sabato 27 settembre 2014
Che fine faranno i minatori?
L'impegno della Cina contro il cambiamento climatico vale 6 milioni di dollari e molte promesse. Ma l'obolo versato da Pechino alla crociata ambientalista dell'Onu non è bastato a distogliere l'attenzione dalla sedia lasciata vuota da Xi Jinping. L'assenza del Presidente cinese al Climate Summit 2014 è stata da molti interpretata come un autogol politico, uno scivolone diplomatico da parte del gigante asiatico primo emettitore al mondo di gas serra. E poco importa che a 'bigiare' siano stati anche leader della caratura del Premier indiano Narendra Modi e della Cancelliera tedesca Angela Merkel.
Lunedì scorso, giusto alla vigilia del summit, l'organizzazione Global Carbon Project ha annunciato per la prima volta il sorpasso di Pechino su Bruxelles quanto a emissioni pro-capite. Secondo gli ultimi rilevamenti degli scienziati - contestati da Pechino- la Cina emette 7,2 tonnellate di CO2 pro-capite, contro le 6,8 tonnellate dell'Unione Europea. Dal 2000 la Cina rappresenta da sola due terzi della crescita globale di emissioni di anidride carbonica. Mentre America ed Europa stanno riducendo le loro emissioni di 60mila tonnellate l'anno, la Repubblica popolare aumenta le proprie di oltre 500mila. Un pericolo per il mondo intero, grida l'Occidente. Dal regno di Mezzo rispondono che la Cina, nel pieno di «un processo di industrializzazione e urbanizzazione», non sta facendo altro che seguire il percorso tracciato dalle economie (ormai) mature: «Prima si inquina, poi si pulisce». Senza contare che un quarto delle emissioni deriva dalla produzione di quelle 'cineserie' destinate ai mercati esteri.
I numeri, tuttavia, non sono dalla sua: se da una parte l'economia cinese conta per il 16% della produzione mondiale, dall'altra consuma tra il 40% e il 50% delle riserve globali di carbone, rame, acciaio, nichel, alluminio e zinco. Non è difficile scorgere i sintomi di un'ipertrofia che risale all'epoca di Mao, quando l'utilizzo dell'energia era tutt'altro che oculato. Tra il 1950 e il 1978, il consumo energetico per unità di Pil è addirittura triplicato. Nei primi anni '90, all'alba della sua crescita iperbolica, la Cina utilizzava ancora 800 tonnellate di carbone per 1 milione di dollari di produzione, molto più di altri Paesi in via di sviluppo. Tutt'oggi, l'energia che serve alla seconda economia mondiale, dipende dal carbone per oltre il 65%; circa 3,8 miliardi di tonnellate all'anno, un quantitativo quasi pari a quello consumato da tutto il resto del pianeta messo insieme e che nel 2015 dovrebbe salire a 4,1 miliardi di tonnellate se non di più.
Conscio dell'aggravarsi della situazione agli occhi del mondo così come dei suoi sempre meno malleabili cittadini (lo dimostra la crescita esponenziale delle proteste ambientali), Pechino ha lanciato una 'rivoluzione verde' che ha come scopo primario l'emancipazione dal carbone. Intorno alla metà del giugno 2013 il Governo cinese ha annunciato un primo pacchetto di misure volte a limitare l'inquinamento atmosferico, partendo dall'inasprimento delle pene per i reati ambientali. In accordo con il nuovo paradigma di crescita (sostenibile) sponsorizzato dall'amministrazione Xi Jinping-Li Keqiang, i funzionari locali saranno direttamente responsabili per la qualità dell'aria nella zone di loro competenza. Si è poi parlato di incrementare l'uso delle rinnovabili al 20% del fabbisogno entro il 2020, mentre 275 miliardi di dollari andranno a irrobustire la lotta all'inquinamento nei prossimi cinque anni. Una somma che l''Economist' ha definito «seria anche per i parametri cinesi, pari al Pil di Hong Kong o due volte il budget destinato alla Difesa». (Segue su L'Indro)
mercoledì 24 settembre 2014
Pechino comodamente tra Iraq e Kurdistan
Spesso si dice che a vincere la guerra d'Iraq, in realtà, sia stata la Cina. Prima dell'invasione americana (2003), l'industria petrolifera irachena soffriva l'isolamento causato dalle sanzioni internazionali contro il Governo di Saddam Hussein. All'indomani della fine del conflitto, culminato nell'esecuzione del dittatore, il Paese mediorientale riaprì al mondo l'accesso alle proprie riserve energetiche. Il gigante asiatico non si fece trovare impreparato. Pur di mettere le mani sul petrolio iracheno, accettò condizioni contrattuali limitanti incurante dei bassi profitti. Una propensione al rischio che gli deriva dalla libertà di cui godono i giganti nazionali degli idrocarburi, tutti di proprietà dello Stato e pertanto svincolati dalle responsabilità di cui normalmente le società private debbono rispondere davanti al proprio azionariato.
Risultato: oggi Pechino compra quasi la metà del petrolio che l'Iraq produce affermandosi come primo investitore straniero nel settore energetico locale. Le importazioni cinesi sono schizzate dai 300mila barili al giorno del 2012 ai 720mila dell'aprile 2014. Secondo quanto riportava lo scorso anno il 'New York Times', la Cina ha investito nel Paese oltre 2 miliardi di dollari all'anno. 10mila cinesi lavorano in Iraq nel comparto energetico, edile e delle telecomunicazioni, fattore che moltiplica gli oneri delle autorità del gigante asiatico per quanto riguarda la tutela dei propri cittadini. Una questione diventata più pressante da quando, nel marzo del 2011, in seguito al collasso del regime del leader libico Gheddafi, Pechino fu costretto ad inviare mezzi militari in terra straniera per procedere con l'evacuazione di quasi 36mila cinesi. Nonostante i principali interessi del Dragone siano concentrati nel Sud dell'Iraq, la recente ondata di violenza e tensioni settarie scatenate dall'ISIS non può non preoccupare la Cina. Eventuali interruzioni delle forniture peserebbero per oltre il 10% delle importazioni totali di greggio. L'aumento dei costi che ne deriverebbe rischia di frenare ulteriormente la ripresa della seconda economia del mondo: si stima che un rincaro di 10 dollari dei prezzi del petrolio costerebbe alla Repubblica popolare una riduzione del Pil dello 0,2%.
Già in passato il pragmatismo dei cinesi, fautori del business tout court scevro da sfumature politiche e religiose, ha permesso a Pechino di smarcarsi da situazioni difficili. Quando, nel 2003, gli Stati Uniti sospesero le concessioni petrolifere del Dragone in Iraq, i cinesi non si persero d'animo; semplicemente cambiarono partner indirizzando le proprie mire energetiche in Kurdistan. Dal 1991 la regione settentrionale irachena gode di una certa autonomia, divenuta effettiva solo dopo la caduta di Saddam nel 2003. Da quel momento la regione è diventata la parte più stabile dell’Iraq con doti promettenti da 'Dubai del futuro'. Secondo liste governative, al momento in Kurdistan operano 17 compagnie cinesi, tra cui la società petrolifera DQE e la statale Sinopec. Quinta azienda al mondo per fatturato, Sinopec è entrata nel mercato curdo nel 2009 con l'acquisizione della canadese Addax Petroleum, impegnata nello sviluppo del sito di Taq Taq. Ad oggi si tratta ancora della maggior acquisizione (7,2 miliardi di dollari) mai effettuata da una compagnia energetica cinese a livello internazionale.
Ultimamente Secondo fonti 'Reuters', la Cina, che consuma energia più di qualsiasi altro Paese al mondo, sarebbe in trattative con Erbil per la consegna di 4 milioni di barili di petrolio. Una mossa che, se confermata, potrebbe risultare indigesta a Baghdad, che considera le vendite di petrolio curdo 'illegali'; il petrolio appartiene al Governo centrale che per il suo sfruttamento paga dei fondi al Governo autonomo del Kurdistan. Da parte sua, il KRG (Kurdistan Regional Government) ritiene il proprio business giuridicamente valido in base a quanto stabilito -in maniera poco nitida- dalla costituzione irachena. Il problema è che se il KRG necessita delle entrate per finanziare i suoi combattenti e fronteggiare l'emergenza rifugiati, per Baghdad gli introiti derivanti dalle vendite indipendenti di petrolio potrebbero venire destinati alla costruzione di uno Stato curdo indipendente.
Attualmente il Kurdistan è un’entità dotata di un’amministrazione autonoma e proprie forze armate; l'intesa raggiunta con grandi società petrolifere straniere, nei piani del KRG, dovrebbe contribuire al raggiungimento dell’indipendenza economica. Un obiettivo tutt'altro che impossibile. Secondo stime ufficiali, il Kurdistan ospita il 40% delle risorse petrolifere irachene. Dal mese di maggio, 11 milioni di barili di greggio curdo hanno preso il largo dal porto di Ceyhan, nella Turchia meridionale, verso mete ignote. Pare che dopo la mancata vendita di greggio negli Stati Uniti, sfociata quest'estate in un guazzabuglio legale, il Kurdistan sia in cerca di nuovi clienti. Tra luglio e agosto 140 milioni di dollari di petrolio sono rimasti bloccati a largo delle coste statunitensi. Sebbene Washington non vieti esplicitamente l'acquisto di 'oro nero' curdo, tuttavia non nasconde le molte incognite che adombrano le consegne nel tentativo di cautelare le compagnie americane. Stando alla 'Reuters', lo scorso mese, almeno tre carichi da 1 milione di barili ciascuno hanno lasciato Ceyhan diretti verso l'Asia. L'ex Impero Celeste potrebbe essere il misterioso capolinea.
"Si suppone che a giugno Israele abbia ricevuto la sua prima spedizione di petrolio curdo", spiega a 'L'Indro' Yitzhak Shichor, Professore emerito e Direttore del Dipartimento di Studi dell'Asia Orientale presso l'Università di Haifa, "Dal momento che Gerusalemme ha ricevuto la maggior parte del suo petrolio dall'Azerbaijan e dal momento che il petrolio curdo è arrivato nel distretto meridionale di Ashkelon (dove inizia la Trans-Israel pipeline diretta a Eilat) è possibile che Israele non sia stata la meta finale e che il greggio curdo sia finito più a est". (Segue su L'Indro)
venerdì 12 settembre 2014
La Cina tra riserve strategiche e speculazioni
Nel 2009 la Cina ha superato gli Stati Uniti diventando il primo consumatore di energia al mondo; lo scorso anno il sorpasso cinese è avvenuto per le importazioni di petrolio, con uno scarto tra consumo e produzione di 6,3 milioni di barili al giorno. E' l'altra medaglia della vertiginosa crescita cinese, quella che Pechino considera una 'debolezza' dal punto di vista strategico. Mentre i fornitori energetici del Medio Oriente fluttuano tra periodiche crisi politiche e fiammate terroristiche, gli Stati Uniti -con una popolazione un terzo di quella cinese eppure ancora primi consumatori di petrolio e altri combustibili liquidi- si stanno lentamente affrancando dalla schiavitù dell'import. Se è vero che le esportazioni di greggio a stelle e strisce sono ancora limitate, la crescita della produzione nazionale ha già fatto calare le importazioni dall'Africa Occidentale, Europa e altre regioni. Allo stesso tempo il boom registrato negli Usa dall'olio di scisto ha depresso i prezzi e sta costringendo i produttori a concedere nuovi sconti per non perdere quote di mercato.
Da parte sua la Cina, che acquista all'estero quasi la metà dell''oro nero' che utilizza, sta cercando di risolvere la sua dipendenza da fornitori esterni accumulando riserve strategiche. Un meccanismo cominciato un decennio fa e che sta avendo ripercussioni a livello mondiale. Stando ai media statali, entro il 2020 la Cina dovrebbe riuscirà a mettere da parte un quantitativo sufficiente a tagliare 100 giorni di importazioni, che ai ritmi attuali corrisponde a minimo 600 milioni di barili di greggio. Al momento, il Dragone importa ed estrae più crudo di quanto non ne raffini, fattore che, in assenza di dati ufficiali, ha comunque permesso all'IEA (International Energy Agency) di tirare un bilancio approssimativo. Pare che nel secondo trimestre del 2014 il programma Strategic Petroleum Reserve abbia assorbito il 12% delle importazioni effettuate dal Dragone, per scorte comprese tra i 120 milioni e 260 milioni di barili.
Come fa notare il 'Wall Street Journal', tale sistema sembrerebbe spiegare almeno parzialmente perché dal 2010 a oggi i prezzi del petrolio sono scesi solo raramente sotto i 100 dollari al barile. E' quello che in gergo tecnico si chiama contango: si compra quando il prezzo è più basso e si vende quando sale. Funziona bene finché i costi di deposito rimangono abbastanza convenienti.
Se per il momento il greggio domina le scorte cinesi, lo scorso anno si era ipotizzata addirittura l'introduzione di prodotti petroliferi per rispondere all'interruzione di approvvigionamenti sul breve termine. Ma le prospettive per il futuro sono ricche di incognite. Gli analisti ritengono che la Cina potrebbe non riuscire a trovare sufficiente spazio per continuare le operazioni di stoccaggio con la velocità mantenuta sino a oggi. La svolta potrebbe venire dal mare. Secondo quanto riportato giorni fa dalla 'Reuters', Unipec, sussidiaria del colosso statale cinese Sinopec, avrebbe ingaggiato la petroliera più grande del mondo: TI Europe, lunga 380 metri e con una capacità di 3,2 milioni di barili, è una tra le poche ULCC (Ultra Large Crude Carrieres) ancora in servizio. Fu costruita una decade fa insieme ad altre tre per l'operatore Tankers International LLC; due sono ormai adibite a tempo pieno ad operazioni di stoccaggio. Stando ad alcune fonti dell'agenzia britannica, Unipec starebbe pensando di trasferire e conservare petrolio europeo a bordo dell'ULCC in acque singaporiane. Una manovra che conferma il ruolo leader delle società statali cinesi a livello mondiale, già suggerito dallo sbarco di Unipec e PetroChina in hub prestigiosi quali Londra e Singapore. (Segue su L'Indro)
mercoledì 10 settembre 2014
L'Indonesia, vittima o mediatrice?
Come gli indonesiani imparano ancora sui banchi di scuola, nel 1292 Kublai Khan inviò una spedizione punitiva a Giava. Un emissario dell'Impero Mongolo, inviato sull'isola per ottenere il pagamento del tributo alla dinastia Yuan, aveva fatto ritorno nel Regno di Mezzo con il volto mutilato. La flotta di mille imbarcazione e oltre 20mila soldati salpata dal sud della Cina per vendicarlo fu coraggiosamente respinta. La sconfitta cinese sancì l'ascesa di Majapahit, l'Impero su cui poggia l'Indonesia di oggi.
Nonostante i trascorsi tormentati, l'Indonesia è stato il primo Paese del Sud-est asiatico a stringere relazioni diplomatiche con la Cina nel 1950. Ma l'ombra dello zampino cinese nel fallito colpo di Stato ordito dai comunisti indonesiani nel 1965 fece precipitare nuovamente i rapporti tra le due nazioni asiatiche. Ordine Nuovo, il regime autoritario nato dal golpe, fece dell'anticomunismo la propria bandiera agitando il fantasma di una pericolosa intesa tra il Partito comunista indonesiano (Pki) e la minoranza cinese presente nell'arcipelago, politicamente irrilevante ma economicamente molto potente. Le relazioni bilaterali furono riannodate nell'agosto 1990, nonostante il perdurare di reciproche diffidenze.
Come fa notare su 'Orizzonte Cina' Rai Ervandi, research associate per il programma T. wai- Torino World Affairs Institute, la normalizzazione dei rapporti è stata faticosamente raggiunta con lo scopo ultimo di sfruttare la complementarità dei due Paesi. L'Indonesia, prima economia del Sud-est asiatico e quarto Paese più popoloso al mondo, si rivela cruciale per la Cina considerate le dimensioni del suo mercato interno, le sue risorse naturali e la posizione strategica che la vede dominare le principali vie d'accesso per le importazioni cinesi di idrocarburi. Per l'Indonesia, di contro, la Cina costituisce prima di tutto una ghiotta opportunità economica alla luce dell'Accordo di libero scambio Cina-Asean grazie al quale i rapporti commerciali tra le due Nazioni asiatiche sono schizzati dai 28,3 miliardi di dollari del 2009 ai 42,7 miliardi del 2010, fino ad arrivare ai 50,9 miliardi del 2013, anno in cui -secondo 'Bloomberg'- Pechino è diventato il primo partner commerciale di Jakarta superando Giappone, Singapore e Stati Uniti. In secundis, rappresenta una leva per accrescere il proprio spazio internazionale e il proprio prestigio forte di un valore aggiunto più unico che raro nel quadrante regionale: il fatto di essere -assieme a Singapore- l'unico attore dell'Asia-Pacifico a non avere ufficialmente dispute territoriali in corso con la Repubblica popolare.
Al contempo, pur non essendo coperta da alcun trattato di sicurezza con gli Stati Uniti, Jakarta è legata a Washington da duraturi rapporti che risalgono alla partecipazione del Governo indonesiano nella lotta contro il comunismo all'epoca della Guerra Fredda. Come spiega Noam Chomsky in 'L'Indonesia, carta vincente del gioco Usa', «Dopo la seconda guerra mondiale, l'Indonesia aveva svolto un ruolo importante per gli Stati Uniti, impegnati nella costruzione di un nuovo ordine planetario. A ogni regione era stato assegnato un compito specifico; quello del Sud-est asiatico era di procurare alle società industriali risorse e materie prime. L'Indonesia era una delle poste in gioco più importanti. Nel 1948 George Kennan, lo stratega che 'inventò' la dottrina del contenimento, vedeva 'nel problema indonesiano (...) la questione più importante del momento nella lotta contro il Cremlino'. Fu per questo che Washington appoggiò l'insediamento al potere del Generale Suharto grazie al quale il Pki fu liquidato in «una delle peggiori stragi del XX secolo», come ammesso dalla stessa Cia. Poi, raggiunto lo scopo primario, Suharto fu tolto di mezzo come capitato a Mobutu Sese Seko, Saddam Hussein, Ferdinando Marcos, Anastasio Somoza e altre pedine manipolate e poi depennate dagli Stati Uniti con l'intento conclamato di «promuovere la transizione democratica». (Segue su L'Indro)
venerdì 5 settembre 2014
Una Grande Muraglia per fermare il deserto
Immaginate una Grande Muraglia 'ecologica' lunga 4500 chilometri; da una parte le colate di cemento della Cina urbana, dall'altra una distesa di sabbia di 700mila chilometri quadrati che procede con velocità crescente da nord verso sud. E' quanto sta cercando di realizzare la Cina dal 1978, anno in cui è stato lanciato il Three-North Shelter Forest Program, una cintura di alberi piantati appositamente per arginare l'espansione del deserto del Gobi. Si tratta del più colossale piano di rimboschimento mai realizzato al mondo. Il progetto trae il suo nome dalla localizzazione che include i 'tre nord' (ovvero le aree desertiche del nord-est, del nord e del nord-ovest della Repubblica popolare) e coinvolge 13 province: Heilongjiang, Jilin, Liaoning, Hebei, Shanxi, Shaanxi, Gansu, Qinghai; le regioni autonome della Mongolia Interna, del Ningxia e dello Xinjiang più le municipalità di Tianjin e Pechino. Il tutto per un'area pari al 42,39% del Paese.
Con una superficie di 9,6 milioni di chilometri quadrati, la Cina è il terzo Paese al mondo per estensione e, tuttavia, le aree aride e semi-aride costituiscono oltre il 40% del suo territorio. Ogni anno il Dragone ha perso mediamente 3600 chilometri quadrati di praterie a causa dell'incalzante estendersi del deserto del Gobi, mentre le tempeste di sabbia si fanno via via più aggressive. Secondo Greenpeace, il gigante asiatico conserva appena il 2% delle sue foreste originarie. Tutto il resto è stato annientato da decenni di disboscamento scellerato, sfruttamento eccessivo dei terreni agricoli e inquinamento rampante. In Mongolia Interna, dal 2003 450mila persone sono state costrette ad abbandonare la loro terra per evitare un ulteriore deterioramento del suolo.
Il progetto Green Wall ha come obiettivo la creazione di un 'polmone verde' proprio dove a prevalere sono polvere e sabbia. Dal 1978 a oggi, sono stati piantati 66 miliardi di alberi con un incremento della superficie boschiva dall'iniziale 5% all'attuale 12%. Alla fine dell'opera, prevista per il 2050, la nuova foresta dovrebbe raggiungere i 405mila ettari (il 42% del territorio nazionale) aumentando la superficie verde mondiale di oltre un decimo. Nel 2003 il piano è entrato nella sua quarta fase che prevede l'utilizzo di semina aerea per andare a coprire le zone meno aride e incentivi economici per spingere i contadini cinesi a piantare alberi e arbusti nelle aree più aride; oltre alla realizzazione di un sistema di controllo da 1,2 miliardi di dollari (con database di mappatura e sorveglianza) e un network di monitoraggio in collaborazione con Giappone e Corea del Sud - le tempeste di sabbia hanno effetti negativi anche sull'agricoltura dei vicini. Addirittura i venti carichi di sabbia spirano dal Pacifico sono responsabili di spettacolari tramonti nella baia di San Francisco. Secondo l'Accademia cinese delle Scienze, il tasso di desertificazione è aumentato dalle 602 miglia quadrate del periodo 195-1979, alle 811 miglia quadrate degli anni '80, fino ad arrivare alle 950 degli anni '90 e alle 1327 del nuovo secolo. (Segue su L'Indro)
mercoledì 3 settembre 2014
La storia dei Garrat secondo Pechino
Tempo fa mi ero occupata della storia dei Garrat, la strana coppia canadese accusata di 'furto di segreti di Stato' al confine con la Corea del Nord. Dai pochi elementi emersi inizialmente, il caso risultava di difficile decifrazione. Ci si chiedeva sopratutto se i due, ferventi cristiani, fossero stati presi di mira per la loro fede o fossero piuttosto stati scelti come vittima sacrificale dopo lo scambio di accuse tra Pechino e Ottawa circa presunte attività di hacking. Ho chiesto ad Adam Cathcart, professore di letteratura cinese presso l'Università di Leeds nonché Editor in Chief di SinoNk.com, un breve commento a riguardo:
Il recente arresto dei due cittadini canadesi, che gestivano un caffè a Dandong, contiene implicazioni abbastanza ovvie e importanti per chi segue il vicino Stato della Corea del Nord. Ma è veramente la Corea del Nord il punto centrale di questo caso? O è piuttosto un elemento accessorio per uno scontro di proporzioni maggiori tra Cina e Canada? Ora che sono emersi più elementi, la storia come è stata ripresa dai media cinesi sembra far propendere più per la seconda ipotesi. A dire il vero ci sono molte prove che documentano l'interesse dei Garrat nel promuovere il cristianesimo e un qualche cambiamento nella Corea del Nord. E' evidente che la loro posizione nella regione di confine servisse a "raggiungere la Corea del Nord con Dio, cambiamenti e assistenza pratica", come i Garrat si erano impegnati a fare dal novembre 2013. Qualcosa che Pechino non tollera di buon grado e facilmente può aver stimolato una cooperazione sino-nordcoreana per mantenere la sicurezza lungo la frontiera.
Com'è stata coperta la storia dalla stampa cinese? Un articolo pubblicato il 6 agosto dal Huanqiu Shibao riportava quanto segue:
"Il 5 agosto AFP ha riportato una nuova speculazione, ovvero che i Garrat abbiano un'altra identità: quella di cristiani. Il rapporto racconta che lo scorso novembre il Signor Garrat avrebbe detto "Dio mi ha detto 'vai in Corea del Nord, ci incontreremo lì; recati lì e apri un bar. Abbiamo servito il miglior caffè della regione e abbiamo potuto fare anche altre cose. Abbiamo avuto contatti con i nordcoreani il più spesso possibile e, insieme a Dio e Gesù, abbiamo fornito loro aiuto". ("“主说,去朝鲜吧,我会在那里与你相见,去开一家咖啡馆。我们提供了(中朝)边界地区最好的咖啡,我们也做了其他一些事情。我们尽量接触朝鲜,与上帝一起,与耶稣一起,并为此提供援助”。)
Rispetto alla versione originale in inglese, i media cinesi hanno eliminato il contesto in cui Garrat ha ricevuto il messaggio di Dio, durante un incontro di preghiera, ma per il resto è piuttosto fedele. nel riprendere il contenuto di un pezzo del Globe and Mail, il Huanqiu sottolinea che i Garrat "hanno fornito ospitalità a molti giornalisti occidentali che venuti a Dandong si sono seduti al loro bar. Lì hanno potuto guardare fuori dalla finestra verso il Sino-Korean Friendship Bridge e controllare la situazione, situazione che ha permesso loro di avere una comprensione più sottile della potente e decisiva relazione tra Cina e Corea del Nord".
La copertura dei media cinesi ha privilegiato un'interpretazione dell'arresto collegata alle accuse incrociate con il Canada, rendendo la versione di Charles Burton molto più verosimile ("Il fatto che le accuse di hackeraggio mosse ai computer del PLA siano false fa parte di questo messaggio di scherno al nostro Primo Ministro").
In generale si può dire che il Huanqiu Shibao, quotidiano di punta della politica estera cinese gestito dal People's Daily, abbia scelto di inserire il caso di spionaggio a Dandong nel quadro più ampio delle relazioni sino-canadesi. Almeno così è come viene trattato nella Repubblica popolare: nel pezzo del 7 agosto il Huanqiu si concentra quasi esclusivamente su come la storia ha rivelato la confusione e l'impotenza di Stephen Harper [il Primo Ministro canadese]. Comunque il caso è stato quasi ignorato dagli organi d'informazione cinesi, nonostante ultimamente siano piuttosto ricettivi per quanto riguarda lo sviluppo del fondamentalismo religioso nelle aree di confine (sopratutto nello Xinjiang) che deve essere monitorato, riferito e combattuto.
Un altro articolo del Huanqiu piuttosto esteso riporta il commento di Wang Qiang, per il quale forze straniere (compresa Taiwan) sono state in grado di muoversi [in Cina] attraverso canali commerciali "a causa di una crescita economica troppo repentina e con regolamentazioni inadeguate". Per questo avverte il popolo cinese a stare in guardia da queste aziende estere. Il medesimo articolo riprende un'analisi di AFP, ma nel modo tipico in cui la Cina è solita parlare della Corea del Nord. La decisione di Pechino di chiudere il caffè è dovuto anche al fatto "di voler eliminare rimuovere una fonte di fastidio per il vicino alleato" (为了帮好朋友除掉麻烦) che si trova ad avere problemi con cristiani troppo zelanti. Vi è una certa ironia nel fatto che proprio la Cina, che da tempo pone l'attenzione sul bisogno di migliorare l'ambiente per gli investimenti in Corea del Nord, sia ora diventata un posto poco raccomandabile per gli stranieri che vogliono fare affari.
La Cina e il dilemma dell'Unione Eurasiatica
Molti la considerano una pezza a colori per coprire la debacle diplomatica di Putin in Ucraina. Ma l'EEU (Unione economica eurasiatica) è sopratutto un ambizioso piano di ricomposizione economica che mira a ricreare sulle rovine dell'ex Unione Sovietica un'entità transnazionale in grado di rendere la Russia un centro di interazione e stabilità politica tra Asia, Europa e America. Il tutto grazie alla sua posizione geografica e ad un bagaglio ideologico eurasista opportunamente alleggerito dei suoi contenuti più oltranzisti.
Lo scorso maggio, trattato di Astana ha rafforzato le basi dell'Unione doganale che dal 2010 annovera tra i suoi membri Russia, Bielorussia e Kazakistan e dal 1 gennaio 2015 prenderà le sembianze di un'Unione economica eurasiatica con il probabile ingresso di Armenia, Kirghizistan e Tajikistan. Un'organizzazione che aspira, senza giri di parole, a rivaleggiare con i grandi blocchi internazionali quali Unione europea, Stati Uniti, Cina e APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation) e dovrebbe garantire (almeno sulla carta) la libera circolazione di beni, servizi, capitali e forza lavoro fra i Paesi aderenti. Calcolando soltanto Russia, Kazakistan e Bielorussia si parla già di 170 milioni di consumatori, 2.700 miliardi di dollari di Pil aggregato, 20% delle riserve di gas mondiale e 15% di quelle petrolifere.
Se i numeri sembrerebbero suggerire una rimonta russa nel tradizionale 'cortile di casa', Mosca tuttavia prosegue la ricostruzione eurasiatica orba della sua pietra angolare: il divorzio dall'Ucraina, ormai sempre più 'europea', probabilmente implicherà uno spostamento del baricentro dell'EEU verso Oriente -l''idea di trovare un posto sotto il cappello moscovita parrebbe non dispiacere nemmeno a Vietnam, Nuova Zelanda, Turchia e Israele- mentre le regioni asiatiche della Russia, ancora poco sfruttate per mancanza di infrastrutture, potrebbero fare da volano alla crescita del Paese, da luglio ufficialmente in recessione. Proprio lunedì è stato dato il via ai lavori per la costruzione della China-Russia East Route, gasdotto che stando all'agenzia di stampa cinese 'Xinhua' «possiede un grande significato per il ringiovanimento della base industriale tradizionale della Cina nordorientale e lo sviluppo dell'Estremo Oriente russo». Buoni proposito contro i quali tuttavia remano una serie di gruppi liberali filoccidentali, ultranazionalisti e burocrati del Far East russo ostinatamente contrari a un'eccessiva dipendenza dalla Cina.
Se a prevalere tra i due giganti regionali sarà una comunione d'intenti o una sovrapposizione d'interessi è ancora tutto da vedere. Per Andrej Grosin del Russian Instituite for CIS Countries, non ci sarebbe alcuna rivalità tra Mosca e Pechino, giacché l'espansione cinese in Asia Centrale finora è costato più all'Occidente che alla Russia. Proprio l'Occidente sembrò essere il target del discorso con cui, nel 2011, Putin annunciò il progetto per un'Unione eurasiatica, giusto a ridosso da un fallimentare summit Ue tenutosi a Varsavia con lo scopo di attrarre sei ex Repubbliche Sovietiche (Armenia, Arzebaijan, Georgia, Moldavia, Ucraina e Bielorussia) nell'orbita di Bruxelles. La famosa 'Eastern Partnership' nell'ambito della quale Kiev, Tbilisi e Chisinau hanno recentemente siglato Accordi di Associazione. (Segue su L'Indro)
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