Il diktat si inserisce nell'agguerrita battaglia alla corruzione lanciata dal nuovo presidente Xi Jinping nella cui rete sono già caduti diversi pezzi grossi, per un totale di 36,907 indagati soltanto tra gennaio e novembre 2013. Alcuni mesi fa la Commissione centrale di Ispezione e Disciplina, massimo organismo anticorruzione del Dragone, ha richiesto ai funzionari freschi di nomina di dichiarare tutti i loro assets ed eventuali residenze all'estero. A Guangzhou, nel sud del paese, le autorità sono andate oltre, costringendo circa 2000 capi villaggio a consegnare i loro passaporti per evitare fughe con malloppo.
La Repubblica popolare è il maggior esportatore di capitali illeciti al mondo. "Parliamo di un giro d'affari di circa mille miliardi di dollari, contro gli 880 della Russia e i 461 del Messico" spiegava alcuni giorni fa al South China Morning Post Clark Gascoigne, portavoce di Global Financial Integrity, in occasione della pubblicazione dell'inchiesta China Leaks condotta dall'International Consortium of Investigative Journalism sulle fortune dei leader cinesi nei paradisi fiscali.
Se le stime di Hurun (il Forbes in salsa di soia) sono esatte, quasi due terzi dei milionari cinesi sarebbero già emigrati o avrebbero in programma di farlo. Di questi, però, solo il 15% ha intenzione di rinunciare alla cittadinanza cinese, mentre la maggior parte vuole semplicemente una residenza permanete oltremare.
Stando a quanto riporta la Reuters, negli ultimi anni molti quadri corrotti si sono avvalsi dell'Hong Kong Capital Investment Entrant Scheme (CIES) per mettere al sicuro oltre un milione di dollari a testa. (Segue sull'Indro)
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