Quando nel marzo del 2012 Xi Jinping assunse la presidenza della Repubblica popolare cinese, di lui si sapeva ben poco salvo che la sua appartenenza alla cerchia dei 'principini rossi', gli eredi degli eroi della Rivoluzione comunista, potesse essere di buon auspicio. Il padre Xi Zhongxun, ex Vicepremier dalle inclinazioni notoriamente liberali, era infatti legato al Dalai Lama da un'insolita amicizia, tanto che omaggiato da Sua Santità Tenzin Ghiatso di un orologio parecchio costoso, si racconta, abbia continuato a indossarlo per molti anni. In mancanza di dati concreti, l'ipotesi che Xi junior potesse seguire le orme paterne è stata accarezzata dagli esperti di 'cose cinesi' fin dai primi mesi del nuovo Governo. Quello passato, guidato dall'ex Presidente Hu Jintao (2002-2012), non ha certo brillato per rispetto dei diritti umani, macchiato com'è dall'arresto del Premio Nobel per la pace, Liu Xiaobo, e dalle politiche 'neocolonialiste' adottate in Tibet, ripagate con una lunga scia di autoimmolazioni che dal 2009 a oggi ammontano ad oltre 120 morti nel fuoco.
A due anni dal ricambio al vertice, anche i più ottimisti hanno dovuto riconoscere che il percorso seguito dalla Cina di Xi Jinping - almeno per quanto riguarda la tutela della società civile - non prevede alcuna brusca sterzata. Nonostante l'annuncio di riforme mirate ad implementare il sistema giudiziario, nell'ultimo anno il giro di vite ai danni di attivisti e dissidenti si è fatto più stringente. Ma mentre dalle organizzazioni per la difesa dei diritti umani piovono critiche, l'uomo forte di Pechino sembra, tuttavia, essere riuscito a tenersi stretto ancora un ultimo fan. Sarà per il ricordo paterno, ma nonostante la retorica di regime continui a definirlo «un lupo travestito da agnello» con velleità indipendentiste, recentemente il Dalai Lama è tornato a descrivere Xi come "più aperto" rispetto ai suoi predecessori. Complice le buone parole spese dal Presidente nei confronti della religione Buddhista nell'ambito di una campagna di rivalutazione dei culti autoctoni mirata a riempire il vuoto ideologico da cui la società cinese contemporanea è affetta.
Negli ultimi tempi è parso che qualcosa si stesse muovendo tra Pechino e Dharamsala, sede del Governo tibetano in esilio indiano dal 1960. Ufficialmente i rapporti tra autorità cinese e tibetane sono congelati dal 2010, il Dalai Lama non mette piede in Cina dal '59, ma voci su un suo rimpatrio si rincorrono da mesi. Le indiscrezioni sono partite da un'intervista rilasciata a 'The Hindu' da Wu Yingjie, Vicesegretario del Partito della Regione autonoma del Tibet, in cui si parla di colloqui in corso per un suo ritorno in Tibet: «Tutti i tibetani, compreso il Dalai Lama e le persone intorno a lui possono tornare, basta che riconoscano il Tibet e Taiwan come parte della Cina e rinuncino a mettere in atto sforzi separatisti». Ma alla domanda se il dialogo possa essere esteso alle autorità politiche di Dharamsala, Wu ha lasciato intendere che oggetto di discussione è soltanto il futuro del leader spirituale, non lo status del Tibet.
La notizia, ripresa in prima battuta quasi esclusivamente dai media indiani, è balzata all'attenzione della stampa internazionale nel momento in cui, il 17 settembre, un blog anonimo sul sito cinese Sina.com ha ripreso ulteriori rumors riguardo una visita del Dalai Lama al monte sacro Wutai, nella provincia settentrionale dello Shanxi. Lodandola come una situazione "win-win", l'ignoto internauta ha fatto notare come una riappacificazione con Tenzin Ghiatso sottrarrebbe all'Occidente uno degli argomenti branditi più frequentemente contro la Cina e «permetterebbe al Segretario Xi di mettere a segno varie vittorie con una mossa sola»; il soft power del Dragone ne gioverebbe immensamente. (Segue su L'Indro)
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