sabato 21 aprile 2018

In Cina e Asia



Il difficile processo di pace tra le due Coree

Un accordo di pace tra le due Coree non è una cosa né semplice da realizzare. Lo sottolineando gli esperti mettendo in evidenza come Seul — tecnicamente ancora in guerra con il Nord — non sia tra i firmatari dell’armistizio che nel 1953 ha messo fine al conflitto. Al tempo a siglare l’accordo furono infatti il comandante dell’esercito della Corea del Nord, il comandante americano del Comando delle Nazioni Unite e il comandante dei “volontari del popolo cinese”. “Tecnicamente non è possibile che le due Coree annuncino la fine dell’armistizio del 1953 al summit della prossima settimana”, ha detto Park Jae Jeok, professore all’Università di Studi Stranieri di Hankuk a Seoul.

Pyongyang e Seul potranno tuttavia raggiungere un’intesa di massima sul processo di pace in attesa dello storico faccia a faccia tra Kim Jong-un e Trump. Secondo la CCTV, ci sarebbe in programma anche un’imminente trasferta di Xi Jinping a Pyongyang per ricambiare la recente visita del leader nordcoreano. E’ dagli anni ’70 che il Regno Eremita valuta al stesura di un trattato che metta definitivamente un punto alla guerra. L’ultimo vertice intercoreano dell’ottobre 2007 si è concluso con una dichiarazione delle due Coree sulla “ necessità di porre fine al regime di armistizio attuale e costruire un regime di pace permanente”. Secondo il portavoce del ministero per l’Unificazione sudcoreano sarà quello il punto di partenza per i nuovi negoziati. Rimane l’incognita Cina: difficilmente infatti Pechino accetterà le condizioni presentate dagli altri interlocutori a meno che non sia inclusa la rimozione della massiccia presenza militare americana a sud del 38esimo parallelo.

La a distensione tra le due Coree avviene mentre Pyongyang e Washington intrattengono “colloqui al vertice”, come attesta il confermato incontro tra il capo della CIA Mike Pompeo e Kim Jong-un, primo contatto ai massimi vertici dei due paesi da quando nel 2000 l’allora segretario di Stato Madeleine Albright incontrò Kim Jong-il per colloqui strategici.

Pechino ha un nuovo nemico: l’inquinamento indoor

Secondo un rapporto del Health Effects Institute (HEI) , in Cina 1,6 milioni di persone muoiono ogni anno per l’inquinamento. Gli obiettivi prefissati da Pechino per tagliare le particelle nocive PM2,5 potrebbero tuttavia non bastare dal momento che a incidere negativamente sulla salute non è soltanto lo smog outdoor. Secondo il presidente di HEI Dan Greenbaum, le autorità dovrebbero concentrarsi soprattutto sulle campagne, dove l’inquinamento indoor causato dalla combustione diretta del carburante è responsabile per oltre un terzo dei decessi annui. L’inalazione dei fumi generati dalla combustione interna di carbone o biomasse per cucinare e riscaldare le abitazioni è associata al più alto tasso di malattia polmonare ostruttiva cronica nelle zone rurali. E mentre il governo fornisce incentivi che consentono alle famiglie di passare al gas naturale e a biogas più puliti da suini e bovini, nelle metropoli cinesi le grandi catene alberghiere cominciano ad annoverare tra i comfort offerti il monitoraggio della dell’aria nelle stanze e negli ambienti comuni affinché sia di qualità superiore a quella respirata all’esterno.

Xinjiang: gli Usa valutano sanzioni contro i responsabili della repressione

Gli Stati uniti potrebbero annunciare sanzioni contro i responsabili della repressione in atto nella regione autonoma dello Xinjiang, popolata dalla minoranza islamica degli uiguri a cui Pechino attribuisce la paternità di una serie di attacchi terroristici. Lo ha annunciato Laura Stone, vice segretario di Stato americano pro tempore, mostrando preoccupazione per le “decine di migliaia” di uiguri internati nei centri di detenzione extragiudiziari da quando alla guida della regione siede Chen Quanguo, ex segretario del Tibet. Le misure verrebbero attuate attraverso il Global Magnitsky Act, che consente al governo statunitense di imporre restrizioni su beni e viaggi all’estero di soggetti in qualsiasi parte del mondo, a fronte di prove credibili del loro ruolo nelle violazioni dei diritti umani o in casi di corruzione. Appena pochi giorni fa i leader repubblicani del Congressional-Executive Commission on China hanno esortato l’ambasciatore Terry Branstad a verificare personalmente la situazione nello Xinjiang. Secondo Radio Free Asia, sono 120mila i detenuti nei centri di rieducazione.

Il Myanmar concede l’amnistia a 8500 prigionieri


Mentre non si placano le critiche per il trattamento dei rohingya, il nuovo presidente del Myanmar, Win Myint, ha concesso l’amnistia a oltre 8.500 prigionieri, tra i quali 36 prigionieri politici, in concomitanza con il tradizionale Capodanno del Myanmar, il Thingyan. La grazie riguarda 8.490 cittadini birmani e 51 stranieri, che sono stati liberati il 17 aprile. Si tratta di prigionieri già condannati in tribunale per diverse tipologie di reati. Restano invece in carcere due giornalisti dell’agenzia di stampa Reuters, Wa Lone e Kyaw Soe Oo, arrestati per violazione della legge sulla libertà di stampa e per il possesso di documenti ufficiali segreti. L’ultima amnistia è la più consistente da quando Aung San Suu Kyi è stata eletta leader di fatto nel 2016. Ma da allora il numero di persone accusate di aver violato una dura legge sulla diffamazione online è schizzato alle stelle. Altri arresti sono avvenuti con l’accusa di associazione illegale o sotto una vaga legislazione che criminalizza la circolazione di informazioni portatrici di disarmonia pubblica.

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