sabato 27 settembre 2014

Che fine faranno i minatori?


L'impegno della Cina contro il cambiamento climatico vale 6 milioni di dollari e molte promesse. Ma l'obolo versato da Pechino alla crociata ambientalista dell'Onu non è bastato a distogliere l'attenzione dalla sedia lasciata vuota da Xi Jinping. L'assenza del Presidente cinese al Climate Summit 2014 è stata da molti interpretata come un autogol politico, uno scivolone diplomatico da parte del gigante asiatico primo emettitore al mondo di gas serra. E poco importa che a 'bigiare' siano stati anche leader della caratura del Premier indiano Narendra Modi e della Cancelliera tedesca Angela Merkel.

Lunedì scorso, giusto alla vigilia del summit, l'organizzazione Global Carbon Project ha annunciato per la prima volta il sorpasso di Pechino su Bruxelles quanto a emissioni pro-capite. Secondo gli ultimi rilevamenti degli scienziati - contestati da Pechino- la Cina emette 7,2 tonnellate di CO2 pro-capite, contro le 6,8 tonnellate dell'Unione Europea. Dal 2000 la Cina rappresenta da sola due terzi della crescita globale di emissioni di anidride carbonica. Mentre America ed Europa stanno riducendo le loro emissioni di 60mila tonnellate l'anno, la Repubblica popolare aumenta le proprie di oltre 500mila. Un pericolo per il mondo intero, grida l'Occidente. Dal regno di Mezzo rispondono che la Cina, nel pieno di «un processo di industrializzazione e urbanizzazione», non sta facendo altro che seguire il percorso tracciato dalle economie (ormai) mature: «Prima si inquina, poi si pulisce». Senza contare che un quarto delle emissioni deriva dalla produzione di quelle 'cineserie' destinate ai mercati esteri.

I numeri, tuttavia, non sono dalla sua: se da una parte l'economia cinese conta per il 16% della produzione mondiale, dall'altra consuma tra il 40% e il 50% delle riserve globali di carbone, rame, acciaio, nichel, alluminio e zinco. Non è difficile scorgere i sintomi di un'ipertrofia che risale all'epoca di Mao, quando l'utilizzo dell'energia era tutt'altro che oculato. Tra il 1950 e il 1978, il consumo energetico per unità di Pil è addirittura triplicato. Nei primi anni '90, all'alba della sua crescita iperbolica, la Cina utilizzava ancora 800 tonnellate di carbone per 1 milione di dollari di produzione, molto più di altri Paesi in via di sviluppo. Tutt'oggi, l'energia che serve alla seconda economia mondiale, dipende dal carbone per oltre il 65%; circa 3,8 miliardi di tonnellate all'anno, un quantitativo quasi pari a quello consumato da tutto il resto del pianeta messo insieme e che nel 2015 dovrebbe salire a 4,1 miliardi di tonnellate se non di più.

Conscio dell'aggravarsi della situazione agli occhi del mondo così come dei suoi sempre meno malleabili cittadini (lo dimostra la crescita esponenziale delle proteste ambientali), Pechino ha lanciato una 'rivoluzione verde' che ha come scopo primario l'emancipazione dal carbone. Intorno alla metà del giugno 2013 il Governo cinese ha annunciato un primo pacchetto di misure volte a limitare l'inquinamento atmosferico, partendo dall'inasprimento delle pene per i reati ambientali. In accordo con il nuovo paradigma di crescita (sostenibile) sponsorizzato dall'amministrazione Xi Jinping-Li Keqiang, i funzionari locali saranno direttamente responsabili per la qualità dell'aria nella zone di loro competenza. Si è poi parlato di incrementare l'uso delle rinnovabili al 20% del fabbisogno entro il 2020, mentre 275 miliardi di dollari andranno a irrobustire la lotta all'inquinamento nei prossimi cinque anni. Una somma che l''Economist' ha definito «seria anche per i parametri cinesi, pari al Pil di Hong Kong o due volte il budget destinato alla Difesa». (Segue su L'Indro)

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