mercoledì 24 settembre 2014
Pechino comodamente tra Iraq e Kurdistan
Spesso si dice che a vincere la guerra d'Iraq, in realtà, sia stata la Cina. Prima dell'invasione americana (2003), l'industria petrolifera irachena soffriva l'isolamento causato dalle sanzioni internazionali contro il Governo di Saddam Hussein. All'indomani della fine del conflitto, culminato nell'esecuzione del dittatore, il Paese mediorientale riaprì al mondo l'accesso alle proprie riserve energetiche. Il gigante asiatico non si fece trovare impreparato. Pur di mettere le mani sul petrolio iracheno, accettò condizioni contrattuali limitanti incurante dei bassi profitti. Una propensione al rischio che gli deriva dalla libertà di cui godono i giganti nazionali degli idrocarburi, tutti di proprietà dello Stato e pertanto svincolati dalle responsabilità di cui normalmente le società private debbono rispondere davanti al proprio azionariato.
Risultato: oggi Pechino compra quasi la metà del petrolio che l'Iraq produce affermandosi come primo investitore straniero nel settore energetico locale. Le importazioni cinesi sono schizzate dai 300mila barili al giorno del 2012 ai 720mila dell'aprile 2014. Secondo quanto riportava lo scorso anno il 'New York Times', la Cina ha investito nel Paese oltre 2 miliardi di dollari all'anno. 10mila cinesi lavorano in Iraq nel comparto energetico, edile e delle telecomunicazioni, fattore che moltiplica gli oneri delle autorità del gigante asiatico per quanto riguarda la tutela dei propri cittadini. Una questione diventata più pressante da quando, nel marzo del 2011, in seguito al collasso del regime del leader libico Gheddafi, Pechino fu costretto ad inviare mezzi militari in terra straniera per procedere con l'evacuazione di quasi 36mila cinesi. Nonostante i principali interessi del Dragone siano concentrati nel Sud dell'Iraq, la recente ondata di violenza e tensioni settarie scatenate dall'ISIS non può non preoccupare la Cina. Eventuali interruzioni delle forniture peserebbero per oltre il 10% delle importazioni totali di greggio. L'aumento dei costi che ne deriverebbe rischia di frenare ulteriormente la ripresa della seconda economia del mondo: si stima che un rincaro di 10 dollari dei prezzi del petrolio costerebbe alla Repubblica popolare una riduzione del Pil dello 0,2%.
Già in passato il pragmatismo dei cinesi, fautori del business tout court scevro da sfumature politiche e religiose, ha permesso a Pechino di smarcarsi da situazioni difficili. Quando, nel 2003, gli Stati Uniti sospesero le concessioni petrolifere del Dragone in Iraq, i cinesi non si persero d'animo; semplicemente cambiarono partner indirizzando le proprie mire energetiche in Kurdistan. Dal 1991 la regione settentrionale irachena gode di una certa autonomia, divenuta effettiva solo dopo la caduta di Saddam nel 2003. Da quel momento la regione è diventata la parte più stabile dell’Iraq con doti promettenti da 'Dubai del futuro'. Secondo liste governative, al momento in Kurdistan operano 17 compagnie cinesi, tra cui la società petrolifera DQE e la statale Sinopec. Quinta azienda al mondo per fatturato, Sinopec è entrata nel mercato curdo nel 2009 con l'acquisizione della canadese Addax Petroleum, impegnata nello sviluppo del sito di Taq Taq. Ad oggi si tratta ancora della maggior acquisizione (7,2 miliardi di dollari) mai effettuata da una compagnia energetica cinese a livello internazionale.
Ultimamente Secondo fonti 'Reuters', la Cina, che consuma energia più di qualsiasi altro Paese al mondo, sarebbe in trattative con Erbil per la consegna di 4 milioni di barili di petrolio. Una mossa che, se confermata, potrebbe risultare indigesta a Baghdad, che considera le vendite di petrolio curdo 'illegali'; il petrolio appartiene al Governo centrale che per il suo sfruttamento paga dei fondi al Governo autonomo del Kurdistan. Da parte sua, il KRG (Kurdistan Regional Government) ritiene il proprio business giuridicamente valido in base a quanto stabilito -in maniera poco nitida- dalla costituzione irachena. Il problema è che se il KRG necessita delle entrate per finanziare i suoi combattenti e fronteggiare l'emergenza rifugiati, per Baghdad gli introiti derivanti dalle vendite indipendenti di petrolio potrebbero venire destinati alla costruzione di uno Stato curdo indipendente.
Attualmente il Kurdistan è un’entità dotata di un’amministrazione autonoma e proprie forze armate; l'intesa raggiunta con grandi società petrolifere straniere, nei piani del KRG, dovrebbe contribuire al raggiungimento dell’indipendenza economica. Un obiettivo tutt'altro che impossibile. Secondo stime ufficiali, il Kurdistan ospita il 40% delle risorse petrolifere irachene. Dal mese di maggio, 11 milioni di barili di greggio curdo hanno preso il largo dal porto di Ceyhan, nella Turchia meridionale, verso mete ignote. Pare che dopo la mancata vendita di greggio negli Stati Uniti, sfociata quest'estate in un guazzabuglio legale, il Kurdistan sia in cerca di nuovi clienti. Tra luglio e agosto 140 milioni di dollari di petrolio sono rimasti bloccati a largo delle coste statunitensi. Sebbene Washington non vieti esplicitamente l'acquisto di 'oro nero' curdo, tuttavia non nasconde le molte incognite che adombrano le consegne nel tentativo di cautelare le compagnie americane. Stando alla 'Reuters', lo scorso mese, almeno tre carichi da 1 milione di barili ciascuno hanno lasciato Ceyhan diretti verso l'Asia. L'ex Impero Celeste potrebbe essere il misterioso capolinea.
"Si suppone che a giugno Israele abbia ricevuto la sua prima spedizione di petrolio curdo", spiega a 'L'Indro' Yitzhak Shichor, Professore emerito e Direttore del Dipartimento di Studi dell'Asia Orientale presso l'Università di Haifa, "Dal momento che Gerusalemme ha ricevuto la maggior parte del suo petrolio dall'Azerbaijan e dal momento che il petrolio curdo è arrivato nel distretto meridionale di Ashkelon (dove inizia la Trans-Israel pipeline diretta a Eilat) è possibile che Israele non sia stata la meta finale e che il greggio curdo sia finito più a est". (Segue su L'Indro)
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