giovedì 3 marzo 2016

L'Energy Charter Treaty e la Nuova Via della Seta


Secondo il Ministero del Commercio cinese, nei primi 11 mesi del 2015 gli investimenti diretti esteri da parte di compagnie cinesi hanno coinvolto 49 dei Paesi implicati nel piano One Belt One Road. Si parla di 14,01 miliardi di dollari, un 35,3 per cento in più rispetto all'anno precedente. Nello stesso periodo, la Cina ha siglato accordi per progetti di costruzione con 60 nazioni per un valore di 71,63 miliardi, inanellando un tasso di crescita dell'11,2 per cento. Sono 75 le aree di cooperazione commerciale ed economica istituite in 35 nazioni e regioni, pari a 100 miliardi di dollari di tasse accumulate e 950mila nuovi posti di lavoro creati. Dei 65 Stati compresi nel New Silk Road Project, 38 hanno siglato accordi d'investimento bilaterali (BIT) con il gigante asiatico. Gli altri 27, tuttavia, rimangono esposti a potenziali rischi politici e legali legati ad espropriazioni e trattamenti discriminanti. 

Tale vuoto -suggerisce l'International Law Office- potrebbe essere colmato con l'adesione di Pechino all'Energy Charter Treaty, divenuto effettivo nell'aprile 1998. Il trattato coinvolge 53 paesi firmatari e sostiene la libertà di commercio e di transito nel settore energetico. In particolare, consente agli investitori di uno Stato di avviare un arbitrato contro uno stato ospite sulla base del principio di reciprocità tra i paesi membri, fornendo le stesse protezioni di un BIT. Negli ultimi anni, la Cina ha mostrato un certo interesse per il trattato, del quale dallo scorso anno -con la firma dell'International Energy Charter- è Paese "associato" (un gradino in su rispetto allo status di "osservatore su invito" ottenuto nel 2001). Tuttavia, se da una parte esso costituisce uno scudo per le compagnie della Repubblica popolare operanti oltreconfine, allo stesso tempo potrebbe rivelarsi un'arma a doppio taglio dal momento che fornisce agli investitori stranieri uno strumento contro eventuali violazioni cinesi. 

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