solo e nella misura in cui serve per 'entrare' in un mercato molto appetitoso (non solo per il presente, ma anche per il futuro) come quello cinese"- ha spiegato Fumagalli- "Ovviamente per le mayor è importante avere attori americani popolari nei ruoli chiave, poi laddove si riesce inseriscono degli stranieri (come fanno spesso anche con attrici francesi, vedi ultimamente Marion Cotillard, peraltro molto brava) che aprano a mercati ulteriori."
Il mondo non è ancora pronto per un film d'azione con un cast a maggioranza cinese ha commentato Zhang Zhao, presidente di Le Vision Pictures, la compagnia che ha investito in The Expendable2. Per le dive di Cina, tuttavia, un'apparizione sui set hollywoodiani, sebbene fugace, fornisce pur sempre un valore aggiunto nella competizione in casa con le connazionali. Così come l'apparire al fianco di superstar americane dà lustro alla propria carriera. Ma non al cinema cinese in toto. Lo pensa Dario Tomasi, critico cinematografico, esperto di cinema orientale nonché professore associato di storia del cinema presso l'Università di Torino, raggiunto da Uno sguardo al femminile per una breve intervista.
"Credo che la strada che il cinema cinese mainstream sta percorrendo - coproduzioni internazionali, grandi budget, scimmiottamento del cinema hollywoodiano - sia una strada che di fatto non lo porterà da nessuna parte" ha spiegato Tomasi, sottolineando come il settore dell'entertainement d'oltre Muraglia dovrebbe fare tesoro della tradizione locale. "Il cinema cinese deve riuscire a puntare le sue forze sulla propria cultura e sulle proprie specificità. Lo dimostra un film come Lanterne rosse che è stato probabilmente il maggior successo internazionale del cinema cinese avendo al suo interno ben poco di hollywoodiano e al contrario molti elementi appartenenti alla cultura autoctona. Anche il cinema che vuole documentare il presente penso debba guardare molto di più al neorealismo italiano che a Hollywood. Il che non vuol dire realizzare film noiosi a tutti i costi – ben vengano suspense e azione – ma film che sappiano, anche in modo avvincenti e spettacolare, raccontare al mondo le contraddizioni della Cina contemporanea (penso allo Yang Li di Blind Shaft e Blind Mountain). Uno spettatore occidentale credo vada a vedere un film cinese per conoscere qualcosa di quella realtà, non per vedere una copia (spesso brutta) del cinema americano. Per quel che riguarda il mercato interno presumo che anche i cinesi – al di là di qualche eccezione – preferiranno i successi hollywoodiani alle loro imitazioni locali (del resto questo è un po’ quel che è accaduto ovunque).Quanto al destino delle attrici cinesi nel cinema hollywoodiano, non mi sembra poi molto diverso da quello che incontrarono le dive italiane quando sbarcarono in America."
(Scritto per Uno sguardo al femminile)
domenica 14 ottobre 2012
Approfondimento sulla riforma giudiziaria in Cina
Alcuni giorni fa l'Ufficio informativo del Consiglio di Stato cinese ha pubblicato un libro bianco sulla riforma giudiziaria che sottolinea i progressi fatti nella salvaguardia della giustizia e, in particolare, dei diritti umani. "Le riforme giudiziarie cinesi mirano al rafforzamento della capacita' degli organi giudiziari di mantenere l'equita' sociale ottimizzando la struttura degli stessi e l'assegnazione delle loro funzioni e dei loro poteri, uniformando gli atti giudiziari, migliorando i procedimenti e incoraggiando una giustizia democratica e il controllo da parte della legge." Oltre ad analizzare il sistema giudiziario cinese e il processo di riforma, il libro bianco mette in rilievo aspetti quali il mantenimento dell'equita' sociale e la salvaguardia della giustizia e dei diritti umani. (AgiChina24)
Xinhua: China issues white paper on jiudicial reform
Ottimo articolo su The Diplomat: Chinese Legal Reform: Game On?
giovedì 11 ottobre 2012
Il Nobel per la Letteratura 2012 è "colui che non parla"
Mo Yan strappa il Nobel per la letteratura 2012 al collega giapponese Murakami -fino a qualche giorno fa dato tra i favoriti- e diventa il primo scrittore cinese ad ottenere l'ambito premio. Anche il primo Nobel cinese a non essere in prigione o in esilio. Pensiamo al dissidente Liu Xiaobo, Nobel per la pace nel 2010 mentre era dietro le sbarre dal 2009 e a Gao Xingjian, nato in Cina ma da oltre 20 anni in esilio all'estero e già cittadino francese nel 2000 quando ottenne il Nobel per la letteratura. Quest'ultimo per giunta snobbato dall'agenzia di stampa statale Xinhua che, nel riportare la notizia della vittoria di Mo, non lo cita tra gli ultimi 11 vincitori del Nobel. Un po' perché "poco cinese" un po' perché fortemente critico verso il regime (i suoi lavori sono banditi in patria).
Mo Yan invece è il Nobel che piace a Pechino, quello che serviva per ricomporre gli strappi nelle relazioni tra Cina e Norvegia, divenute tese dopo il caso Liu Xiaobo (anche se stavolta è stata l'Accademia svedese a conferire il Premio). Mo, infatti, è membro del Partito comunista cinese, ex soldato dell'Esercito popolare di liberazione e vice-presidente della controversa associazione degli scrittori cinesi sostenuta dal governo; si è ritirato dalla Fiera del Libro di Francoforte nel 2009 per protestare contro la presenza di scrittori cinesi dissidenti, tra cui Dai Qing e Bei Ling. E come suggerisce il suo stesso nome d'arte (mo yan) è "colui che non parla". Non l'ha fatto nemmeno quando gli fu chiesto di commentare l'assegnazione del Nobel a Liu Xiaobo.
Ma a vincere secondo la giuria è stato il suo "realismo allucinatorio", con il quale crea "racconti popolari storici e contemporanei". La bellezza immaginifiche delle sue opere ("Sorgo Rosso","Grande seno fianchi larghi" e "Il supplizio del legno di sandalo" per citarne alcuni) trascende le motivazioni politiche che potrebbero celarsi dietro alla nomina, già bersagliata dalle critiche del web cinese. Anche se per molti non è sufficiente a far chiudere un occhio davanti al plauso di Mo per le politiche anni '40 lanciate da Mao Zedong (ebbene si: all'inizio di quest'anno ha collaborato a trascrivere "I dialoghi di Yan'an sull'arte e la letteratura"). Prove ufficiale di quella Rivoluzione Culturale che scatenò purghe a tutto spiano tra l''itellighenzia cinese.
Ma che cosa succede se poi il Nobel "amico del regime" sbalordisce tutti riferendo pubblicamente di sperare che Liu Xiaobo "venga rilasciato il più presto possibile"? Lo ha detto sotto il pressing dei reporter catapultatisi a Gaomi, suo paese natale nella provincia settentrionale dello Shandong.
Ora siamo tutti un po' più tranquilli, Ai Weiwei compreso. "Voglio dare il benvenuto a Mo Yan di nuovo tra le braccia della gente" ha affermato l'artista-dissidente "se il risultato è questo coraggio, spero che molti altri scrittori cinese possano ricevere il Nobel"
(I commenti della rete su Caratteri cinesi)
venerdì 5 ottobre 2012
In Cina la crisi si chiama corruzione
"La Cina non cresce per colpa della corruzione, non a causa della crisi finanziaria internazionale". Con queste parole Wu Jinglian, ottantenne ex braccio destro di Deng Xiaoping, spiegava, ad aprile, il rallentamento della locomotiva cinese. Solo un paio di settimane prima, Bo Xilai, era stato rimosso dall'incarico di Segretario di Chongqing, il mese seguente sospeso dal Politburo per "gravi violazioni della disciplina". Alcuni giorni fa espulso dal Partito con l'accusa di corruzione, favoreggiamento, abuso di potere e altri crimini. Lo ha annunciato l'agenzia di stampa statale Xinhua, venerdì 28 settembre, attraverso un comunicato ridondante, di cui buona metà verte sull'impegno assunto dal Partito nella lotta alla corruzione.
Sullo sfondo l'omicidio dell'uomo d'affari Neil Heywood, per il quale Gu Kailai, moglie di Bo, è stata condannata alla pena di morte sospesa e il cui movente è stato ufficialmente individuato in una lite per motivi d'affari. Vite dissolute, diverse/i amanti e trasferimenti di denaro illecito all'estero gettano ombre sul clan dei Bo, mentre secondo i media di Hong Kong, il "principe rosso" di Chongqing avrebbe intascato almeno 20 milioni di yuan (quasi 2milioni e mezzo di euro) di mazzette a partire dagli anni '90, quando era ancora sindaco di Dalian, città portuale nella provincia del Liaoning. Il che, secondo gli analisti, gli costerà non meno di 20 anni di carcere.
Ad aiutare i pronostici sulla sorte del "Nuovo Mao" una serie di casi del passato, che vanno dalla condanna a 16 e 18 anni dei due Chen (Chen Xitong e Chen Liangyu, rispettivamente ex sindaco di Pechino e di Shanghai, epurati e incarcerati con l'accusa di corruzione, seppur ritenuti vittime di lotte tra fazioni rivali interne al Partito) al caso di Cheng Kejie, ex vicepresidente del Comitato permanente dell'Assemblea Nazionale del Popolo, condannato nel 2000 alla pena capitale per aver accettato tangenti pari a 41 milioni di yuan (quasi 5 milioni di euro).
Eppure, nonostante gli illustri predecessori, Bo è, comunque, il politico cinese di più alto rango a venire processato per crimini dopo i membri della Banda dei Quattro (1981). Il suo tracollo assesta un duro colpo alla nuova sinistra cinese -di cui era il leader- distintasi più dell'ala liberale nel mettere sotto accusa la corruzione della classe politica e nel condannare il gap tra ricchi e poveri. Quanto alle amanti, quelle, fa notare l'agenzia di stampa Bloomberg, abbondavano anche nel letto del Grande Timoniere e non è da escludere che la scelta di parlare in modo vago di "rapporti sessuali impropri con un numero imprecisato di donne" -come si legge nell'annuncio ufficiale sull'espulsione di Bo pubblicato dalla Xinhua- abbia avuto lo scopo di rapire l'attenzione generale con il pettegolezzo al fine di distoglierla dalla portata effettiva dei crimini commessi. D'altra parte c'è anche chi del proprio harem si è fatto vanto, come Lin Longfei, funzionario corrotto del Fujian, che nel 2002 ha bandito un concorso per eleggere la migliore tra le sue 22 amanti.
Ma se davanti agli appetiti sessuali dei propri quadri il Partito può chiudere un occhio, difronte alle ingenti somme sottratte alle casse dello Stato la legge cinese non concede sconti. Sopratutto da quando il fattore corruzione si è rivelato essere uno dei principali motivi di malcontento popolare, come dimostra la protesta anti-casta andata in scena nella città di Canton lo scorso aprile. Tra le richieste dei manifestanti scesi in strada "Uguaglianza, giustizia, libertà, diritti umani, Stato di diritto, democrazia". Solo il mese precedente, 180 utenti internet avevano firmato una petizione invitando il governo a rendere noti i propri patrimoni economici, venendo in seguito invitati dalle autorità a "bere un tazza di tè", formula che in Cina si usa per un interrogatorio informale.
Dall'inizio del 2012 diversi pesci grossi sono caduti nella rete della giustizia d'oltre Muraglia. Solo a giugno Tao Liming, presidente della Banca depositi postali cinese, Chen Hongping, capo di una delle divisioni dell'istituto e Yang Kun, vice presidente della Banca dell'Agricoltura sono finiti in manette. A questi vanno aggiunti 102 funzionari dello Shandong purgati per violazione delle leggi e dei regolamenti interni.
Nel mese di maggio, invece, era stata la volta del potente ministro delle Ferrovie promotore dell'alta velocità, Liu Zhijun, espulso dal Partito dopo essere risultato "moralmente corrotto". Finito in una spirale scandalistica dopo l'incidente di Wenzhou, nel luglio 2011, si sarebbe macchiato di “gravi violazioni disciplinari e abuso di potere”, come sentenziato dalla Commissione Centrale per l'Ispezione della Disciplina (CDI). Di lui si dice avesse 18 amanti.
Per combattere la piaga della corruzione, che si annida in gran parte tra le file dell'esercito, alla fine di giugno i vertici militari hanno approvato un emendamento in base al quale gli alti ufficiali dovranno rendere pubblici i propri patrimoni. Una mossa, secondo alcuni, voluta proprio dal presidente Hu Jintao per assicurare al suo erede Xi Jinping una successione "armoniosa", senza sgambetti da parte degli uomini di Jiang Zemin, il grande vecchio della politica cinese ancora influente tra i ranghi dell'esercito. Quasi negli stessi giorni il governo cinese dichiarava battaglia alla corruzione pubblicando un set di quattro libri intitolato "Studio sull'integrità morale dei funzionari nella Cina antica e contemporanea". Una lotta a colpi di proverbi e citazioni filosofiche tratte dai classici confuciani e taoisti. Ad azzittire, forse, l'articolo pubblicato il 29 maggio dal Global Times, tabloid in lingua inglese legato al Quotidiano del Popolo, megafono del Pcc, nel quale con toni giustificatori la corruzione veniva definita un male da comprendere e tollerare perché "in Cina i tempi non sono ancora maturi per sbarazzarsi del tutto del problema".
D'altra parte, proprio poco dopo il siluramento di Bo Xilai, lo scorso aprile, il premier Wen Jiabao aveva scritto di proprio pugno un editoriale nel quale ripercorreva i successi ottenuti dal governo nella campagna anti-corruzione e tracciava gli obiettivi da raggiungere entro la fine dell'anno ("Lasciate che il potere sia esercitato alla luce del sole"). Poi a fine estate un annuncio del Comitato Centrale del Pcc non ha fatto che confermare la linea anticipata dal Primo Ministro: durante il prossimo Congresso, in agenda per l'8 novembre, verrà messo a punto un nuovo piano-quinquennale anti-corruzione. Quello precedente, a quanto pare, è stato un fallimento. Pechino lo ha praticamente ammesso il 6 giugno scorso, confessando che all'interno del Partito ci sono almeno 40 mila dirigenti corrotti, mentre -secondo un rapporto pubblicato nel 2011 da People's Bank of China- negli ultimi 20 anni oltre 18mila quadri sono fuggiti all'estero, portando oltremare una somma pari a 100 miliardi di euro. Di più: come riportava tempo fa Lettera43, con un totale di 2 trilioni di euro fatti uscire illegalmente tra il 2000 e il 2009, il Dragone guida la classifica nera stilata dal Global Financial Integrity, organizzazione di ricerca e advocacy che promuove una maggiore trasparenza del sistema finanziario internazionale. Tra gli ultimi della serie "prendi i soldi e scappa" Wang Guoqiang, ex capo del Partito di Fengcheng, fuggito ad aprile negli Stati Uniti con un bottino da 200 milioni di yuan (oltre 25milioni di euro).
Ma se il numero dei funzionari corrotti è in netta impennata, l'impegno assunto, sinora, dalle autorità per arginare il problema non convince. A suggerirlo sono i dati dell'Ufficio Nazionale di Statistica, secondo il quale, nell'ultima decade, si è registrato un calo del 26% degli indagati. In Cina, nel 2010, "soltanto" 3603 persone sono finite sotto inchiesta per appropriazione indebita di fondi pubblici contro le 11.068 di dieci anni prima.
"Un tempo venivamo truffati senza saperlo, ora veniamo truffati e ne siamo coscienti. Questo è tutto il progresso che abbiamo fatto" ha commentato sarcasticamente Zhang Bingjian, artista e regista cinese che nella corruzione ha trovato una fonte d'ispirazione. "Hall of Fame", ne è il frutto: una collezione che oggi conta circa 1600 ritratti di funzionari cinesi corrotti dipinti in rosa, il colore dei biglietti da 100 yuan. "La bellezza del pezzo sta nel fatto che è aperto" spiega Zhang "Non puoi sapere quando sarà finito. Probabilmente si arriverà a 10mila, 100mila (ritratti), chissà! Ogni giorno la collezione si arricchisce di nuove persone famose".
(Pubblicato in forma ridotta su Ghigliottina.it)
mercoledì 3 ottobre 2012
Libertà di stampa "con caratteristiche cinesi"
Aspettando il 18esimo Congresso
“Questi dieci anni con l’Oriental Daily sono stati i più preziosi della mia vita, mi hanno dato tutta la tristezza e la felicità, tutti i sogni. Ho sofferto e sopportato ogni cosa per inseguire un sogno. E ora che quel sogno è morto ho deciso di andarmene. Fate attenzione compagni!” Con queste poche parole Jian Guangzhou, uno dei giornalisti investigativi più famosi della Cina ha messo un punto alla sua carriera di reporter. Un tweet su Sina Weibo, piattaforma di microblogging in salsa di soia, rivela la frustrazione e la disperazione dietro alla sua scelta. Un addio al mondo del giornalismo che giunge a quattro anni dall’inchiesta che lo portò sulla cresta dell’onda.
L’11 settembre 2008 l’ex penna dell’Oriental Daily, una delle testate più liberali d’oltre muraglia con base a Shanghai, aveva fatto luce sullo scandalo del latte in polvere alla melamina e sulle conseguenze disastrose che tale sostanza aveva avuto sulla salute di circa 40.000 bambini cinesi. Nel mirino di Jian finirono la Sanlu così come molti altri grandi marchi dell’industria del latte, non solo scatenando un terremoto nel settore caseario ma finendo anche, inesorabilmente, per gettare ulteriori ombre sulla sicurezza alimentare nel Paese di Mezzo.
L’addio dell’audace giornalista, non a caso ribattezzato “la coscienza della Cina“, è giunta dopo il sospetto licenziamento di altri due pilastri dell’Oriental Daily, messi alla porta lo scorso 18 luglio per motivi non specificati. Si vocifera che le autorità non abbiano gradito l’intervista di maggio nella quale Sheng Hong, presidente del Tianze Economics Institute, aveva criticato apertamente il monopolio delle imprese statali e la politica dirigista messa in atto da Pechino.
Ricambi ai vertici anche per il News Express Daily – il quale, lo scorso 16 luglio, ha invitato alle dimissioni l’editor in chief per aver pubblicato contenuti “sensibili” non meglio specificati – e per l’Oriental Vanguard. Il 23 agosto l’organo di stampa della provincia orientale del Jiangsu ha visto cadere diverse teste a causa di un articolo su Liu Xiang, l’atleta cinese inciampato al primo ostacolo durante i Giochi di Londra, e su quella che è stata definita una debacle “annunciata” (“Liu Xiang knew, officiala knew, CCTV knew, only the audience was waiting vainly for the legendary moment“).
Il controllo del governo cinese sui mezzi d’informazione nel 2012 ha raggiunto proporzioni inusuali, stroncando sul nascere le speranze per una “primavera dei media cinesi“, commenta l’Atlantic. All’inizio dell’anno il People’s Daily, megafono del Partito comunista, aveva in più occasioni sottolineato la necessità di riforme (“anche su temi difficili e sensibili”) inducendo molti a credere in un allentamento della stretta delle autorità sugli organi di stampa. Ma l’ondata di ottimismo si è esaurita non appena ha cominciato a delinearsi sempre più chiaramente una strana dicotomia tra liberalizzazione dei media ufficiali e crescente oppressione sugli indipendenti. Secondo la rivista americana, tutti i professionisti del Nanfang Daily sono tenuti a rivelare ai superiori account e password di Weibo, il Twitter cinese.
Lo stridente contrasto tra sintomi di apertura e chiusura – commenta l’Atlantic – potrebbe riflettere l’intensa battaglia tra conservatori e liberali che, secondo diversi analisti, starebbe scuotendo il Pcc in vista del Diciottesimo Congresso, l’evento più importante dell’ultimo decennio che l’8 novembre sancirà il passaggio del testimone a una nuova generazione di leader. Negli ultimi mesi, il conto alla rovescia verso il cambio della guardia al vertice del potere politico è stato accompagnato da una serie di scandali, primo tra tutti quello che ad inizio anno ha travolto Bo Xilai, l’ex Segretario del Partito di Chongqing, sino a febbraio in lizza per uno dei seggi del Comitato permanente del Politburo, la stanza dei bottoni cinese. E ancora, solo nel mese scorso: l’improvvisa destituzione di Ling Jihua, uno degli uomini dell’attuale presidente Hu Jintao, dall’incarico di responsabile del dipartimento dell’Ufficio di amministrazione del Politburo – pare a causa della presunta morte del figlio, schiantatosi a marzo con la sua Ferrari mentre era impegnato in un gioco erotico al volante – e la sparizione misteriosa del vicepresidente e leader in pectore Xi Jinping, ricomparso in pubblico solo sabato 15 settembre dopo ben due settimane di assenza.
Date le circostanze attuali e la necessità di assicurare una transizione morbida del potere, la “stabilità sociale” rimane una priorità per Pechino. Da qui la decisione di eliminare qualsiasi notizia negativa ritenuta potenzialmente destabilizzante, stringendo le maglie della censura. Verso la metà di giugno il capo del Dipartimento per la propaganda, Li Changchun, ha chiamato a rapporto tutti i media: vietato diffondere cattive notizie, almeno fino al mese di ottobre, mentre il tema dominante dovrà essere quello del “decennio d’oro” ormai agli sgoccioli, targato Hu Jintao-Wen Jiabao. Il ritiro del permesso di lavoro sarà la punizione riservata ai trasgressori. Sebbene in un clima di maggior distensione, misure analoghe furono assunte nel 2002, quando le redini del paese passarono dalle mani di Jiang Zemin a quelli di Hu.
Jian Guangzhou è il terzo giornalista investigativo ad aver dato le dimissioni nell’ultimo anno. Lo scorso luglio Liu Jianfeng, noto per aver coperto la morte del dissidente Qian Yunhui e la rivolta di Wukan, ha abbandonato il suo posto presso la redazione dell’Economic Observer. Il novembre del 2011 Yang Haipeng, acclamato come uno dei migliori per quanto riguarda le questioni legali, ha lasciato la nota rivista Caijing, considerata autorevole anche all’estero per il suo impegno nel denunciare casi di corruzione governativa, frodi finanziarie e per aver portato allo scoperto il caso SARS.
Il senso di frustrazione alimentato dalla scarsa libertà di parola non è l’unica scintilla ad aver innescato la catena di dimissioni degli ultimi tempi. Secondo un rapporto citato dall’Atlantic, i timori per la propria sicurezza fisica in seguito a minacce e pestaggi sembrano aver indotto il 55% dei reporter d’assalto a prendere in considerazione l’idea di abbandonare la propria carriera entro i prossimi cinque anni.
Poco più di un anno fa il giornalista televisivo Li Xiang veniva freddato con 10 colpi di arma da taglio nei pressi della sua abitazione. Data la sparizione di portafogli, telecamera e portatile per la polizia locale si trattò di un semplice caso di furto, ma per molti Li avrebbe pagato cara la curiosità con la quale stava seguendo molto attivamente la questione degli scandali relativi alla vendita e al riutilizzo di olio di scolo.
Le cose non vanno poi tanto meglio nemmeno per la stampa straniera. Alcuni mesi fa ha fatto scalpore la chiusura dell’ufficio pechinese di Al Jazeera English, giunta forzatamente dopo che Melissa Chan, brillante e aggressiva corrispondente dell’emittente araba in Cina, non è riuscita ad ottenere il rinnovo del visto. Alla storia della Chan ha fatto seguito l’oscuramento del sito web dell’agenzia di stampa statunitense Bloomberg, autrice di uno scoop sulle attività finanziarie della famiglia di Xi Jinping. Questo e molto altro ha spinto il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ) a rivolgere un appello al Segretario di Stato americano Hillary Clinton – poco prima della sua visita nel Celeste Impero tenutasi il 4 e il 5 settembre – affinché sollevasse il problema libertà di stampa d’innanzi ai dirigenti del Partito. D’altra parte, il 20 agosto scorso i Club dei corrispondenti stranieri di Pechino, Shanghai e Hong Kong avevano già fatto sentire la loro voce diffondendo sul web una comunicazione congiunta nella quale venivano citati quattro casi di molestie ai danni di reporter internazionali. Uno dei più noti quello dell’inviato da Shanghai del quotidiano giapponese Asahi Shimbun, Atsuki Okudera, malmenato dalla polizia cinese il 28 luglio scorso mentre cercava di fotografare le proteste di Qidong.
Tra gli ultimi attriti Pechino – Comunità internazionale, da segnalare l’ondata di polemiche sollevatasi alla vigilia del vertice Cina/Ue del 20 settembre, a causa dell’annullamento dell’abituale conferenza stampa, tradizionalmente tenuta al termine del summit. L’Associazione della stampa internazionale (Api) ha scritto una lettera di fuoco al Consiglio e alla Commissione per protestare contro la richiesta di Pechino di avere una lista dei giornalisti partecipanti, in modo da poterne escludere quelli non graditi.
Una storia infinita
“Sapete perché la Cina non può diventare una potenza culturale? Perchè nella maggior parte dei nostri discorsi i leader vengono sempre prima, e i nostri leader sono tutti illetterati e spaventati dalla cultura. Il loro lavoro consiste nel censurare la cultura, così possono controllarla. Come può un tale paese diventare una potenza culturale?” Lo pensa Han Han, famoso scrittore-blogger, annoverato dal Time tra le personalità più influenti al mondo. “La Costituzione ci garantisce la libertà di stampa, ma la legge assicura ai leader la libertà di impedirci di esercitarla” ha dichiarato Han in un discorso tenuto nel 2010 presso l’Università di Xiamen.
Sono passati più di trent’anni da quando nella primavera del 1979, durante una Conferenza teorica presieduta da Hu Yaobang, al tempo direttore del Dipartimento di propaganda, si parlò dell’esigenza di rinnovare i mezzi di comunicazione cinesi. Renderli “più attivi e originali” per attrarre i lettori. Ma nel corso degli anni, ad alimentare il motore del cambiamento, è stata sempre la ricerca del vantaggio economico, così che lo svecchiamento di linguaggio e contenuti può essere visto come una conseguenza diretta delle novità apportate in ambito commerciale e finanziario. E anche dopo l’ingresso nel mercato delle principali testate ed emittenti cinesi avvenuto nel 2003, i media del Dragone, in realtà, continuano ad essere strettamente controllati dal potere politico.
Nell’ottobre 2002 un discorso tenuto dall’allora presidente Jiang Zemin durante il XVI Congresso del Pcc aveva posto ufficialmente l’industria culturale sotto l’egidia del Partito, separando le funzioni editoriali – sulle quali il governo continuava ad avere l’ultima parola – da quelle amministrative e gestionali aperte all’attività di investitori privati e stranieri. Di più: possibilità di quotazione in Borsa per tutti fuorché per il Quotidiano del popolo, il quale continuò a rimanere escluso dai meccanismi di mercato ricevendo solamente finanziamenti statali sino al 2010.
Ed è proprio presso la redazione del People’s Daily che nel giugno 2008, in occasione del sessantesimo dalla nascita del giornale, Hu Jintao tenne un monologo sul binomio organi d’informazione – società, pronunciando due frasi che avrebbero determinato la strategia mediatica adottata dal Pcc degli ultimi anni: “corretta guida dell’opinione pubblica” e “prendere l’iniziativa nel riportare le notizie” (riassunte nel concetto “incanalare l’opinione pubblica“) a sottolineare l’esigenza di armonizzare le notizie con le politiche di Partito. Una decisione maturata in seguito al disastro mediatico verificatosi nel 2003, durante l’epidemia di SARS, e proprio nel 2008 con le rivolte tibetane e le proteste internazionali durante il passaggio della fiaccola olimpica nel Vecchio Continente, in occasione dei Giochi di Pechino.
L’11 ottobre 2010 alcuni veterani del Partito quali Du Daozheng, redattore della rivista liberale Yanhuang Chunqiu ed ex direttore dell’Amministrazione generale della stampa e dell’editoria, Li Rui, ex segretario di Mao Zedong, Hu Jiwei, ex direttore del Quotidiano del Popolo, Li Pu, ex vicedirettore della Xinhua e Yu You, ex redattore capo del China Daily (insieme ad altri) firmarono una lettera indirizzata al Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo nella quale, appellandosi all’articolo 35 della Costituzione, richiedevano l’abolizione della censura su internet, la libera circolazione nella mainland di libri e periodici provenienti da Hong Kong e Macao nonché la riabilitazione dei “non detti” della storia, con conseguente ammissione degli errori commessi dal Partito.
“La fabbrica del consenso”
Una rete capillare di uffici e quadri preposti al lavoro di censura e propaganda controlla la circolazione delle informazioni. Più nello specifico: ogni organo mediatico viene supervisionato dal Dipartimento di propaganda del Partito attivo al proprio livello, mentre la Segreteria generale si occupa della diffusione di documenti e linee guida. Il semaforo verde alla trattazione di determinati argomenti arriva con la concessione di apposite licenze di pubblicazione. Primo comandamento: seguire quanto riportato dalla Xinhua, considerata alla stregua di un organo di Partito, e incaricata di traccia la strada maestra dalla quale è vietato deviare.
“Non esiste quindi, in Cina, un vero e proprio apparato di censura preventiva ma piuttosto una forma di ‘guida’ preventiva praticata attraverso regolamenti, discorsi dei leder, controllo del personale, gestione delle licenze, veline alle redazioni“, spiega la giornalista Emma Lupano nel suo libro “Ho servito il popolo cinese. Media e potere nella Cina di oggi”. Ad assicurare l’infallibilità del sistema, sembra strano ma è proprio l’autocensura, applicata ormai quasi automaticamente dai giornalisti stessi, consci di quali siano i limiti da non valicare. Gli “equilibristi della censura” sfoderano giochi di parole e, sfruttando la flessibilità della lingua cinese – come si è soliti dire prendendo in prestito una metafora tratta dal ping pong – “segnano punti sulla linea di fondo campo”. Comunque sia, un maggiore libertà viene assicurata ai giornali di nicchia, con divulgazione inferiore, mentre il Partito mostra maggior attenzione nei confronti delle testate più rinomate con diffusione a livello nazionale.
Capita a volte che qualcuno, insofferente verso le restrizioni, decida di prendere la porta. E’ il caso di Hu Shuli, che alla fine del 2009 scelse di abbandonare la blasonata rivista economica Caijing, da lei stessa fondata, seguendo altri 70 dirigenti, stanchi di sottostare alle richieste del Partito. Per la sua capacità di toccare tematiche sensibili senza valicare il confine proibito, Hu è stata soprannominata “donna più pericolosa della Cina“.
Ma, dunque, qual’è questo confine? In generale si può dire che la censura tollera insidiose ingerenze fino a livello locale, mentre non è consentito toccare i pezzi da novanta del Partito o gettare ombre sulla correttezza della linea della leadership. Il Ministero della Verità (termine con il quale il web ha ribattezzato l’ufficio della propaganda), inoltre, proibisce ai media locali di riportare notizie riguardanti province differenti dalla propria; una pratica che permetteva di aggirare la censura, dato lo scarso interesse del Dipartimento di propaganda locale nel mettere freno alle storie che non rientravano nella propria area geografica di controllo.
Dalla carta stampata passando per il piccolo schermo…
Nel mese di ottobre 2011, un nuovo regolamento emesso dall’Amministrazione Statale per la Radio, i Film e la Tv (ASRFT) ordinò il taglio di due terzi dei programmi di intrattenimento trasmessi sulle tv satellitari provinciali del Paese, così che oggi ogni canale può trasmettere solo due programmi di svago alla settimana, per un massimo di 90 minuti al giorno nella fascia oraria tra le 19.30 e le 22.00. Allo stesso tempo, tra le 6.00 e le 24.00 due ore devono essere dedicate ai notiziari, di cui almeno due edizioni da mezz’ora ciascuna tra le 18.00 e le 23.00. Il tutto con lo scopo di “promuovere le virtù tradizionali e i valori centrali del socialismo“, come stabilito dalla riforma del sistema culturale lanciata durante la riunione Plenaria del Comitato centrale del Pcc, nell’ottobre 2011.
Quanto può essere importante il controllo sul piccolo schermo lo rivelano i numeri. La TV cinese è quella che vanta il più grande pubblico al mondo, con un’audience domestica che rappresenta il 35% di quella globale. Data la vasta diffusione del mezzo, in grado di raggiungere anche le zone più remote della Cina e gli strati sociali più bassi, poco avvezzi alla carta stampata, la televisione rappresenta per il Partito “il mezzo più efficace e cruciale per la costruzione del consenso” (Lupano, 2012 p.95). Di conseguenza le antenne paraboliche, che permetterebbero l’accesso ad un vasto numero di canali stranieri (potenzialmente forieri di notizie scomode per Pechino) sono ufficialmente bandite dal Paese, sebbene siano in molti a possederne una di straforo. Nel corso degli anni le autorità hanno pubblicato a più riprese direttive e regolamenti volti ad evitare la diffusione di contenuti “volgari” o “sensibili”, come nel caso del tema dell’omosessualità, che nella Repubblica popolare viene ancora considerato tabù e filtra per lo più attraverso i canali di Hong Kong.
L’emittente statale CCTV, l’equivalente sul piccolo schermo del Quotidiano del Popolo, è una suddivisione della ASRFT e pertanto non gode dell’indipendenza editoriale. Trasmette in 120 paesi, raggiungendo circa cento milioni di spettatori ed è il cavallo di battaglia del soft power cinese, attraverso il quale il Dragone vuole esportare la propria cultura oltreconfine. L’austerità che caratterizza il notiziario CCTV News – per molti – è da attribuirsi alla sua posizione di prime time, quando l’occhio della censura è più vigile, mentre in seconda serata i palinsesti si fanno più disinvolti.
…sino al Controllo 2.0
Lo chiamano Great Firewall, è costato l’equivalente di 650 milioni di euro ed è il principale mezzo di controllo 2.0 di cui si avvale il Dragone. Un sistema che provvede a filtrare siti e parole, bloccando quelli sgraditi al governo cinese. Ma nulla di insormontabile. Il bavaglio imposto dalle autorità è facilmente aggirabile attraverso l’uso di vpn e proxy, mentre il popolo del web (che in Cina conta più di 500 milioni di citizen) ha saputo dare sfogo a tutta la propria creatività coniando parole in codice per smarcarsi dai divieti.
Il 16 dicembre 2011 il governo municipale di Pechino rese noto un provvedimento in base al quale tutti gli utenti di Internet – società comprese – devono effettuare la registrazione sui siti di microblogging utilizzando il loro vero nome. Poiché Pechino ospita i gestori delle principali piattaforme di microblogging, di fatto, le nuove norme diramate dalla capitale coinvolsero ben presto tutta la Cina.
La notizia non fece che confermare una tendenza osservata da diverso tempo e in acceleramento dalla primavera 2011, quando il profumo dei “gelsomini” arabi valicò la Grande Muraglia: il governo cinese continua a stringere la morsa sui principali mezzi di divulgazione dell’opinione pubblica, da Internet ai media ufficiali, con occhio particolarmente attento verso il brulicante mondo dei social network e dei microblog. E lo fa con ancora maggior solerzia da quando – come detto sopra - la riunione plenaria del comitato centrale del Partito, lo scorso autunno, diede il via alla “wenhua tizhi gaige”, la riforma del sistema culturale che, tra nuovi e più rigidi regolamenti sui palinsesti televisivi, richiami all’ordine rivolti al mondo della carta stampata e un più severo monitoraggio del web, ha lo scopo di ricondurre la cultura sulla retta via dei dogmi socialisti.
Un episodio in particolare mise in allarme il governo centrale: lo scontro tra due treni sulla linea ad alta velocità Pechino-Shanghai, fresca di inaugurazione, il 23 luglio 2011 costò la vita a 40 persone causando il ferimento di altre 200. Nei dieci giorni successivi all’incidente, oltre 10 milioni di post infuocarono il web cinese, dando sfogo alla rabbia dei netizen, dubbiosi circa la sicurezza della linea e la reale prontezza dei soccorsi. Il 29 luglio il Dipartimento di propaganda intimò a tutti i media, dalla Tv alla stampa, ai siti internet di non occuparsi del caso, limitandosi a riproporre le informazioni emesse dalle autorità.
Ed è così nell’agosto 2011 è stata avviata, non del tutto inaspettatamente, una campagna contro i rumors, guidata da un network di microblogger (teoricamente “indipendenti”) decisi a purificare la rete da notizie false e dicerie infondate. A gettare ombre sulla reale spontaneità del movimento le lodi di Pechino, alle quali ha dato, immancabilmente, voce il People’s Daily con un editoriale del 10 agosto. Non sarebbe, d’altra parte, il primo caso in cui è proprio il governo cinese a muovere i fili dei paladini del web. Dal 2004, infatti, un esercito di smanettoni prezzolati da Pechino, chiamato “partito dei 50 centesimi“, si occupa di pubblicare online commenti favorevoli al Partito, secondo i dogmi imposti dal Ministero della Verità. Il tutto per 50 centesimi di renminbi a post.
Il controllo esasperato della rete, negli ultimi tempi, è sfociato in un serrato giro di vite, segno evidente del nervosismo serpeggiante tra la leadership cinese in un momento di delicata transizione. All’inizio del “caso Bo Xilai” – arricchito di un’ipotesi golpe avanzata proprio dalla rete – le autorità preferirono mantenere il silenzio piuttosto che rispondere con chiarimenti o smentite. Nessuna spiegazione ufficiale, ma la necessità di mettere fine alle congetture di Internet, tra marzo e aprile, portò all’arresto di almeno 6 persone, alla chiusura di circa una quarantina di siti web, nonché alla rimozione di oltre 210 mila post.
I numeri del 2012 sono già da capogiro. Secondo Global Voices, dall’inizio dell’anno il sistema online di pubblica sicurezza della municipalità di Pechino ha proceduto all’eliminazione di 366mila informazioni sul web, punendo 7549 società di internet e mettendo in manette più di 5007 internauti sospettati di crimini, dal commercio illegale alla diffusione di rumors e attacchi alle autorità (dati di fine luglio).
Tra le ultime vittime della mordacchia cinese l’ex-professore di giornalismo, Jiao Guobiao, noto oppositore del Pcc – secondo quanto riportato dal South China Morning Post – preso in consegna il 12 settembre dalle forze dell’ordine dopo aver pubblicato sul suo blog due lettere sarcastiche, indirizzate una al governatore di Tokyo, Shintaro Ishihara, e l’altra al presidente taiwanese Ma Ying-Jeou. I messaggi contenevano una critica serrata contro Pechino (che “viola volontariamente la libertà e i diritti dei cittadini), con riferimento al braccio di ferro tra Cina, Giappone e Taiwan per la sovranità sulle isole contese Diaoyu/Senkaku.
Se, quindi, da una parte Internet rappresenta un fattore destabilizzante per le autorità cinesi – data la rapidità con la quale vengono messe in giro voci scomode e portati alla luce scandali e casi di corruzione – dall’altra costituisce uno strumento di controllo attraverso il quale Pechino può monitorare gli umori del popolo. E fare il proprio gioco: pare che il 2011 sia stata l’anno dei microblog governativi, tanto che nel mese di novembre su Sina Weibo si contavano già 20 mila account facenti capo a ministeri, enti e uffici locali, agenzie governati, in uno sfoggio di ostentata “trasparenza” nei rapporti tra autorità e cittadini.
Una “fabbrica del consenso” ben funzionante, tanto che a quanto pare il sistema di controllo 2.0 “alla cinese” sta facendo scuola tra i regimi più autoritari del globo. Lo riporta un recente studio di Freedom House – Ong americana che effettua ricerche su democrazia, libertà e diritti umani – secondo la quale società di telecomunicazioni e squadre di esperti cinesi sono stati invitati in Etiopia, Libia, Iran, Sri Lanka e Zimbawe per insegnare le loro tecniche di censura e monitoraggio del web. Ma anche per rivelare come realizzare attacchi informatici contro i paesi avversari.
(Scritto per Uno sguardo al femminile)
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