Mentre i controlli nella regione autonoma occidentale dello Xinjiang si fanno più pressanti, le manovre coercitive di Pechino non sembrano sortire i risultati sperati. Il 20 giugno, Jume Tahir, l'imam della moschea di Kashgar, la più grande della Repubblica popolare, è stato accoltellato a morte per aver lodato le politiche del Partito comunista attribuendo agli estremisti della minoranza musulmana uigura la responsabilità dell'esacerbare delle violenze. Alcuni giorni fa la stampa cinese ha riportato la notizia della chiusura di 27 luoghi di ritrovo utilizzati segretamente per la preghiera; 44 imam 'illegali' sono stati arrestati a Urumqi, capitale provinciale dello Xinjiang, nell'ambito di un'operazione che ha portato al 'salvataggio' di 82 bambini prelevati dalle madrasa, le scuole religiose esterne al sistema delle moschee statali (rigidamente monitorate da Pechino) e per questo avvertite dalle autorità come un pericolo. Ogni anno funzionari locali, studenti, insegnanti e dipendenti pubblici vengono invitati ad ignorare le festività religiose. Eppure i divieti non sono ancora riusciti a debellare le pratiche proibite, anzi: indossare il velo integrale sta diventando una forma di resistenza pacifica che suggerisce una progressiva radicalizzazione degli uiguri in risposta alle misure repressive adottate dal Governo centrale.
"Il Partito sta cercando di tranquillizzare i membri dell'etnia maggioritaria han dello Xinjinag sul fatto che è completamente in grado di mantenere la stabilità nella regione, e ha scelto di farlo vietando barbe e foulard", ci dice Gardner Bovingdon, Professore associato di Studi euroasiatici presso l'Indiana University, "ovviamente queste politiche offendono la sensibilità di molti uiguri -non soltanto di quelli che vorrebbero portare la barba e indossare il velo- che si considerano tutti sospettati terroristi. Questo è quanto finiscono per pensare tanto gli han che gli uiguri. D'altra parte, le misure assunte non sembrano far molto per la stabilità e la sicurezza dello Xinjiang, piuttosto stanno allontanando molti uiguri riaffermando quanto il Partito vorrebbe in realtà negare: ovvero che la loro fede e le loro 'scelte sartoriali' rendono gli uiguri categoricamente diversi dagli han, e che per tale ragione debbono essere trattati in modo differente".
Il pugno di ferro riservato alla minoranza del 'Far West' cinese rientra in una più ampia campagna di prevenzione dalle contaminazione esterne, che finisce per travolgere anche la dimensione religiosa. Le influenze occidentali rendono il Cristianesimo un ospite poco gradito in Cina; quelle in arrivo dal Medio Oriente agitano il fantasma di una jihad oltre la Muraglia. A dimostrazione di come ciò che più preoccupa la leadership cinese non sia tanto la fede in sé, quanto la possibilità che l'adesione ad un culto possa prevalere sulla lealtà al Partito e farsi portatrice, per vie traverse, di aspirazioni secessioniste -come avvenuto in Tibet e Xinjiang. "Gli uiguri vivono nel sospetto di essere ritenuti politicamente infedeli, mentre il Governo li ritiene più facilmente critici verso il Partito e le sue politiche", continua Bovingdon, "questa diffidenza viene condivisa anche dai cittadini comuni dell'etnia han per i quali portare la barba o il velo è segno di un fanatismo religioso potenzialmente pericoloso per la propria incolumità. Si tratta di una credenza ormai radicata -sebbene non basata su prove concrete- e pertanto difficile da cambiare". (Segue su L'Indro)
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