giovedì 18 ottobre 2012
Ombre cinesi sul Continente nero
Un ragazzo di 16 anni morto sotto i colpi della polizia locale e un altro centinaio di cittadini cinesi finiti in manette. E' il bilancio dell'ultima retata messa in atto dalle autorità del Ghana sulla pista delle miniere d'oro illegali, nei pressi di Kumasi, seconda città del Paese. Solo il mese scorso altri 40 cinesi erano stati arrestati, di cui 38 deportati, in un giro di vite che punta i riflettori su una diaspora che sta assumendo sempre più i connotati della colonizzazione. Tra inchieste su episodi di corruzione miliardari e presunti abusi ai danni dei dipendenti locali da parte dei signorotti cinesi, i segni della tensione tra i due Paesi sono ben visibili e prendono voce attraverso l'insofferenza degli abitanti della zona. "I cinesi hanno distrutto la nostra terra e il nostro fiume, si sono insediati con i loro pick-up e le loro armi, una valanga di armi" commentava lo scorso mese ai microfoni di Bloomberg, Marxwell Owusu, capo di Manso, villaggio nella regione centrale di Ashanti.
Con la crisi dell'Eurozona e l'aumento dei prezzi dell'oro, il Ghana si è trovato a dover far fronte ad un flusso massiccio di piccoli minatori clandestini in arrivo dal Regno di Mezzo, equipaggiati di macchinari che gli abitanti del posto dicono di non potersi permettere. Le operazioni di estrazione stanno alimentando le preoccupazioni per i danni ambientali in Africa, il secondo produttore di oro al mondo, mentre monta la rabbia dei ghanesi per essersi all'improvviso ritrovati nel cortile di casa i bulldozer "made in China". "Il coinvolgimento dei cinesi ha cambiato le dinamiche di sfruttamento su scala ridotta" ha spiegato Toni Aubynn, presidente del Ghana Chamber of Mines, sottolineando come l'impiego di macchinari pesanti abbia avuto un impatto ambientale enorme.
D'altra parte, per quanto incombente, la presenza del Dragone nella Repubblica africana ha innescato scambi virtuosi a nove zeri. Il commercio bilaterale tra i due Paesi è passato dai 2 miliardi del 2010 agli oltre 3 miliardi di dollari dello scorso anno, come si legge sul sito web dell'Ambasciata cinese della capitale Accra.
E se in Ghana Pechino ha messo gli occhi sulle risorse minerarie, in Tanzania la China Communication Construction Company Ltd. (CCCC), colosso cinese di proprietà statale, dal 2001 ad oggi ha firmato accordi per un valore complessivo di 247 milioni di dollari, destinati alla realizzazione di strade, ponti e porti. E lo ha fatto riuscendo ad integrare la propria attività nella società autoctona, assumendo lavoratori locali: ben 3.200 contro i 180 giunti dalla Cina. Una decisione presa -secondo il direttore generale dell'ufficio locale dell'azienda, Pei Yan- a causa delle difficoltà di ambientamento incontrate dagli operai cinesi, nonché al fine di offrire opportunità di lavoro anche alla gente del posto. Perché assumersi la propria responsabilità verso la società locale "è un dovere per le compagnie cinesi" ha sentenziato Shi Yong, rappresentante della Sinohydro Corporation Ltd., attore importante nel mercato dell'energia idroelettrica che ha dato un impiego ad oltre 3600 tanzaniani.
In Tanzania il numero degli imprenditori dell'ex Impero Celeste è schizzato dai 300 del 2002 ai 30.000 del 2012, così da aver indotto alcuni lungimiranti uomini d'affari cinesi a fondare la Chinese Business Chamber of Tanzania, un'organizzazione che oggi conta oltre mille imprenditori e funge da canale tra imprese d'oltre Muraglia e governo locale. Oltre a monitorare la qualità dei prodotti venduti e scongiurare il problema della contraffazione.
Ma non è tutto oro quel che luccica e l'ombra del gigante asiatico proietta in Africa un complesso intreccio di interessi economici, ambizioni espansionistiche e "scopi umanitari". Tanto che oggi la Cina, pur definendosi "il più grande Paese in via di sviluppo", è anche uno dei "principali donatori" nel panorama della cooperazione internazionale. Lo scorso luglio Pechino ha ospitato il quinto Forum On China-Africa Cooperation in occasione del quale il governo cinese ha promesso nuovi prestiti di natura concessionale per 20 milioni di dollari nel corso del prossimo triennio (il doppio rispetto a quanto stanziato durante il Focac del 2009). Ma sebbene non siano stati forniti dettagli sulle condizioni dei finanziamenti, la maggior parte dei prestiti erogati dallo Stato cinese non rispetta le linee guida delineate dall'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), della quale la Cina, per altro, non fa parte. D'altronde -come spiega Africa Report- a poco servirebbero gli aiuti del Dragone per far fronte ad un deficit infrastrutturale che, secondo le stime della Banca Mondiale (BM), richiederebbe 37 miliardi di dollari all'anno per essere colmato.
Negli ultimi tempi la "generosità" di Pechino ha richiamato l'attenzione della BM e del Fondo monetario internazionale (Fmi). Proprio nel mese d'aprile, il Fmi fece saltare un accordo da 3 miliardi di dollari tra il Ghana e la China Development Bank, poiché in contrasto con le linee guida che vietano ai Paesi a reddito medio di concedere finanziamenti non concessionali per somme superiori agli 800 milioni di dollari l'anno. Ma c'è dell'altro. Pare che adesso a fare la voce grossa siano proprio i Paesi africani. Oltre all'appello lanciato in occasione del summit dal ministro degli Esteri dello Zambia, favorevole ad un fronte panafricano per strappare accordi più vantaggiosi al Dragone, sempre nel mese di luglio il governo nigeriano si apprestava a rinegoziare i termini del prestito da 980 milioni dollari, concesso dalla China Exim Bank, affinché il tasso d'interesse non superasse il 2%. Primo sintomo di una presenza più solida del Continente nero al tavolo dei negoziati, da sempre dominato dalla Cina.
Secondo un articolo pubblicato alla fine del 2011 sul sito di The Beijing Axis, agenzia leader di consulenza per le imprese, solo il 50% delle società cinesi ha ottenuto appalti nel campo delle infrastrutture attraverso gare pubbliche, mentre il 40% ci è arrivato grazie a prestiti, concessioni e altre vie traverse nelle quali il governo di Pechino ricopre un ruolo chiave. "Gli scambi commerciali tra la Cina e l’Africa -in impennata tra il 2000 e il 2008 (anno in cui hanno superato i 100 miliardi di dollari)- evidenziano uno squilibrio crescente in favore del Dragone", ha commentato Robert Schuman, Research Fellow presso l'Istituto Universitario Europeo, "mentre la struttura dell’interscambio non consente ai Paesi africani di ridurre la propria dipendenza cronica dalle esportazioni di materie prime." Che pesano per circa il 92% del totale.
(Scritto per Ghigliottina.it)
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