mercoledì 19 febbraio 2014

Il Dragone delle nevi


Quando il 24 dicembre la nave russa Akademik Shokalskiy rimase intrappolata nei ghiacci dell'Antartide, i 52 passeggeri a bordo furono tratti in salvo diversi giorni dopo da un elicottero cinese. Nonostante Xue Long, la rompighiaccio battente bandiera rossa a cinque stelle, si fosse a sua volta incagliata, la presenza risolutrice di Pechino nel «salvataggio del secolo» aveva ormai inviato un chiaro messaggio: (nel 'continente bianco') la Cina c'è.

Eccome se c'è. La scorsa settimana il Dragone ha inaugurato la sua quarta stazione antartica, la Taishan, costruita in 53 giorni ad un altezza di 2600 metri per scopi scientifici. I lavori per una quinta verranno avviati il prossimo anno, portando Pechino a pari merito con Giappone, Germania e Italia e un soffio da Stati Uniti e Gran Bretagna, ormai a quota sei basi.

La Cina è in netto ritardo. Great Wall, la sua prima stazione antartica vide la luce soltanto nel 1985 sull'isola di Re Giorgio, sede già da decenni delle esplorazioni di Russia, Stati Uniti, Argentina e Regno Unito. Nel 1989 fu la volta di Zhongshan, eretta sulla colline di Larsemann, nell'Antartide orientale, e nel 2009 di Kulun, prima base cinese nell'entroterra del continente, arroccata sul Dome Argus, la massima elevazione del Plateu Antartico.

Parafrasando le parole di Qu Tanzhou, direttore della Chinese Arctic and Antarctic Administration, «come ultima arrivata, la Cina sta cercando di recuperare». E lo sta facendo ad una velocità che ricorda l'inseguimento cinese di Washington e Mosca nello spazio. Tra il 1985 e il 2012, il Dragone ha effettuato cinque spedizioni nell'Artico e ventotto nell'Antartide. Nelle ultime due decadi, la spesa destinata alla ricerca è schizzata da 20 milioni di dollari ai 55 milioni del 2012, circa tre volte quanto investito nella regione artica. Per non replicare la figuraccia di quel valoroso ma datato Xue Long, acquistato dall'Ucraina nel 1993, un accordo con la finlandese Aker Arctic Technology prevede, entro la fine dell'anno, la costruzione di una seconda rompighiaccio «più corta e dotata di lame sia a prua che a poppa, in grado di farsi largo tra lastre di ghiaccio spesse 1,5 metri».

Orgoglio nazionalista di un player sempre più assertivo sullo scacchiere internazionale, ma anche fame di risorse per saziare l'economia 'energivora' del Dragone, primo consumatore e primo importatore di risorse al mondo. Si stima che l'Antartide ospiti 'oro nero' per 40 miliardi di barili, oltre ad essere sede dei principali giacimenti di carbone e ferro del pianeta. Un tesoro oggi sepolto sotto una spessa massa di ghiaccio, ma che in futuro potrebbe essere liberato 'grazie' al riscaldamento globale. Un complesso risiko polare vede la Cina contrapporsi a Corea del Sud, India e Russia, che a differenza di Pechino hanno esplicitato in maniera diretta il loro interesse per le risorse minerarie dell'area, spiega all''Economist' Annie-Marie Brady, researcher presso il Wilson Centre di Washington. Un tempo il Polar Research Institute cinese era solito pubblicare sul suo sito una serie di mappe con su tracciata la posizione delle risorse energetiche della regione, comprese le riserve di petrolio a largo delle coste dell'Antartide. Poi, improvvisamente, sono state fatte sparire.

Il Trattato Antartico, firmato nel dicembre 1959 da dodici Paesi, e sottoscritto dalla Repubblica popolare soltanto nell''83 -dopo che la Guerra Fredda ne ebbe ritardato l'adesione-, identifica il 'continente bianco' tra i 'global common', ovvero quei beni che fanno parte del patrimonio dell'umanità indipendentemente dal fatto che siano localizzati all'interno di certi confini geografici o meno. Attraverso il Trattato i Paesi firmatari con rivendicazioni di sovranità territoriale hanno concordato di interrompere le loro richieste e di rinunciare allo sfruttamento economico o all'utilizzo del continente per scopi bellici. Nella realtà dei fatti, sette nazioni (Argentina, Australia, Cile, Francia, Nuova Zelanda, Norvegia e Regno Unito) continuano ad avanzare pretese territoriali su otto aree, principalmente, piazzando le loro installazioni scientifiche entro i confini reclamati. Allo stato attuale il Protocollo al Trattato Antartico sulla Sicurezza Ambientale (1991) vieta qualsiasi attività estrattiva, a meno che non sia giustificabile con scopi scientifici. Ma sono in molti a sperare in una svolta, quando nel 2048 il Protocollo verrà revisionato. Così chi è potenzialmente interessato alle ricche risorse della regione sta cercando di garantirsi un posto a sedere al tavolo dei negoziati. Come? Presentando le prove materiali del proprio contributo allo sviluppo scientifico del continente; la proliferazione di stazioni antartiche ne è la cartina di tornasole. (Segue su L'Indro)

Nessun commento:

Posta un commento

Hukou e controllo sociale

Quando nel 2012 mi trasferii a Pechino per lavoro, il più apprezzabile tra i tanti privilegi di expat non era quello di avere l’ufficio ad...