mercoledì 26 febbraio 2014

Il peso della storia


Una data rimbalza da una parte all'altra dell'Asia: 1937. L'anno in cui, per l'improvviso allontanamento di un incauto soldato nipponico nei pressi di Wanping, prese il via la seconda guerra sino-giapponese. Alcuni mesi più tardi, la capitale della Cina nazionalista Nanchino cadeva nelle mani delle truppe dell'esercito imperiale giapponese divenendo scenario di violenze, stupri, saccheggi e incendi per sei settimane. Secondo le stime del Tribunale Militare Internazionale per l'Estremo Oriente, il numero complessivo di civili e prigionieri di guerra assassinati in quel breve arco di tempo supererebbe le 200.000 unità.

In Cina il massacro non è mai stato perdonato, e tutt'oggi il ricordo dell'efferatezza nipponica pesa sulle relazioni tra Pechino e Tokyo più di quanto non lo facciano le dispute territoriali. Le Diaoyu/Senkaku, un pugno di isolotti localizzati nel Mar cinese orientale conteso da Cina e Giappone, sembra rappresentare la scintilla di un rancore più profondo, che cova sotto le ceneri da decenni. Le motivazioni storiche sono più radicate della semplice brama per le risorse naturali nascoste nei fondali circostanti. "Sarebbe un'idiozia se i due Paesi stessero sollevando un tale polverone soltanto per un paio di scogli disabitati. Chiunque potrebbe avanzare pretese simili, senza in realtà rischiare poi molto, penso a Taiwan o agli Stati Uniti. Credo che la componente storica sia fondamentale, così come il riposizionamento nello scacchiere estremo-orientale " spiega all''Indro' Hans van de Ven, professore di storia moderna cinese presso l'Università di Cambridge "E' vero che nelle aree limitrofe vi sono ingenti risorse, ma è pur vero che potrebbero essere effettuate esplorazioni congiunte senza troppi problemi".

Negli ultimi tempi le vecchie ferite di guerra sono tornate a 'sanguinare' dopo che una serie di manovre nell'Asia-Pacifico hanno rischiato di far precipitare la situazione, innescando una tenzone verbale che -a colpi di accuse di nazismo/fascismo- ha visto partecipi i principali attori della regione: Cina, Giappone, ma anche Corea del Nord e Filippine. In principio fu la dichiarazione "unilaterale" da parte di Pechino di una ADIZ (Zona di identificazione aerea) nel Mar cinese orientale, che va ad abbracciare anche le isole contese. Poi la scena è stata tutta del Sol Levante: a dicembre la visita del Premier giapponese, Shinzo Abe, al controverso santuario Yakusuni -in cui riposano le spoglie degli eroi della patria, ma anche quelle di individui rubricati come 'criminali di classe A'- ha attirato sul Tokyo le critiche dei vicini asiatici, così come quelle dell'alleato americano, sempre più insofferente verso le prese di posizione dell'estrema-destra nipponica. Tra le iniziative ventilate dal governo giapponese vi sarebbe quella di rivedere il decennale divieto sull'export di armi e di modificare, a partire dal 2020, la Costituzione adottata al termine della Seconda Guerra Mondiale, che prevede il solo utilizzo di forze di Difesa Nazionale negando al Giappone il diritto di 'guerra' e di 'belligeranza'. A ciò si aggiunge la recente approvazione ad una revisione dei libri di testo con lo scopo di riabilitare alcune questioni storiche che fino ad oggi hanno dipinto il Sol Levante come il brutale perpetuatore di indicibili violenze; ed è così che il massacro di Nanchino e lo sfruttamento delle 'comfort women', schiave sessuali per i soldati imperiali, verrà riscritto ad uso e consumo del pubblico nipponico.

La posizione revisionista è stata abbracciata da diverse figure di spicco, tra le quali Hyakuta Naoki, membro del board dell'emittente giapponese NHK, responsabili di aver negato apertamente le devastazioni messe in atto dai giapponesi nella capitale della Cina nazionalista nel '37. Nonostante la posizione ufficiale sia quella di ammettere che «molte nazioni, sopratutto in Asia, hanno sofferto grandi pene per colpa nostra e che il governo riconosce ciò, così come lo ha fatto in passato, e continuerà a farlo in futuro», sono in molti a ritenere che il tempo delle scuse sia finito. Gli stretti sodali di Abe condividono un'agenda nazionalista che preme per una maggiore autonomia da Washington sul piano della difesa, e che rigetta l'interpretazione apologetica del peccato originale che incombe sul Giappone dai tempi della Seconda guerra mondiale.

Si tratta di una rinascita della Nazione per certi versi similare a quella racchiusa nel 'Sogno cinese' di Xi Jinping. Il cavallo di battaglia dell'uomo forte di Pechino, per quanto ancora vago, è per l'appunto quello di una palingenesi; o meglio un ritorno al passato glorioso dopo le umiliazione subite nell'800 ad opera delle potenze coloniali. In entrambi i Paesi, però, le direttive ufficiali rischiano di degenerare in pericolose interpretazioni personalistiche. Nel caso della Cina, le istanze più patriottiche hanno trovato terreno fertile tra le fila dell'esercito, da cui soffiano veri e propri venti di guerra, con il generale Liu Yazhou che in una recente intervista ha incitato a combattere per riportare i territori contesi sotto l'egemonia cinese. "Penso che i militari giochino un ruolo fondamentale nel revival nazionalista e che la leadership stia cercando di trovare una via d'uscita dal caos che si è creato", commenta van de Ven, il quale mette in dubbio la piena capacità di Xi -che è Presidente della repubblica polare, Segretario del Partito comunista ma anche Capo della Commissione militare centrale- di tenere a bada le frange più oltranziste.

L'afflato patriottico, in Cina, si è tradotto in una politica estera energica, nonché in una spesa per la Difesa seconda soltanto a quella americana; in Giappone, in un revisionismo storico dubbio e in un atteggiamento provocatorio che rischia di irritare Washington, legato a Tokyo da un 'Trattato di sicurezza' e la cui presenza nell'Asia-Pacifico si prevede andrà intensificandosi di pari passo con il ritiro dal Medio Oriente. Se, però, fino a poco tempo fa erano le manovre di Pechino a preoccupare maggiormente i Paesi limitrofi, coinvolti nelle varie controversie per la sovranità di alcuni territori nel Mar cinese (sopratutto Filippine, Malesia, Vietnam, Taiwan, Brunei), adesso le posizioni revisioniste della dirigenza nipponica potrebbero tramutarsi in una debacle d'immagine per il Sol Levante. Così, nonostante in occasione dell'Economic Forum di Davos Abe abbia cercato danneggiare la reputazione della Cina accostandola alla Germania guglielmina (già nel 2010 il Premier giapponese aveva tacciato Pechino di nazismo), il recente annuncio di una possibile revisione della Dichiarazione di Kono, contenete le scuse formali fatte dal Tokyo alle 'donne di conforto' nel 1993, non fa altro che tratteggiare l'immagine di un Giappone sempre più aggressivo. (Segue su L'Indro)


lunedì 24 febbraio 2014

Vita da rifugiati

Vivono ai margini della società, in condizioni di povertà e senza un lavoro. Sono i rifugiati di Hong Kong, cittadini perlopiù fuggiti da altri Paesi asiatici lacerati dalla guerra o stremati dalla carestia. Spesso vittime di torture, hanno raggiunto il Porto Profumato nella speranza di rifarsi una vita in uno dei paradisi economici d'Asia; il riparo amorevolmente dei perseguitati politici post-Tian'anmen. Ad accoglierli, invece, hanno trovato una doccia gelata.

Dopo la Seconda guerra mondiale, i rifugiati costituivano un terzo della popolazione dell'ex colonia britannica. L'isola fu più tardi scelta come riparo da centinaia di migliaia di reduci della guerra del Vietnam; un'invasione di massa ricordata tutt'ora con timore dagli hongkonghesi per le ripercussioni che ha avuto a livello sociale. Secondo le stime di UNHCR (L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), nel 2006 a Hong Kong vi erano ancora 1473 richiedenti asilo in attesa di un resposno, di cui 24,7% donne e il 23,9% bambini. Il 90% proviene dall'Asia meridionale (India, Pakistan, Sri Lanka, Indonesia, Filippine e Nepal), il 9% dall'Africa (Congo, Liberia..) e l'1% da altre parti del mondo.

Nonostante la Cina sia tra i Paesi firmatari della Convenzione di Ginevra del 1951, l'ex colonia britannica, in virtù della sua Basic Law, è rimasta svincolata dall'accordo anche dopo il ritorno alla madrepatria nel 1997. Il che di fatto la libera dall'obbligo legale di dover concedere asilo ai profughi. Il più delle volte il governo locale passa la patata bollente a l'UNHCR, affinché sia questo a occuparsi di trovar loro una sistemazione altrove. Il processo di reinsediamento può durare anche oltre un decennio. Stando a quanto riportato da RSD Watch, nel 2004, dei 798 casi passati in esame dal braccio locale dell'agenzia delle Nazioni Unite, soltanto il 18% è terminato con successo. E sebbene sia talvolta possibile presentare reclamo, la lunga fila d'attesa fa sì che a volte siano necessari parecchi anni perché un caso venga riesaminato.

Lo scorso luglio le autorità hanno dichiarato di voler cominciare ad affrontare personalmente il problema. 440 milioni di dollari di Hong Kong è il budget 2013-2014 stanziato per creare un sistema di gestione unificato, con l'intento di velocizzare i tempi d'attesa. Il denaro verrà utilizzato anche per i servizi e l'assistenza legale ai rifugiati. L'iniziativa, lodata dalla comunità internazionale, non è invece andata giù ai residenti, che, come emerge da un sondaggio realizzato dall''Oriental Daily', si sarebbero detti per la maggior parte contrari (uno schiacciante 76%). A pesare sarebbero ancora i ricordi vividi dell'esodo vietnamita, sostengono gli esperti.

In realtà, già nel 2004, costretto da una disposizione del tribunale, il governo locale aveva acconsentito a gestire direttamente i casi in cui i richiedenti avessero subito torture nel Paese di provenienza, sebbene nella realtà dei fatti sia avvenuto raramente. Nel 1992 Hong Kong ha sottoscritto la Convenzione contro la tortura ma, come mostrano i dati ufficiali, nel 2009 sono stati approvati soltanto nove casi del genere sui 3504 esaminati, ovvero lo 0,3%.

Intanto, mentre le autorità tentennano sul da farsi, i fuggiaschi continuano a vivere nella miseria, stipati nelle baracche alla periferia della città. Senza uno status giuridico, sopravvivono grazie ai sussidi il governo, che provvede alla distribuzione periodica di alimenti e a un indennizzo per l'affitto da 1500 dollari di Hong Kong (140,7 euro); una cifra irrisoria se si considerano i prezzi proibitivi dell'immobiliare locale. Ma ciò che è più allarmante, gli esuli sono privati del diritto al lavoro. Tecnicamente, l'amministrazione locale permette ai rifugiati di ottenere un impiego, previa approvazione del Dipartimento sull'Immigrazione. Ma ancora una volta i fatti smentiscono le buone intenzioni, con un'unica pratica accolta negli ultimi anni.

Proprio un paio di settimane fa, l'alta Corte di Hong Kong ha respinto all'unanimità un ricorso per il diritto al lavoro presentato da quattro fuggiaschi, andando a confermare la sentenza emessa nel 2012 da un tribunale di grado inferiore. Secondo quanto reso noto da Daly & Associates, lo studio legale incaricato di assisterli, tre dei quattro richiedenti soffrono di depressione o schizofrenia a causa dei traumi subiti in passato e per via dello stato indefinito in cui si trovano a vivere nella regione amministrativa speciale. Nel caso in cui venissero pizzicati a intraprendere un qualsiasi lavoro senza permesso, verrebbero sbattuti dietro le sbarre. (Segue su L'Indro)

mercoledì 19 febbraio 2014

Il Dragone delle nevi


Quando il 24 dicembre la nave russa Akademik Shokalskiy rimase intrappolata nei ghiacci dell'Antartide, i 52 passeggeri a bordo furono tratti in salvo diversi giorni dopo da un elicottero cinese. Nonostante Xue Long, la rompighiaccio battente bandiera rossa a cinque stelle, si fosse a sua volta incagliata, la presenza risolutrice di Pechino nel «salvataggio del secolo» aveva ormai inviato un chiaro messaggio: (nel 'continente bianco') la Cina c'è.

Eccome se c'è. La scorsa settimana il Dragone ha inaugurato la sua quarta stazione antartica, la Taishan, costruita in 53 giorni ad un altezza di 2600 metri per scopi scientifici. I lavori per una quinta verranno avviati il prossimo anno, portando Pechino a pari merito con Giappone, Germania e Italia e un soffio da Stati Uniti e Gran Bretagna, ormai a quota sei basi.

La Cina è in netto ritardo. Great Wall, la sua prima stazione antartica vide la luce soltanto nel 1985 sull'isola di Re Giorgio, sede già da decenni delle esplorazioni di Russia, Stati Uniti, Argentina e Regno Unito. Nel 1989 fu la volta di Zhongshan, eretta sulla colline di Larsemann, nell'Antartide orientale, e nel 2009 di Kulun, prima base cinese nell'entroterra del continente, arroccata sul Dome Argus, la massima elevazione del Plateu Antartico.

Parafrasando le parole di Qu Tanzhou, direttore della Chinese Arctic and Antarctic Administration, «come ultima arrivata, la Cina sta cercando di recuperare». E lo sta facendo ad una velocità che ricorda l'inseguimento cinese di Washington e Mosca nello spazio. Tra il 1985 e il 2012, il Dragone ha effettuato cinque spedizioni nell'Artico e ventotto nell'Antartide. Nelle ultime due decadi, la spesa destinata alla ricerca è schizzata da 20 milioni di dollari ai 55 milioni del 2012, circa tre volte quanto investito nella regione artica. Per non replicare la figuraccia di quel valoroso ma datato Xue Long, acquistato dall'Ucraina nel 1993, un accordo con la finlandese Aker Arctic Technology prevede, entro la fine dell'anno, la costruzione di una seconda rompighiaccio «più corta e dotata di lame sia a prua che a poppa, in grado di farsi largo tra lastre di ghiaccio spesse 1,5 metri».

Orgoglio nazionalista di un player sempre più assertivo sullo scacchiere internazionale, ma anche fame di risorse per saziare l'economia 'energivora' del Dragone, primo consumatore e primo importatore di risorse al mondo. Si stima che l'Antartide ospiti 'oro nero' per 40 miliardi di barili, oltre ad essere sede dei principali giacimenti di carbone e ferro del pianeta. Un tesoro oggi sepolto sotto una spessa massa di ghiaccio, ma che in futuro potrebbe essere liberato 'grazie' al riscaldamento globale. Un complesso risiko polare vede la Cina contrapporsi a Corea del Sud, India e Russia, che a differenza di Pechino hanno esplicitato in maniera diretta il loro interesse per le risorse minerarie dell'area, spiega all''Economist' Annie-Marie Brady, researcher presso il Wilson Centre di Washington. Un tempo il Polar Research Institute cinese era solito pubblicare sul suo sito una serie di mappe con su tracciata la posizione delle risorse energetiche della regione, comprese le riserve di petrolio a largo delle coste dell'Antartide. Poi, improvvisamente, sono state fatte sparire.

Il Trattato Antartico, firmato nel dicembre 1959 da dodici Paesi, e sottoscritto dalla Repubblica popolare soltanto nell''83 -dopo che la Guerra Fredda ne ebbe ritardato l'adesione-, identifica il 'continente bianco' tra i 'global common', ovvero quei beni che fanno parte del patrimonio dell'umanità indipendentemente dal fatto che siano localizzati all'interno di certi confini geografici o meno. Attraverso il Trattato i Paesi firmatari con rivendicazioni di sovranità territoriale hanno concordato di interrompere le loro richieste e di rinunciare allo sfruttamento economico o all'utilizzo del continente per scopi bellici. Nella realtà dei fatti, sette nazioni (Argentina, Australia, Cile, Francia, Nuova Zelanda, Norvegia e Regno Unito) continuano ad avanzare pretese territoriali su otto aree, principalmente, piazzando le loro installazioni scientifiche entro i confini reclamati. Allo stato attuale il Protocollo al Trattato Antartico sulla Sicurezza Ambientale (1991) vieta qualsiasi attività estrattiva, a meno che non sia giustificabile con scopi scientifici. Ma sono in molti a sperare in una svolta, quando nel 2048 il Protocollo verrà revisionato. Così chi è potenzialmente interessato alle ricche risorse della regione sta cercando di garantirsi un posto a sedere al tavolo dei negoziati. Come? Presentando le prove materiali del proprio contributo allo sviluppo scientifico del continente; la proliferazione di stazioni antartiche ne è la cartina di tornasole. (Segue su L'Indro)

lunedì 17 febbraio 2014

Hong Kong dice basta all'avorio


Hong Kong brucerà il 95 per cento delle sue riserve di avorio, uno dei bottini più ghiotti d'Asia pari a 32,6 tonnellate. L'operazione, che comincerà il prossimo giugno, durerà uno o due anni e viene incontro alle prolungate richieste da parte delle associazioni ambientaliste.
Secondo le stime del WWF (World Wildlife Fund), la Cina costituisce il principale mercato per il contrabbando di 'oro bianco', attraendo il 70 per cento dell'avorio mondiale. L'ex colonia britannica, grazie alla suo status di porto franco e alla sua collocazione privilegiata lungo la costa meridionale del Paese, ha sempre funto da punto di snodo per le zanne illegali in arrivo dall'Africa.

Soltanto tra gli ultimi tre mesi del 2012 e i primi tre del 2013, il porto Profumato ha confiscato oltre sei tonnellate di avorio per un valore di circa 50 milioni di dollari di Hong Kong (6,5 milioni di dollari americani). Il rapporto 'Elephants in the Dust, The African Elephants Crisis', realizzato dalla CITES (Convention on International Trade on Endangered Species), rivela che in Asia il numero dei sequestri su larga scala, ovvero superiori agli 800 chilogrammi, è raddoppiato rispetto al 2007 e triplicato dal 1998 a oggi, toccando un picco massimo nel 2011. Nel 2012 gli elefanti uccisi per alimentare il traffico di zanne illegali sono stati circa 22mila; ben 50mila lo scorso anno, secondo i numeri raccolti dall'organizzazione Hong Kong for Elephants. Una carneficina che si dice veda spesso protagonisti i miliziani arabi janjawid e il gruppo terroristico somalo al-Shabaab.

Il contrabbando di 'oro bianco' è stato dichiarato illegale nel 1989, dopo che la popolazione mondiale di pachidermi è precipitata in maniera drastica. A metà del Ventesimo secolo si contavano ancora milioni di esemplari, oggi nel Continente Nero pare ne siano rimasti tra i 420mila e i 650mila. Nonostante il divieto internazionale, vendite legali di prodotti in avorio sono ancora frequenti negli Stati Uniti, così come nell'ex Impero Celeste. Nel 2008 la CITES si attirò le critiche degli ambientalisti, dando il semaforo verde affinché 108 tonnellate delle zanne, prelevate in Africa da elefanti morti per cause naturali o abbattuti per vari motivi, venissero rivendute in Cina e Giappone, nella speranza di far scendere i prezzi e attenuare l'appetito dei bracconieri.

Tutt'oggi, in Estremo Oriente possedere oggettistica in avorio è sinonimo di prestigio, lusso e prosperità. Non a caso tra le Nazioni membri della cosiddetta 'gang degli otto' presa di mira dalle organizzazioni 'verdi', cinque appartengono all'area asiatica: Vietnam, Malesia, Thailandia, Filippine e Cina affiancano Kenya, Uganda e Tanzania. Come rivelato da una ricerca condotta dall'International Fund for Animal Welfare, nel 2011 oltre la Grande Muraglia si contavano 158 negozi di prodotti in avorio, di cui 101 senza licenza. Proprio pochi giorni fa l'emittente britannica 'ITV News' ha ripreso in esclusiva alcuni sale assistent di Hong Kong dare consigli ai clienti (in realtà giornalisti sotto mentite spoglie) su come contrabbandare i prodotti all'estero. Sull'isola l'import-export non dichiarato di avorio viene considerato fuorilegge, tuttavia i commercianti sono ancora autorizzati a vendere i pezzi risalente a prima del divieto internazionale del''89. Il che rende molto difficile distinguere la merce legale da quella proibita. Per sfilarsi dalla stretta delle autorità, molti amatori del settore si sono spostati su internet. Sebbene sul web le vendite siano ugualmente illegali, capita ancora frequentemente di trovare oggetti in avorio su siti specializzati nelle aste, antiquariato e collezionismo. (Segue su L'Indro)


mercoledì 12 febbraio 2014

Il senso di Pechino per Sochi



Tre giorni per cementare la 'liaison' con «un buon vicino, buon partner e buon amico». Il presidente cinese Xi Jinping per inaugurare la sua agenda estera 2014 ha scelto di nuovo la Russia, già meta del suo primo viaggio da capo di Stato l'anno passato. Dal 6 all'8 febbraio Xi ha preso parte all'apertura dei Giochi Olimpici Invernali di Sochi, spiccando nel vuoto creatosi dopo il no dei big del panorama politico internazionale, in segno di protesta verso le politiche repressive di Mosca.

E' la prima volta che un presidente cinese compare all'inaugurazione di un evento sportivo di tale portata in terra straniera. Non certo soltanto per ricambiare una cortesia: nel 2008 il capo del Cremlino era atterrato nel Celeste Impero per sostenere Pechino alle prese con l'organizzazione delle Olimpiadi Estive, vero e proprio ballo delle debuttanti per il governo cinese, la cui immagine a livello internazionale era stata di recente macchiata da sanguinosi scontri etnici e accuse di violazione dei diritti universali.

Il valore simbolico del viaggio di Xi Jinping è stato spiegato, vivisezionato e amplificato dai media cinesi che hanno fornito massima copertura della trasferta russa dell'uomo forte di Pechino; dall'agenzia di stampa statale 'Xinhua' al 'Global Times', quotidiano-bulldozer dal taglio fortemente nazionalista, che ha tenuto sott'occhio Xi passo passo con uno speciale dal titolo eloquente: 'Xi wins at Sochi with 'sports diplomacy''. Proprio il 'Global Times' ha fatto notare come la presenza del presidente cinese alla cerimonia di apertura dei Giochi sarebbe servita a limitare la retorica negativa dei media occidentali, sempre molto critici nei confronti di Mosca per via delle discriminazioni nei confronti degli omosessuali e alla limitazione delle libertà di espressione. Concetto ripreso dall'ufficialissimo 'Quotidiano del popolo' in 'Western media miss point of Sochi Games', in cui si fa notare che «quelle di quest'anno non sono soltanto le Olimpiadi più dispendiose organizzate in Russia dai Moscow Summer Games del 1980, ma sono anche quelle più chiacchierate sugli organi d'informazione». Il comportamento mantenuto dalle Nazioni occidentali in questa occasione risuona come un campanello d'allarme, chiosa il 'Global Times'.

Sull'aspetto mediatico della visita di Xi a Sochi si è soffermato anche Wei Jizhong, ex Presidente dell'International Volleyball Federation, sottolineando come, data la scarsa conoscenza che il mondo ha dei leader cinesi, la partecipazione del Dragone ad eventi internazionali può servire a promuovere un'impressione positiva del Paese, rimuovendo i molti pregiudizi. Insomma, tanto Pechino quanto Mosca sono a caccia di pubblicità positiva e la risonanza internazionale di una manifestazione sportiva del genere sembra fornire un'ottima occasione.

Quest'anno ricorre il 65esimo anniversario dall'istituzione delle relazioni diplomatiche tra i due bastioni del socialismo. Da quando ha assunto l'incarico di presidente a marzo, Xi è già stato in Russia tre volte, oltre ad aver incrociato Putin in diverse occasioni internazionali. Lo scorso anno i due si erano ritrovato a Durban, in Sudafrica per il summit dei BRICS, a San Pietroburgo, in Russia, per il G20, a Bishkek, in Kyrgystan, per il forum SCO (Shanghai Cooperation Organization) e ancora durante l'APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation) di Bali, in Indonesia. Eventi, questi, che riflettono il doppio filo che lega Cina e Russia nello scacchiere globale. Accomunati da posizioni simili sul fronte Siria e Iran, così come nel controbilanciare l'avanzata degli Stati Uniti in Oriente, tra i due giganti asiatici intercorre 'un legame speciale'. Come scriveva la 'Xinhua' a ottobre, si tratta di un rapporto improntato alla reciproca fiducia, ad una «fruttuosa cooperazione bilaterale e a un profondo attaccamento sentimentale», che fa da contraltare «alla diffidenza, alla divergenza di interessi e alle poco amichevoli attitudini» tra i popoli di Cina e Stati Uniti.

Quella comprensione sincera la ritroviamo nelle citazioni di Nikolai Gogol e Anton Chekhov, sfoggiate da Xi durante la sua prima visita a Mosca da presidente, dando prova di grande conoscenza della letteratura, della filosofia e delle arti russe. Così come nel tentativo di promuovere l'entertainment locale con la proiezione oltre la Muraglia di 'Stalingrad', primo film russo prodotto completamente con tecnologia 3D. A fare da termometro di valutazione dell'appeal culturale reciproco il flusso di viaggiatori in transito tra i due Paesi: la Russia è oggi per la Cina la terza risorsa di turismo, mentre la Cina è diventata per la Russia la seconda, con un numero di visitatori che è triplicato tra il 2008 e il 2012. E le Olimpiadi di Sochi non hanno fatto altro che fornire un ulteriore occasione per attrarre turisti in arrivo dal Regno di Mezzo; stando all'identikit tracciato dalla 'Xinhua', si tratta per lo più di cinesi compresi tra i 30 e i 50 anni appassionati di sport invernali, dipendenti aziendali e pensionati. (Segue sul L'Indro)


lunedì 10 febbraio 2014

Pechino incontra Taipei


Una soluzione politica alla situazione di stallo in cui vertono i rapporti tra Pechino e Taipei non può essere rimandata in eterno. Lo aveva preannunciato il presidente cinese Xi Jinping durante un breve colloquio con Vincent Siew, ex vice presidente di Taiwan e inviato dell'isola al forum APEC (Asia Pacific Economic Cooperation) tenutosi lo scorso ottobre a Bali. L'incontro fu al tempo definito una 'pietra miliare' nei rapporti tra lo Stretto e «un buon inizio di una interazione ufficiale normalizzata tra le due parti». A margine del vertice indonesiano, il responsabile per la Cina dei rapporti con Taiwan, Zhang Zhijun, ha fatto un passo in più, invitando ufficialmente il suo omologo taiwanese Wang Yu-chi a visitare la Cina 'a tempo opportuno'.

Dopo sole poche ore l'idillio veniva spezzato con la pubblicazione dell'annuale rapporto di Difesa Nazionale di Taiwan, in cui viene paventata la possibilità di un'invasione cinese entro il 2020. Campanello d'allarme i 1600 missili balistici puntati verso l'isola, tutt'oggi considerata da Pechino alla stregua di una provincia ribelle da riannettere al continente: nel 2005 Pechino ha varato una legge anti-secessione che autorizza l’uso della forza militare qualora l’isola si dovesse dichiarare formalmente indipendente. Spaventa inoltre il budget militare del Dragone in continua crescita, contro l'ultima sforbiciata apportata dalla Repubblica di Cina alla propria Difesa. E tale è l'aggressività militare cinese che nemmeno la protezione americana fornita dal Taiwan Relation Act, un lascito della Guerra Fredda, riesce ad assicurare tranquillità a Taipei, si legge nel rapporto.

Gli attriti tra le due sponde dello Stretto, eredità storica della guerra civile tra nazionalisti e comunisti conclusasi con la fuga dei primi sull'isola e l'istituzione di due governi indipendenti, sembrano oggi essere dovuti più che altro all'alleanza che lega Taiwan agli Stati Uniti, mentre le antiche pretese di Taipei si sono ormai tramutate nell'accettazione più o meno rassegnata di un'indipendenza de facto. Troppi gli interessi in gioco.

«Dopo quasi cinque anni di sforzi, lo Stretto di Taiwan è diventato oggi uno dei corsi d'acqua più pacifici e uno dei corridoi più tranquilli d'Asia» scandiva il presidente Ma nel suo discorso in occasione del National Day, l'anniversario della rivolta di Wuchang, scintilla della Rivoluzione del 1911 che portò alla deposizione della Dinastia Qing e alla costituzione della Repubblica di Cina, «le due parti dovrebbero utilizzare frequenti contatti e interazione per rafforzare la fiducia politica, nonché continuare ad espandere e approfondire gli scambi in vari campi per favorire il benessere del popolo».

Detto fatto. A quattro mesi di distanza, quell'invito pronunciato durante il forum economico asiatico non è stato lasciato cadere nel vuoto. Sarà Nanchino, la vecchia capitale della Cina nazionalista fino al 1949, a fare da sfondo al faccia a faccia tra Zhang Zhijun e Wang Yu-chi in agenda per il prossimo 11 febbraio. Un incontro storico quello tra il Ministro del MAC (il Consiglio per gli Affari Continentali) e il direttore del TAO (l'Ufficio per gli Affari di Taiwan del Consiglio di Stato) i funzionari dei rispettivi Paesi di più alto rango a stringersi la mano dal '49. In passato i colloqui tra le due parti hanno sempre visto protagonisti un ufficiale in carica e uno in pensione, proprio come avvenuto tra Xi Jinping e Vincent Siew a Bali. Così se il precedente capo del TAO, Lai Shin-yuan, sperò invano per anni di raggiungere la mainland, riuscendo a visitare soltanto le regioni amministrative speciali di Hong Kong e Macao, così la sua controparte cinese Wang Yi non mise mai piede sull'isola democratica.

Nonostante il peso specifico del meeting, a sgonfiare le aspettative è stato lo stesso Wang: non si parlerà delle frizioni politiche con la Repubblica popolare, di diritti umani, né verrà menzionato il 'principio di una sola Cina'. Piuttosto «si cercherà di promuovere l'interazione regolare tra MAC e TAO», al fine di normalizzare i rapporti ed evitare fraintendimenti. Pechino e Taipei discuteranno inoltre del ruolo di Taiwan negli organismi internazionali (la Repubblica di Cina è riconosciuta soltanto da 23 Paesi), dell'assistenza sanitaria per gli studenti taiwanesi nella mainland e della possibile creazione di uffici di rappresentanza su entrambe le sponde dello Stretto. (Segue su L'Indro)


venerdì 7 febbraio 2014

Cinesi 'africani' investono a Hong Kong

Li chiamano funzionari "nudi". Sono quegli amministratori pubblici che nascondo fondi in conti esteri, pur continuando a vivere una vita relativamente umile in patria; spediscono coniugi e figli oltreconfine ad amministrare e godere il frutto della loro corruzione. Il fenomeno in Cina è già diventato virale, tanto che Pechino è corso ai ripari varando negli ultimi mesi una serie di norme mirate ad arginare l'estensione del problema. Nessuna promozione per "coloro i cui coniugi sono emigrati all'estero, o, se non c'è il coniuge, quelli i cui figli si sono trasferiti all'estero".

Il diktat si inserisce nell'agguerrita battaglia alla corruzione lanciata dal nuovo presidente Xi Jinping nella cui rete sono già caduti diversi pezzi grossi, per un totale di 36,907 indagati soltanto tra gennaio e novembre 2013. Alcuni mesi fa la Commissione centrale di Ispezione e Disciplina, massimo organismo anticorruzione del Dragone, ha richiesto ai funzionari freschi di nomina di dichiarare tutti i loro assets ed eventuali residenze all'estero. A Guangzhou, nel sud del paese, le autorità sono andate oltre, costringendo circa 2000 capi villaggio a consegnare i loro passaporti per evitare fughe con malloppo.

La Repubblica popolare è il maggior esportatore di capitali illeciti al mondo. "Parliamo di un giro d'affari di circa mille miliardi di dollari, contro gli 880 della Russia e i 461 del Messico" spiegava alcuni giorni fa al South China Morning Post Clark Gascoigne, portavoce di Global Financial Integrity, in occasione della pubblicazione dell'inchiesta China Leaks condotta dall'International Consortium of Investigative Journalism sulle fortune dei leader cinesi nei paradisi fiscali.

Se le stime di Hurun (il Forbes in salsa di soia) sono esatte, quasi due terzi dei milionari cinesi sarebbero già emigrati o avrebbero in programma di farlo. Di questi, però, solo il 15% ha intenzione di rinunciare alla cittadinanza cinese, mentre la maggior parte vuole semplicemente una residenza permanete oltremare.

Stando a quanto riporta la Reuters, negli ultimi anni molti quadri corrotti si sono avvalsi dell'Hong Kong Capital Investment Entrant Scheme (CIES) per mettere al sicuro oltre un milione di dollari a testa. (Segue sull'Indro)

mercoledì 5 febbraio 2014

Il PLA: Un esercito di figli unici


Nel 2014 la Cina potrebbe spendere per la Difesa 148 miliardi, rispetto ai 139,2 dell'anno precedente, secondo le stime della società di consulenza e analisi IHS Jane's. Una somma equivalente al totale dei budget di Gran Bretagna, Francia e Germania, e inferiore soltanto ai 574,9 miliardi previsti per l'esercito degli Stati Uniti.

L'aggressività proiettata dai numeri potrebbe non trovare un riscontro sul campo di battaglia. Come fa notare il professor Liu Mingfu al Nanfang Weekly, il 70% dei soldati cinesi proviene da famiglie con un solo figlio; ben l'80% se ci si sposta nelle "truppe da combattimento". La questione assume un significato considerevole se combinata agli esiti di uno studio pubblicato tempo fa su Science, in base al quale i figli unici sarebbero meno competitivi, meno sicuri di sé e meno inclini al rischio. Non esattamente caratteristiche ideali quando si imbraccia un'arma.

In una relazione indirizzata al governo centrale nel 2012, Liu aveva sottolineato come mandare il proprio unico figlio in guerra sia sempre stato un tabù nella storia dell'Impero Celeste. Liu aveva inoltre ricordato l'esempio americano della Sole Survivor Policy -introdotta dopo il decesso dei cinque fratelli della famiglia Sullivan, rimasti uccisi nell'affondamento dell'incrociatore USS Juneau nelle acque del Pacifico, durante la Seconda guerra mondiale- per poi aggiungere che in Giappone i leader militari hanno la responsabilità di impedire ai figli maggiori di partecipare alle missioni ad alto rischio.

Antony Wong Dong, esperto di questioni militari di stanza a Monaco, ha affermato che molti funzionari delle forze armate e analisti della Repubblica popolare, fin dal 1993, hanno cominciato ad esprimere preoccupazione per l'impatto che la politica del figlio unico potrebbe avere sulla sicurezza nazionale a lungo termine. Senza considerare le conseguenze che il venire meno della "pietà filiale" scatenerebbe a livello sociale: "Sotto le rigide regole militari della Cina i disertori vengono fucilati sul posto, e ponendo anche che i soldati figli unici non abbiano paura di combattere, chi si prenderà cura delle loro famiglie se dovessero morire o rimanere gravemente feriti?" è quanto si chiede l'analista.

Negli ultimi anni l'esercito ha cercato di temprare "i ragazzi e le ragazze viziate" attraverso una formazione specifica per rafforzarne le capacità di combattimento, ma l'alto tasso di figli unici nell'Esercito popolare di liberazione (Pla) rappresenta ancora una preoccupazione di ordine strategico. Secondo quanto riportava anni fa il PLA Daily, è pratica diffusa tra le reclute sputare inchiostro rosso per fingersi malati e sfuggire al duro allenamento.

Sun Youpeng, un ventenne di Dalian, racconta al South China Morning Post il trauma dei primi giorni in caserma e i pianti soffocati sotto le coperte. Servono almeno due anni perché un "piccolo imperatore", frutto del controllo delle nascite fine anni '70, riesca da abituarsi alla routine di un'unità militare, spiega il ragazzo.

Con il Terzo Plenum dello scorso autunno il Dragone ha imboccato la strada delle riforme; tra queste svetta un allentamento della politica del figlio unico, in base al quale ora le coppie in cui uno solo dei due membri è figlio unico hanno il diritto ad avere un altro bambino. Non per questo il problema della forza lavoro nella Difesa può dirsi superato. Come fa notare il professor di Shanghai Ni Lexiong, bisognerà attendere almeno 20 anni perché i secondi figli divengano adulti.

Di pari passo con l'impennare delle belligeranze nel Mar Cinese Orientale, la politica del figlio unico del Gigante asiatico è diventata oggetto di accese discussioni sui media di Giappone e Sud Corea. Proprio a dicembre il Korea Times diceva la sua, scommettendo che "nel caso in cui scoppiasse una guerra per le isole Diaoyu, il Pla verrebbe certamente sconfitto dalle forze di autodifesa giapponesi perché la maggior parte dei soldati cinesi sono piccoli imperatori e reginette viziate".





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