mercoledì 4 aprile 2012

Bald Girls: arte e femminismo al 798


(Scritto per Uno sguardo al femminile)

Parigi 1950. Con “La cantatrice calva” (“The Bald Prima Donna”) Eugene Ionesco dava il via al teatro dell’assurdo realizzando – come dichiarò lui stesso – un’anticommedia in cui la vicenda subisce uno straniamento, declinata in una realtà multipla e parodistica.

Pechino, 3 marzo 2012. Dopo piu’ di cinquantanni l’opera del drammaturgo francese ispira tre nomi noti del panorama artistico cinese. Xiao Lu, Li Xinmo e Lan Jing recidono le loro chiome e inaugurano “Bald Girls,” mostra tutta al femminile ospitata, fino al 3 Aprile, dall’Iberia Center of Contemporary  Art del 798, il noto distretto degli artisti della capitale cinese.

Il messaggio è tagliente, il nome stesso una dichiarazione d’intenti. In un gioco di assonanze, la parola cinese canzone (ge) nel nome dell’esposizione (il titolo in mandarino è “Tutou ge nu”) viene rimpiazzata con un suo omofono indicante un’antica ascia, perché oggi in Cina – affermano le tre donne – l’arte femminile non deve intrattenere, ma combattere. Perché oggi, nella Cina dei record, la questione dei diritti delle donne rappresenta ancora uno dei capitoli più bui della società contemporanea.

«Al giorno d’oggi in Cina il problema dei diritti delle donne è molto molto serio» ha raccontato Xiao Lu durante una conferenza stampa all’interno della mostra.

La situazione giuridica delle cinesi dei nostri giorni, ha affermato Li Xinmo, puo’ essere paragonata a quella delle donne americane degli anni ’70; abusi sul lavoro e violenze in famiglia, la legge cinese non tutela sufficientemente “l’altra metà del Cielo”, in un Paese in cui è assai arduo rinvenire tra le pieghe della storia tracce di un movimento femminista.

«In Europa e negli Stati Uniti il femminismo esiste da cinquant’anni, ma in questo Paese nessuno ha il coraggio di parlare dei diritti delle donne, senza contare che i diritti umani sono ancora un taboo» ha dichiarato Li in una recente intervista.

Mentre alla fine degli anni 60’ gli slogan delle “streghe” facevano tremare l’Occidente, nel Regno di Mezzo la de-sessualizzazione imposta sotto la Rivoluzione Culturale (1966-69) aveva annullato qualsiasi distinzione di genere, mortificando la femminilità stessa. La partecipazione alla lotta di classe e alla crescita del Paese si era esplicata anche attraverso l’imposizione dell’uniformità tra i sessi; studentesse e lavoratrici dai capelli corti, insaccate nelle smorte divise maoiste. “L’eredità rossa” ha indotto il popolo cinese a maturare una percezione del proprio corpo atipica, e cio’ si riflette immancabilmente anche nell’arte performativa, ha dichiarato l’artista colombiana Sandra Miranda Pattin.

Così “Bald Girls” nasce con lo scopo di dare voce a quel femminismo mai germogliato in terra cinese e, sfiorando confini anacronistici, rievoca e conferma il ruolo rivoluzionario dell’arte.

Il governo di Pechino non ha gradito. Alla vigilia della mostra alcuni poliziotti in borghese hanno fatto irruzione nella sala esposizioni portando via i due pezzi più provocatori. Uno, un’autoritratto di Lan Jing ad immagine e somiglianza di Jiang Qing, la controversa moglie di Mao, l’altro una documentazione di una performance nella quale l’artista prende a calci l’immagine dell’archistar e dissidente Ai Weiwei, a rimarcare con la violenza dell’atto la frase che compare sul dipinto “kick him to death”; una chiara critica contro il giro di vite messo in atto dal Partito ai danni degli attivisti.

Ma le “bald girls” non sono certo nuove a questo tipo di messaggi a tinte forti, e i loro precedenti artistici affondano le radici nel movimento d’avanguardia. Xiao Lu, per intenderci, è la madre dell’arte femminista cinese; con un colpo di pistola volle denunciare al mondo intero la natura  tutta maschile del panorama artistico cinese.

Era il 5 febbraio del 1989, solo quattro mesi dopo si sarebbe consumata la tragedia di piazza Tiananmen, nella Galleria Nazionale d’Arte di Pechino si teneva l’inaugurazione della storica esibizione China/Avantgarde (zhongguo xiandai yishuzhan), prima esposizione d’arte non ufficiale organizzata con il consenso delle autorita’. Xiao Lu e il suo compagno Tang Song sparano due colpi contro le parti in vetro della loro installazione Dialogue. L’episodio, per anni arricchito di connotazioni socio-politiche dalla critica, sarebbe stato chiarito tempo dopo dall’artista stessa in un libro. L’opera nasce da un cuore spezzato, da una sofferenza amorosa ed e’ proprio dall’amore che scaturisce la sua rivoluzione femminista. «Penso che l’amore sia una specie di religione» ha affermato Xiao.

Non meno ribelle e’ Li Xinmo, donna silenziosa ma d’incredibile forza, si concentra sull’arte performativa analizzando il rapporto tra performance, pittura e video. Ha realizzato diversi dipinti mescolando inchiostro e sangue mestruale; tutti i suoi lavori sono permeati da stretti richiami al corpo e alla fisicità, mentre uguaglianza e libertà sono l’humus ideologico che nutre la sua produzione artistica.

In continua lotta per i diritti umani e delle donne, le sue perfomance sono una chiara denuncia verso la morale e l’etica costruita sulle convenzioni sociali. Li, attraverso l’arte, riesamina tutte le forme e le possibilità espressive del femminismo cinese nascente, riproiettando nelle sue opere la dicotomia donna-codici sociali. Ma femminismo non vuol dire battaglia dei sessi, né si traduce nell’odio verso la figura maschile, piuttosto – ha dichiarato l’artista – «ciò che bisogna odiare è il maltrattamento delle donne e l’incomprensione mostrata nei loro confronti».

Discorso a parte per la numero tre. Anche Lan Jing ha calpestato le orme del movimento artistico dell’ ’89, ma il trasferimento in Occidente (oggi è di base in Germania) ha inevitabilmente influenzato la sua carriera, smorzando quell’ansia di stravolgere lo status quo tanto evidente in Xiao Lu e Li Xinmo. Sarà per l’aver assaporato i frutti dell’emancipazione occidentale che oggi ripropone una sua visione del femminismo incarnata nel “godimento del benessere fisico, nell’equilibrio tra carriera e famiglia, nonché nell’assimilazione della duplice essenza di Est ed Ovest”.

Ora, a ventitrè anni dalla rivoluzione di Dialogue, “l’altra metà del Cielo” può dire di aver fatto dei passi avanti nella conquista dei propri diritti in ambito artistico e sociale? Le statistiche mostrano che nel mercato delle aste, nella rappresentanza delle gallerie e nel collezionismo gli uomini la fanno ancora da padroni, in Cina così come in Occidente. Sulle più rinomate pubblicazioni del settore come VitaminaP e Cream la presenza femminile si attesta soltanto intorno al 27% e il 30%, stessa percentuale nelle Biennali di maggior prestigio come quella di Venezia, mentre nei musei del calibro del Metropolitan di New York solo il 3% delle opere esposte reca la firma di un’artista donna.

Negli anni ’80 Joanna Frueh, critica d’arte americana, scrisse un saggio nel quale spiegava come il linguaggio artistico sia sempre stato modellato e codificato dagli uomini. La struttura accademica per la redazione di opere critiche è basata sulla percezione maschile e sui suoi schemi mentali.

«Per anni le donne hanno cercato di adattarsi al “linguaggio degli uomini” per poter esprimere sé stesse, ora è giunto il momento di creare una nostra lingua» ha scritto Sandra Miranda Pattin in un recente articolo sull’esposizione del 798.

Intanto, dal distretto creativo di Pechino le tre artiste hanno lanciato un primo segnale. Con il rito della rasatura hanno sfidato la tradizione e i canoni della bellezza femminile. Hanno sacrificato le loro chiome corvine, recidendo i legami con i valori imposti da secoli di Confucianesimo. «Lo abbiamo fatto per dare espressione ai nostri sentimenti» ha spiegato Li «perché in Cina nessuno vuole prendere coscienza del problema che le donne non hanno diritti. Come le donne stesse non vogliono ammettere di essere femministe».

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