mercoledì 3 ottobre 2012
Libertà di stampa "con caratteristiche cinesi"
Aspettando il 18esimo Congresso
“Questi dieci anni con l’Oriental Daily sono stati i più preziosi della mia vita, mi hanno dato tutta la tristezza e la felicità, tutti i sogni. Ho sofferto e sopportato ogni cosa per inseguire un sogno. E ora che quel sogno è morto ho deciso di andarmene. Fate attenzione compagni!” Con queste poche parole Jian Guangzhou, uno dei giornalisti investigativi più famosi della Cina ha messo un punto alla sua carriera di reporter. Un tweet su Sina Weibo, piattaforma di microblogging in salsa di soia, rivela la frustrazione e la disperazione dietro alla sua scelta. Un addio al mondo del giornalismo che giunge a quattro anni dall’inchiesta che lo portò sulla cresta dell’onda.
L’11 settembre 2008 l’ex penna dell’Oriental Daily, una delle testate più liberali d’oltre muraglia con base a Shanghai, aveva fatto luce sullo scandalo del latte in polvere alla melamina e sulle conseguenze disastrose che tale sostanza aveva avuto sulla salute di circa 40.000 bambini cinesi. Nel mirino di Jian finirono la Sanlu così come molti altri grandi marchi dell’industria del latte, non solo scatenando un terremoto nel settore caseario ma finendo anche, inesorabilmente, per gettare ulteriori ombre sulla sicurezza alimentare nel Paese di Mezzo.
L’addio dell’audace giornalista, non a caso ribattezzato “la coscienza della Cina“, è giunta dopo il sospetto licenziamento di altri due pilastri dell’Oriental Daily, messi alla porta lo scorso 18 luglio per motivi non specificati. Si vocifera che le autorità non abbiano gradito l’intervista di maggio nella quale Sheng Hong, presidente del Tianze Economics Institute, aveva criticato apertamente il monopolio delle imprese statali e la politica dirigista messa in atto da Pechino.
Ricambi ai vertici anche per il News Express Daily – il quale, lo scorso 16 luglio, ha invitato alle dimissioni l’editor in chief per aver pubblicato contenuti “sensibili” non meglio specificati – e per l’Oriental Vanguard. Il 23 agosto l’organo di stampa della provincia orientale del Jiangsu ha visto cadere diverse teste a causa di un articolo su Liu Xiang, l’atleta cinese inciampato al primo ostacolo durante i Giochi di Londra, e su quella che è stata definita una debacle “annunciata” (“Liu Xiang knew, officiala knew, CCTV knew, only the audience was waiting vainly for the legendary moment“).
Il controllo del governo cinese sui mezzi d’informazione nel 2012 ha raggiunto proporzioni inusuali, stroncando sul nascere le speranze per una “primavera dei media cinesi“, commenta l’Atlantic. All’inizio dell’anno il People’s Daily, megafono del Partito comunista, aveva in più occasioni sottolineato la necessità di riforme (“anche su temi difficili e sensibili”) inducendo molti a credere in un allentamento della stretta delle autorità sugli organi di stampa. Ma l’ondata di ottimismo si è esaurita non appena ha cominciato a delinearsi sempre più chiaramente una strana dicotomia tra liberalizzazione dei media ufficiali e crescente oppressione sugli indipendenti. Secondo la rivista americana, tutti i professionisti del Nanfang Daily sono tenuti a rivelare ai superiori account e password di Weibo, il Twitter cinese.
Lo stridente contrasto tra sintomi di apertura e chiusura – commenta l’Atlantic – potrebbe riflettere l’intensa battaglia tra conservatori e liberali che, secondo diversi analisti, starebbe scuotendo il Pcc in vista del Diciottesimo Congresso, l’evento più importante dell’ultimo decennio che l’8 novembre sancirà il passaggio del testimone a una nuova generazione di leader. Negli ultimi mesi, il conto alla rovescia verso il cambio della guardia al vertice del potere politico è stato accompagnato da una serie di scandali, primo tra tutti quello che ad inizio anno ha travolto Bo Xilai, l’ex Segretario del Partito di Chongqing, sino a febbraio in lizza per uno dei seggi del Comitato permanente del Politburo, la stanza dei bottoni cinese. E ancora, solo nel mese scorso: l’improvvisa destituzione di Ling Jihua, uno degli uomini dell’attuale presidente Hu Jintao, dall’incarico di responsabile del dipartimento dell’Ufficio di amministrazione del Politburo – pare a causa della presunta morte del figlio, schiantatosi a marzo con la sua Ferrari mentre era impegnato in un gioco erotico al volante – e la sparizione misteriosa del vicepresidente e leader in pectore Xi Jinping, ricomparso in pubblico solo sabato 15 settembre dopo ben due settimane di assenza.
Date le circostanze attuali e la necessità di assicurare una transizione morbida del potere, la “stabilità sociale” rimane una priorità per Pechino. Da qui la decisione di eliminare qualsiasi notizia negativa ritenuta potenzialmente destabilizzante, stringendo le maglie della censura. Verso la metà di giugno il capo del Dipartimento per la propaganda, Li Changchun, ha chiamato a rapporto tutti i media: vietato diffondere cattive notizie, almeno fino al mese di ottobre, mentre il tema dominante dovrà essere quello del “decennio d’oro” ormai agli sgoccioli, targato Hu Jintao-Wen Jiabao. Il ritiro del permesso di lavoro sarà la punizione riservata ai trasgressori. Sebbene in un clima di maggior distensione, misure analoghe furono assunte nel 2002, quando le redini del paese passarono dalle mani di Jiang Zemin a quelli di Hu.
Jian Guangzhou è il terzo giornalista investigativo ad aver dato le dimissioni nell’ultimo anno. Lo scorso luglio Liu Jianfeng, noto per aver coperto la morte del dissidente Qian Yunhui e la rivolta di Wukan, ha abbandonato il suo posto presso la redazione dell’Economic Observer. Il novembre del 2011 Yang Haipeng, acclamato come uno dei migliori per quanto riguarda le questioni legali, ha lasciato la nota rivista Caijing, considerata autorevole anche all’estero per il suo impegno nel denunciare casi di corruzione governativa, frodi finanziarie e per aver portato allo scoperto il caso SARS.
Il senso di frustrazione alimentato dalla scarsa libertà di parola non è l’unica scintilla ad aver innescato la catena di dimissioni degli ultimi tempi. Secondo un rapporto citato dall’Atlantic, i timori per la propria sicurezza fisica in seguito a minacce e pestaggi sembrano aver indotto il 55% dei reporter d’assalto a prendere in considerazione l’idea di abbandonare la propria carriera entro i prossimi cinque anni.
Poco più di un anno fa il giornalista televisivo Li Xiang veniva freddato con 10 colpi di arma da taglio nei pressi della sua abitazione. Data la sparizione di portafogli, telecamera e portatile per la polizia locale si trattò di un semplice caso di furto, ma per molti Li avrebbe pagato cara la curiosità con la quale stava seguendo molto attivamente la questione degli scandali relativi alla vendita e al riutilizzo di olio di scolo.
Le cose non vanno poi tanto meglio nemmeno per la stampa straniera. Alcuni mesi fa ha fatto scalpore la chiusura dell’ufficio pechinese di Al Jazeera English, giunta forzatamente dopo che Melissa Chan, brillante e aggressiva corrispondente dell’emittente araba in Cina, non è riuscita ad ottenere il rinnovo del visto. Alla storia della Chan ha fatto seguito l’oscuramento del sito web dell’agenzia di stampa statunitense Bloomberg, autrice di uno scoop sulle attività finanziarie della famiglia di Xi Jinping. Questo e molto altro ha spinto il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ) a rivolgere un appello al Segretario di Stato americano Hillary Clinton – poco prima della sua visita nel Celeste Impero tenutasi il 4 e il 5 settembre – affinché sollevasse il problema libertà di stampa d’innanzi ai dirigenti del Partito. D’altra parte, il 20 agosto scorso i Club dei corrispondenti stranieri di Pechino, Shanghai e Hong Kong avevano già fatto sentire la loro voce diffondendo sul web una comunicazione congiunta nella quale venivano citati quattro casi di molestie ai danni di reporter internazionali. Uno dei più noti quello dell’inviato da Shanghai del quotidiano giapponese Asahi Shimbun, Atsuki Okudera, malmenato dalla polizia cinese il 28 luglio scorso mentre cercava di fotografare le proteste di Qidong.
Tra gli ultimi attriti Pechino – Comunità internazionale, da segnalare l’ondata di polemiche sollevatasi alla vigilia del vertice Cina/Ue del 20 settembre, a causa dell’annullamento dell’abituale conferenza stampa, tradizionalmente tenuta al termine del summit. L’Associazione della stampa internazionale (Api) ha scritto una lettera di fuoco al Consiglio e alla Commissione per protestare contro la richiesta di Pechino di avere una lista dei giornalisti partecipanti, in modo da poterne escludere quelli non graditi.
Una storia infinita
“Sapete perché la Cina non può diventare una potenza culturale? Perchè nella maggior parte dei nostri discorsi i leader vengono sempre prima, e i nostri leader sono tutti illetterati e spaventati dalla cultura. Il loro lavoro consiste nel censurare la cultura, così possono controllarla. Come può un tale paese diventare una potenza culturale?” Lo pensa Han Han, famoso scrittore-blogger, annoverato dal Time tra le personalità più influenti al mondo. “La Costituzione ci garantisce la libertà di stampa, ma la legge assicura ai leader la libertà di impedirci di esercitarla” ha dichiarato Han in un discorso tenuto nel 2010 presso l’Università di Xiamen.
Sono passati più di trent’anni da quando nella primavera del 1979, durante una Conferenza teorica presieduta da Hu Yaobang, al tempo direttore del Dipartimento di propaganda, si parlò dell’esigenza di rinnovare i mezzi di comunicazione cinesi. Renderli “più attivi e originali” per attrarre i lettori. Ma nel corso degli anni, ad alimentare il motore del cambiamento, è stata sempre la ricerca del vantaggio economico, così che lo svecchiamento di linguaggio e contenuti può essere visto come una conseguenza diretta delle novità apportate in ambito commerciale e finanziario. E anche dopo l’ingresso nel mercato delle principali testate ed emittenti cinesi avvenuto nel 2003, i media del Dragone, in realtà, continuano ad essere strettamente controllati dal potere politico.
Nell’ottobre 2002 un discorso tenuto dall’allora presidente Jiang Zemin durante il XVI Congresso del Pcc aveva posto ufficialmente l’industria culturale sotto l’egidia del Partito, separando le funzioni editoriali – sulle quali il governo continuava ad avere l’ultima parola – da quelle amministrative e gestionali aperte all’attività di investitori privati e stranieri. Di più: possibilità di quotazione in Borsa per tutti fuorché per il Quotidiano del popolo, il quale continuò a rimanere escluso dai meccanismi di mercato ricevendo solamente finanziamenti statali sino al 2010.
Ed è proprio presso la redazione del People’s Daily che nel giugno 2008, in occasione del sessantesimo dalla nascita del giornale, Hu Jintao tenne un monologo sul binomio organi d’informazione – società, pronunciando due frasi che avrebbero determinato la strategia mediatica adottata dal Pcc degli ultimi anni: “corretta guida dell’opinione pubblica” e “prendere l’iniziativa nel riportare le notizie” (riassunte nel concetto “incanalare l’opinione pubblica“) a sottolineare l’esigenza di armonizzare le notizie con le politiche di Partito. Una decisione maturata in seguito al disastro mediatico verificatosi nel 2003, durante l’epidemia di SARS, e proprio nel 2008 con le rivolte tibetane e le proteste internazionali durante il passaggio della fiaccola olimpica nel Vecchio Continente, in occasione dei Giochi di Pechino.
L’11 ottobre 2010 alcuni veterani del Partito quali Du Daozheng, redattore della rivista liberale Yanhuang Chunqiu ed ex direttore dell’Amministrazione generale della stampa e dell’editoria, Li Rui, ex segretario di Mao Zedong, Hu Jiwei, ex direttore del Quotidiano del Popolo, Li Pu, ex vicedirettore della Xinhua e Yu You, ex redattore capo del China Daily (insieme ad altri) firmarono una lettera indirizzata al Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo nella quale, appellandosi all’articolo 35 della Costituzione, richiedevano l’abolizione della censura su internet, la libera circolazione nella mainland di libri e periodici provenienti da Hong Kong e Macao nonché la riabilitazione dei “non detti” della storia, con conseguente ammissione degli errori commessi dal Partito.
“La fabbrica del consenso”
Una rete capillare di uffici e quadri preposti al lavoro di censura e propaganda controlla la circolazione delle informazioni. Più nello specifico: ogni organo mediatico viene supervisionato dal Dipartimento di propaganda del Partito attivo al proprio livello, mentre la Segreteria generale si occupa della diffusione di documenti e linee guida. Il semaforo verde alla trattazione di determinati argomenti arriva con la concessione di apposite licenze di pubblicazione. Primo comandamento: seguire quanto riportato dalla Xinhua, considerata alla stregua di un organo di Partito, e incaricata di traccia la strada maestra dalla quale è vietato deviare.
“Non esiste quindi, in Cina, un vero e proprio apparato di censura preventiva ma piuttosto una forma di ‘guida’ preventiva praticata attraverso regolamenti, discorsi dei leder, controllo del personale, gestione delle licenze, veline alle redazioni“, spiega la giornalista Emma Lupano nel suo libro “Ho servito il popolo cinese. Media e potere nella Cina di oggi”. Ad assicurare l’infallibilità del sistema, sembra strano ma è proprio l’autocensura, applicata ormai quasi automaticamente dai giornalisti stessi, consci di quali siano i limiti da non valicare. Gli “equilibristi della censura” sfoderano giochi di parole e, sfruttando la flessibilità della lingua cinese – come si è soliti dire prendendo in prestito una metafora tratta dal ping pong – “segnano punti sulla linea di fondo campo”. Comunque sia, un maggiore libertà viene assicurata ai giornali di nicchia, con divulgazione inferiore, mentre il Partito mostra maggior attenzione nei confronti delle testate più rinomate con diffusione a livello nazionale.
Capita a volte che qualcuno, insofferente verso le restrizioni, decida di prendere la porta. E’ il caso di Hu Shuli, che alla fine del 2009 scelse di abbandonare la blasonata rivista economica Caijing, da lei stessa fondata, seguendo altri 70 dirigenti, stanchi di sottostare alle richieste del Partito. Per la sua capacità di toccare tematiche sensibili senza valicare il confine proibito, Hu è stata soprannominata “donna più pericolosa della Cina“.
Ma, dunque, qual’è questo confine? In generale si può dire che la censura tollera insidiose ingerenze fino a livello locale, mentre non è consentito toccare i pezzi da novanta del Partito o gettare ombre sulla correttezza della linea della leadership. Il Ministero della Verità (termine con il quale il web ha ribattezzato l’ufficio della propaganda), inoltre, proibisce ai media locali di riportare notizie riguardanti province differenti dalla propria; una pratica che permetteva di aggirare la censura, dato lo scarso interesse del Dipartimento di propaganda locale nel mettere freno alle storie che non rientravano nella propria area geografica di controllo.
Dalla carta stampata passando per il piccolo schermo…
Nel mese di ottobre 2011, un nuovo regolamento emesso dall’Amministrazione Statale per la Radio, i Film e la Tv (ASRFT) ordinò il taglio di due terzi dei programmi di intrattenimento trasmessi sulle tv satellitari provinciali del Paese, così che oggi ogni canale può trasmettere solo due programmi di svago alla settimana, per un massimo di 90 minuti al giorno nella fascia oraria tra le 19.30 e le 22.00. Allo stesso tempo, tra le 6.00 e le 24.00 due ore devono essere dedicate ai notiziari, di cui almeno due edizioni da mezz’ora ciascuna tra le 18.00 e le 23.00. Il tutto con lo scopo di “promuovere le virtù tradizionali e i valori centrali del socialismo“, come stabilito dalla riforma del sistema culturale lanciata durante la riunione Plenaria del Comitato centrale del Pcc, nell’ottobre 2011.
Quanto può essere importante il controllo sul piccolo schermo lo rivelano i numeri. La TV cinese è quella che vanta il più grande pubblico al mondo, con un’audience domestica che rappresenta il 35% di quella globale. Data la vasta diffusione del mezzo, in grado di raggiungere anche le zone più remote della Cina e gli strati sociali più bassi, poco avvezzi alla carta stampata, la televisione rappresenta per il Partito “il mezzo più efficace e cruciale per la costruzione del consenso” (Lupano, 2012 p.95). Di conseguenza le antenne paraboliche, che permetterebbero l’accesso ad un vasto numero di canali stranieri (potenzialmente forieri di notizie scomode per Pechino) sono ufficialmente bandite dal Paese, sebbene siano in molti a possederne una di straforo. Nel corso degli anni le autorità hanno pubblicato a più riprese direttive e regolamenti volti ad evitare la diffusione di contenuti “volgari” o “sensibili”, come nel caso del tema dell’omosessualità, che nella Repubblica popolare viene ancora considerato tabù e filtra per lo più attraverso i canali di Hong Kong.
L’emittente statale CCTV, l’equivalente sul piccolo schermo del Quotidiano del Popolo, è una suddivisione della ASRFT e pertanto non gode dell’indipendenza editoriale. Trasmette in 120 paesi, raggiungendo circa cento milioni di spettatori ed è il cavallo di battaglia del soft power cinese, attraverso il quale il Dragone vuole esportare la propria cultura oltreconfine. L’austerità che caratterizza il notiziario CCTV News – per molti – è da attribuirsi alla sua posizione di prime time, quando l’occhio della censura è più vigile, mentre in seconda serata i palinsesti si fanno più disinvolti.
…sino al Controllo 2.0
Lo chiamano Great Firewall, è costato l’equivalente di 650 milioni di euro ed è il principale mezzo di controllo 2.0 di cui si avvale il Dragone. Un sistema che provvede a filtrare siti e parole, bloccando quelli sgraditi al governo cinese. Ma nulla di insormontabile. Il bavaglio imposto dalle autorità è facilmente aggirabile attraverso l’uso di vpn e proxy, mentre il popolo del web (che in Cina conta più di 500 milioni di citizen) ha saputo dare sfogo a tutta la propria creatività coniando parole in codice per smarcarsi dai divieti.
Il 16 dicembre 2011 il governo municipale di Pechino rese noto un provvedimento in base al quale tutti gli utenti di Internet – società comprese – devono effettuare la registrazione sui siti di microblogging utilizzando il loro vero nome. Poiché Pechino ospita i gestori delle principali piattaforme di microblogging, di fatto, le nuove norme diramate dalla capitale coinvolsero ben presto tutta la Cina.
La notizia non fece che confermare una tendenza osservata da diverso tempo e in acceleramento dalla primavera 2011, quando il profumo dei “gelsomini” arabi valicò la Grande Muraglia: il governo cinese continua a stringere la morsa sui principali mezzi di divulgazione dell’opinione pubblica, da Internet ai media ufficiali, con occhio particolarmente attento verso il brulicante mondo dei social network e dei microblog. E lo fa con ancora maggior solerzia da quando – come detto sopra - la riunione plenaria del comitato centrale del Partito, lo scorso autunno, diede il via alla “wenhua tizhi gaige”, la riforma del sistema culturale che, tra nuovi e più rigidi regolamenti sui palinsesti televisivi, richiami all’ordine rivolti al mondo della carta stampata e un più severo monitoraggio del web, ha lo scopo di ricondurre la cultura sulla retta via dei dogmi socialisti.
Un episodio in particolare mise in allarme il governo centrale: lo scontro tra due treni sulla linea ad alta velocità Pechino-Shanghai, fresca di inaugurazione, il 23 luglio 2011 costò la vita a 40 persone causando il ferimento di altre 200. Nei dieci giorni successivi all’incidente, oltre 10 milioni di post infuocarono il web cinese, dando sfogo alla rabbia dei netizen, dubbiosi circa la sicurezza della linea e la reale prontezza dei soccorsi. Il 29 luglio il Dipartimento di propaganda intimò a tutti i media, dalla Tv alla stampa, ai siti internet di non occuparsi del caso, limitandosi a riproporre le informazioni emesse dalle autorità.
Ed è così nell’agosto 2011 è stata avviata, non del tutto inaspettatamente, una campagna contro i rumors, guidata da un network di microblogger (teoricamente “indipendenti”) decisi a purificare la rete da notizie false e dicerie infondate. A gettare ombre sulla reale spontaneità del movimento le lodi di Pechino, alle quali ha dato, immancabilmente, voce il People’s Daily con un editoriale del 10 agosto. Non sarebbe, d’altra parte, il primo caso in cui è proprio il governo cinese a muovere i fili dei paladini del web. Dal 2004, infatti, un esercito di smanettoni prezzolati da Pechino, chiamato “partito dei 50 centesimi“, si occupa di pubblicare online commenti favorevoli al Partito, secondo i dogmi imposti dal Ministero della Verità. Il tutto per 50 centesimi di renminbi a post.
Il controllo esasperato della rete, negli ultimi tempi, è sfociato in un serrato giro di vite, segno evidente del nervosismo serpeggiante tra la leadership cinese in un momento di delicata transizione. All’inizio del “caso Bo Xilai” – arricchito di un’ipotesi golpe avanzata proprio dalla rete – le autorità preferirono mantenere il silenzio piuttosto che rispondere con chiarimenti o smentite. Nessuna spiegazione ufficiale, ma la necessità di mettere fine alle congetture di Internet, tra marzo e aprile, portò all’arresto di almeno 6 persone, alla chiusura di circa una quarantina di siti web, nonché alla rimozione di oltre 210 mila post.
I numeri del 2012 sono già da capogiro. Secondo Global Voices, dall’inizio dell’anno il sistema online di pubblica sicurezza della municipalità di Pechino ha proceduto all’eliminazione di 366mila informazioni sul web, punendo 7549 società di internet e mettendo in manette più di 5007 internauti sospettati di crimini, dal commercio illegale alla diffusione di rumors e attacchi alle autorità (dati di fine luglio).
Tra le ultime vittime della mordacchia cinese l’ex-professore di giornalismo, Jiao Guobiao, noto oppositore del Pcc – secondo quanto riportato dal South China Morning Post – preso in consegna il 12 settembre dalle forze dell’ordine dopo aver pubblicato sul suo blog due lettere sarcastiche, indirizzate una al governatore di Tokyo, Shintaro Ishihara, e l’altra al presidente taiwanese Ma Ying-Jeou. I messaggi contenevano una critica serrata contro Pechino (che “viola volontariamente la libertà e i diritti dei cittadini), con riferimento al braccio di ferro tra Cina, Giappone e Taiwan per la sovranità sulle isole contese Diaoyu/Senkaku.
Se, quindi, da una parte Internet rappresenta un fattore destabilizzante per le autorità cinesi – data la rapidità con la quale vengono messe in giro voci scomode e portati alla luce scandali e casi di corruzione – dall’altra costituisce uno strumento di controllo attraverso il quale Pechino può monitorare gli umori del popolo. E fare il proprio gioco: pare che il 2011 sia stata l’anno dei microblog governativi, tanto che nel mese di novembre su Sina Weibo si contavano già 20 mila account facenti capo a ministeri, enti e uffici locali, agenzie governati, in uno sfoggio di ostentata “trasparenza” nei rapporti tra autorità e cittadini.
Una “fabbrica del consenso” ben funzionante, tanto che a quanto pare il sistema di controllo 2.0 “alla cinese” sta facendo scuola tra i regimi più autoritari del globo. Lo riporta un recente studio di Freedom House – Ong americana che effettua ricerche su democrazia, libertà e diritti umani – secondo la quale società di telecomunicazioni e squadre di esperti cinesi sono stati invitati in Etiopia, Libia, Iran, Sri Lanka e Zimbawe per insegnare le loro tecniche di censura e monitoraggio del web. Ma anche per rivelare come realizzare attacchi informatici contro i paesi avversari.
(Scritto per Uno sguardo al femminile)
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